Il nuovo rinascimento del Louvre e la sala privata per la Gioconda

Nel cuore del centro parigino il Louvre è più di un museo ma un icona francese. La piramide da cui si accede al palazzo da vista da una delle stanze del museo. Photo ©artbooms

Martedì scorso il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che il Louvre verrà sottoposto a un’importante progetto di rinnovamento. Si chiamerà “Louvre New Renaissance” e prevede sia opere di restauro che lavori di costruzione ed ampliamento. Durerà dieci anni (nel corso dei quali il museo continuerà a rimanere aperto), per una spesa che gli assistenti del Signor Macron hanno detto indicativamente compresa tra i 700 e gli 800 milioni di euro (per avere un metro di paragone molto più di quanto servito per costruire lo Stadio olimpico di Atene e la sede di Bilbao del Guggenheim insieme).

A fare notizia però è stato soprattutto il fatto che la Gioconda avrà uno spazio espositivo tutto per lei "accessibile in modo indipendente rispetto al resto del museo" e con "un suo pass di accesso". Anche il nuovo ingresso, che verrà creato nella facciata est del complesso (vicino alla Senna), è stato argomento di discussione ma con meno entusiasmo di quello dimostrato per lo spostamento del capolavoro di Leonardo.

Del resto il Louvre, con un pubblico di circa 9 milioni di visitatori annui (come se tutti gli abitanti di New York più qualche altro centinaio di migliaio di persone si spostassero in un singolo edificio parigino almeno una volta all