In mostra a Trieste 70 anni di grande fotografia e storia del subcontinente indiano (per la prima volta in Europa)

Senthil Kumaran, da/from Boundaries, 2012-2022 ©Senthil Kumaran

Quello che inaugurerà il prossimo 11 novembre al Magazzino delle Idee di Trieste è un grande progetto, concepito per essere accessibile a tutti, a prescindere dalla preparazione sull’argomento. La mostra “India oggi. 17 fotografi dall’Indipendenza ai giorni nostri”, infatti, sarà monumentale per quantità di materiale esposto, polifonia e qualità delle voci, anzi degli sguardi (visto che di fotografia si sta parlando), che tratteggeranno la storia e il presente indiano dal decennio successivo all’indipendenza dall’Impero Britannico (1947) fino a oggi.

Senza contare che in occasione dell’evento (il primo di così ampio respiro in Europa) sono state raccolte 15 interviste ad altrettanti protagonisti della mostra (tutte registrate in India la scorsa estate). E che quattro tra gli artisti saranno anche all’inaugurazione (Pablo Bartholomew, Amit Madheshiya, Ishan Tanka e Senthil Kumaran Rajendran) e parteciperanno ad un talk con il curatore in serata.

 Con 500 opere (soprattutto foto ma anche video), la mostra curata da Filippo Maggia , coprirà un lasso temporale di oltre 70 anni attraverso gli scatti di: Kanu Gandhi, Bhupendra Karia, Pablo Bartholomew, Ketaki Sheth, Sheba Chhachhi, Raghu Rai, Sunil Gupta, Anita Khemka, Serena Chopra, Dileep Prakash, Vicky Roy, Amit Madheshiya, Senthil Kumaran Rajendran, Vinit Gupta, Ishan Tanka, Soumya Sankar Bose, Uzma Mohsin. Cioè fotografi in senso stretto ma anche fotogiornalisti, artisti, attivisti, curatori e scrittori.

E procederà in senso cronologico (con ampie pause che porteranno gli spettatori dal generale al particolare, permettendogli di entrare in sintonia con la molteplicità e le enormi disuguaglianze del paese più popoloso del mondo). Tuttavia, la velocità dei cambiamenti avvenuti nel subcontinente, potranno lasciare stupiti e, almeno per un momento, interdetti.

Il processo – ha scritto Maggia nel suo testo di introduzione al catalogo – di repentina e inarrestabile evoluzione economica e industriale in atto in India dalla fine dello scorso millennio sta provocando gravi conseguenze sia sociali, quali questioni di genere, identità e religione, sia ambientali. L’inevitabile spopolamento delle campagne e delle zone rurali, dalle pendici dell’Himalaya sino all’estremo sud del Kerala, ha portato al sovraffollamento di metropoli quali Mumbai, Nuova Delhi o Calcutta, con un forte impatto sull’ambiente, che alle volte implica addirittura lo spostamento coercitivo di milioni di persone da una regione all’altra. È di questi temi che si occupa oggi principalmente la fotografia indiana, ormai emancipata dall’immagine tradizionale dell’esotica India colorata di salgariana memoria”.

Si parte dal nipote del Mahatma Gandhi, Kanu Gandhi, che ha ritratto il nonno sia in pubblico che in privato quando praticava la disobbedienza civile, per arrivare a un maestro indiscusso della fotografia indiana come, Raghu Rai (fotografo dell’agenzia Magnum è stato pupillo di Henry Cartier-Bresson), nei cui scatti forma e sostanza convergono. Fino all’India contemporanea rurale, ritratta attraverso i volti ridenti degli indigeni di fronte a film proiettati in sale cinematografiche dal regista (tra l’altro vincitore a Cannes), Amit Madheshiya; o quelli di Senthil Kumaran Rajendran che racconta la difficile convivenza tra tigri e umani.

Per un’India che avanza, dunque, che morde affamata il domani, ce n’è un’altra che soffre, tenuta in disparte a guardare e subire i danni collaterali che il progresso e la necessità di avere largo consenso popolare portano con sé . Come sarà l’India del prossimo decennio, quando siederà al tavolo con le altre potenze economiche mondiali? Hum Dekhenge. Hum Dekhenge, recita in lingua urdu una poesia di Faiz Ahmad Faiz. Vedremo, vedremo…”.

E poi l’ecologia, la crescita smisurata delle città, i diritti umani e le disuguaglianze.

La mostra “India oggi. 17 fotografi dall’Indipendenza ai giorni nostri” sarà al Magazzino delle Idee di Trieste dall’11 novembre 2023 al 14 febbraio 2024. E’ stata prodotta e organizzata dall’ ERPAC (Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia).

Amit Madeshiya, da/from Cinema Travellers, 2010-2014 Courtesy Amit Madheshiya & PHOTOINK

Pablo Bartholomew, Mendicanti Parsi a Fort / Parsi beggars in Fort, c.1980 Courtesy Pablo Bartholomew & PHOTOINK

Khanu Gandhi, Mahatma Gandhi nella zona colpita dai disordini di Noakhali /Mahatma Gandhi in the riot affected area of Noakhali, Novembre/November 1946 Courtesy The Estate of Kanu Gandhi & PHOTOINK

Soumya Sankar Bose, da/from Where the birds never sing, 2017-2020 ©Soumya Sankar Bose/Experimentar Gallery

Ketaki Sheth, Madre e figlia alla Fiera di Mount Mary /Mother and child, Mt Mary Fair, da Bombay Mix –  StreetPhotogrphs 2002 Courtesy Ketaki Sheth & PHOTOINK

Pablo Bartholomew, Dhodi, Zarine e/and Maya, New Delhi, 1975 Courtesy Pablo Bartholomew & PHOTOINK

Dileep Prakash, Edith Garlah, Mussoorie, 2005 Courtesy Dileep Prakash & PHOTOINK

Raghu Rai, Stazione ferroviaria di Churchgate/ Churchgate railway station, 1995 Courtesy Raghu Rai & PHOTOINK

Vicky Roy, Mumbai, Maharashta, India, da/from Bachpan, 2018 ©Vicky Roy

Amit Madheshiya, da/from Cinema Travellers, 2010-201 Courtesy Amit Madheshiya & PHOTOINK

Vinit Gupta, da/from If a tree falls in a forest ©Vinit Gupta

L’universo esoterico di Paulina Olowska, a cui piacciono le cose polverose e i vecchi neon sovietici:

Paulina Olowska, The Revenge of the Wise Woman, 2011 oil on canvas, 200x220cm Private collection

Quello di Paulina Olowska è un universo caleidoscopico, nostalgico ed allegro. Vagamente esoterico. Dove l’artista dissemina le opere del presente con scampoli di passato; si appropria della pubblicità per metterla al servizio dell’arte; cita la moda; introduce un approccio femminista all’interno di un’ottica prettamente maschile. Perché lei è così, le piace giocare di punti di vista, rovesciare le prospettive e poi raddrizzarle.

Ma tutto è cominciato con le insegne al neon di Varsavia nei primi anni 2000. Oscurate e inutilizzate, in una capitale polacca che accusava ancora i postumi della fine di un’Era. La ‘neonizzazione’ della città, infatti, era stata pianificata a livello centrale tra gli anni ’50 e il decennio successivo, per ridare animo alla popolazione stremata. E le insegne luminose erano fiorite ovunque: bar, ristoranti, negozi, persino le facciate delle scuole avevano il loro bravo neon. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, insieme agli altri simboli del Socialismo, i neon non interessavano più a nessuno.

Ma Olowska non se ne faceva una ragione.

(…) Nel 2001 sono tornato in Polonia- ha detto in un’intervista- mi interessava esplorare la nostalgia dell'architettura post-sovietica e il sentimento post-sovietico all'interno della società. Per molte ragioni politiche gran parte di ciò veniva respinto (…) Uno dei miei obiettivi era quello di sensibilizzare l'opinione pubblica su specifici design di luci al neon e su alcuni aspetti della moda che esistevano, e anche portare l'attenzione sulla comunità del lavoro collaborativo che era molto più presente negli anni '60 e '70. (…) Attraverso il mio lavoro, cerco di affrontare le cose che a volte ignoriamo perché il mondo ‘sta andando avanti’.”

Così ha prima fondato un’associazione (“Beautiful Neons”) per negoziare la sopravvivenza di ogni insegna luminosa minacciata e poi ha cominciato a inserirle nelle sue opere. Lo fa ancora adesso. Ma i neon non sono i soli oggetti passati di moda a interessarle. In generale, si tratta di forme di modernismo utopiche (come il cabaret polacco, il Bauhaus, l’avanguardia russa, persino l’Esperanto) ma non soltanto. Le interessa tutto ciò che stà diventando polveroso. In “Naughty Nymphs” presentata all’Art Institute di Chicago nel 2022, ad esempio, mette in scena una performance ispirata allo stile soft porn di VIVA, una rivista per adulti destinata alle donne, che veniva pubblicata negli Stati Uniti durante gli anni ‘70.

Questa performance (interpretata dalla cantante Pat Dudek), Olowska, la presenterà anche giovedì 2 novembre a Torino in occasione dell’inaugurazione di “Visual Persuasion” alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Ispirato tra l’altro dalla pittrice e autrice di immagini al confine tra erotismo e pornografia, scomparsa nel ‘78, Maja Berezowska (un altro pallino di Olowska: ridare lustro ad autori che si vanno dimenticando), il progetto, oltre a mettere in fila lavori esistenti e nuove produzioni dell’artista polacca la vedrà anche in veste di curatrice.

Si tratterà della più ampia rassegna mai dedicata a Paulina Olowska da una istituzione italiana e ruba il titolo a un libro pubblicato nel ‘61 dall’austriaco Stephen Baker. In quest’ultimo, Baker, parlava dei media e di come la comunicazione visiva possa agire sul subconscio (come si persuade qualcuno a fare qualcosa senza che se ne accorga? Come si genera desiderio?). Inutile dire che Olowska ha usato il testo di Baker come terreno fertile, su cui è germinata e cresciuta l’intera esposizione. E visto che dal desiderio inconscio (seppur di tipo commerciale) alla figura femminile come stereotipo, oggetto e soggetto della seduzione, il passo è breve, Olowska, si gioca questa carta senza pensarci due volte. D’altra parte, più spesso i protagonisti dei suoi dipinti sono donne.

Nata a Danzica nel ’76, Paulina Olowska, utilizza diverse tecniche espressive (come pittura, collage, installazione, performance, moda e musica). Figlia di uno scrittore di discorsi per il movimento Solidarność (e per il leader Lech Walesa) rifugiatosi negli Stati Uniti, Olowaska, da bambina ha vissuto a Chicago un anno soltanto (poi il matrimonio dei genitori è finito e lei è tornata in Polonia). Sarà di nuovo a Chicago, tra il ’95 e il ’96 per studiare alla School of the Art Institute of Chicago, mentre tra il ’97 e il 2000 approfondirà pittura e stampa all’Accademia di Danzica. Di lì in poi viaggerà parecchio e il suo lavoro si guadagnerà in fretta un posto nella ribalta internazionale. Oggi ha opere conservate al Centre Pompidou di Parigi, al MoMA di New York e alla Tate Modern di Londra, oltre ad aver vinto premi ed esposto in mostre importanti (ad esempio, la Biennale di Venezia).

Olowska affianca da tempo la pratica curatoriale a quella artistica. A Torino, infatti, ci sarà anche una selezione curata dall’artista polacca di opere dalla collezione Sandretto Re Rebaudengo che comprenderà lavori di: Tauba Auberbach, Vanessa Beecroft, Berlinde De Bruyckere, Trisha Donnelly, Peter Fischli and David Weiss, Sylvie Fleury, Nan Goldin, Dominique Gonzalez-Foerster, Mona Hatoum, Thomas Hirschhorn, Piotr Janas, Elena Kovylina, Barbara Kruger, Sherrie Levine, Sarah Lucas, Tracey Moffatt, Catherine Opie, Diego Perrone, Charles Ray, Cindy Sherman, Simon Starling e Richard Wentworth. Ma ce ne saranno anche di recuperati altrimenti da Olowska (oltre a opere delle già citate Berezowska e Dudek compaiono anche i nomi di Walerian Borowczyk, Irini Karayannopoulou, Sylvere Lotringer e Julie Verhoeven).

Tuttavia la protagonista sarà lei. E viene da se che non mancheranno certo i neon.

La mostra “Visual Persuasion” di Paulina Olowska rimarrà alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino fino al 25 febbraio 2024.

Paulina Olowska, Seductress, 2020 oil on canvas, 170x110cm Christen Sveaas Art Collection

Paulina Olowska, The Thychy Plant, 2013 oil and collage on canvas, 220x200cm  Collection of Contemporary Art

Paulina Olowska, Weeds, 2017 oil on canvas, 110x78x2,5cm Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

Paulina Olowska, Spider Painters, 2020 gouache, oil printed transparency film and embroidery on canvas, 160x140cm Courtesy of the artist and Pace Gallery

Paulina Olowska, Loveress, 2020 oil on canvas, 160x110cm Collection Philippe Dutilleul-Francoeur

Il museo dell’arte censurata ha inaugurato ieri a Barrcellona

“McJesus” di Jani Leinonen al Museo dell’Arte Proibita di Barcellona

Ci sono persone che tramutano in oro tutto quello che toccano. Josep Maria Benet Ferran, conosciuto come Taxto Benet, è tra questi. Il sessantaseienne catalano, infatti, dopo aver cominciato la sua carriera come semplice giornalista sportivo si è guadagnato la fama e ora è coordinatore dell’area sportiva della federazione che riunisce le tv autonome spagnole ma soprattutto condivide la gestione del Gruppo Mediapro (conglomerato che opera nell’audiovisivo con 6700 dipendenti e sedi in 36 paesi tra cui l’Italia). Uno così non poteva che cominciare una collezione d’arte per caso e scoprire di aver messo insieme qualcosa di unico al mondo.

Il Museu de l'Art Prohibit o Museo dell’Arte Proibita, che ha inaugurato ieri a Barcellona, ne è la prova tangibile. Con oltre 200 opere censurate o boicottate in vari modi su cui contare, riunisce, ad esempio, Pablo Picasso, Francisco Goya, Gustav Klimt ma anche Ai Weiwei, Robert Mapplethorpe, Andres Serrano, David Černý e Banksy (che sia come sia non manca mai). Tutto proviene dalla collezione di Benet. Ed è un unicum. Una caratteristica che nemmeno lui all’inizio aveva considerato.

Benet, infatti, comincia a collezionare solo nel 2018, un po’ per caso un po’ per sdegno, quando l’artista Santiago Sierra espone “Presos políticos en la España contemporánea”che denuncia l’esistenza della carcerazione per motivi politici nella società spagnola contemporanea. Il pezzo, composto da 24 ritratti pixelati in bianco e nero, ritrae gli indipendentisti catalani ma anche due terroristi condannati per aver fatto esplodere una bomba nella Basilica del Pilar di Saragozza, viene perciò ritirato dalla Fiera internazionale d’Arte Contemporanea di Barcellona (Arco) di quell’anno. Benet dopo quel primo acquisto comprerà altre tre opere censurate ma senza l’idea di farne il filo conduttore della sua raccolta. Questa consapevolezza arriverà solo al quarto trofeo: “Silence rouge et bleu” della russo-algerina, Zoulikha Bouabdellah (tappeti persiani da preghiera con scarpe col tacco a spillo sopra, opera ritirata per paura di proteste della comunità mussulmana). Così comincia a collezionare lavori censurati e via via che raccoglie scopre che nel mondo non esiste niente di simile. L’idea del museo nascerà di conseguenza.

Il Museu de l'Art Prohibit ha sede nello splendido palazzo Casa Garriga-Nogués (opera primo novecentesca dell’architetto, Enric Sagnier; con facciata che mixa elementi modernisti e barocchi, oltre a 2000 metri quadri calpestabili nel quartiere di Eixample). Ma non espone l’intera collezione di Taxto Benet (che in pochi anni è cresciuta a dismisura), mostrandola, invece, a rotazione in tranche di 60-70 opere alla volta. La prima tornata è composta da 70 tra dipinti, installazioni e materiale vario. Ci sono, ad esempio, alcuni “Caprichos” di Goya (incisioni con il famoso frontespizio “Il sonno della ragione genera mostri” a fine ‘700 vennero messi in vendita e poi ritirati dall’Inquisizione) o alcuni “Mao” di Andy Warhol (vietati in Cina nel 2012).

Non si può dire tuttavia che la maggior parte degli artisti esposti abbiano subito indegne persecuzioni. Lo stesso Ai Weiwei, che i suoi bravi dissapori con il Partito Comunista cinese li ha avuti eccome tanto da essere finito in carcere, è qui presente con “Filippo Strozzi in Lego” (opera, parte della serie dedicata ai dissidenti, esposta durante la mostra di Weiwei a Palazzo Strozzi di Firenze) per cui l’artista cinese si è solo visto negare una fornitura di mattoncini dalla Lego.

Alcune opere storiche furono giudicate troppo esplicite sessualmente per l’epoca in cui vennero create. Parecchio altro materiale si è attirato gli strali della Chiesa che, per varie ragioni l’ha giudicato offensivo. D’altra parte, la collezione Benet comprende il famigerato “Piss Christ” dell'americano Andres Serrano (una fotografia del 1987 di un un piccolo crocifisso di plastica immerso in un contenitore contenente l'urina dell'artista). La Madonna che si dedica all’autoerotismo della spagnola Charo Corrales e l’immagine del Cristo crocifisso sulle ali di un caccia americano, creata nel ’65 dall’argentino León Ferrari per protestare contro la guerra in Vietnam (la espose alla Biennale di Venezia e vinse il Leone d’Oro ma in spagna ha continuato a suscitare polemiche nel corso degli anni). Infine il crocifisso stile Mc Donald (appunto “McJesus” di Jani Leinonen), che si attirò gli strali dei cristiani palestinesi ad Haifa

Ad ogni modo, la collezione di Benet comprende un gran numero di lavori importanti, fatti per colpire allo stomaco il visitatore. E’ il caso della parodia dello squalo in formaldeide di Damien Hirst ad opera del ceco David Černý, che in formaldeide ha messo una scultura iperrealista di Saddam Hussein, nudo, con una corda al collo.

Ma la collezione del Museu de l'Art Prohibit conta molti altri capolavori censurati e non mancherà di far discutere per molto tempo ancora.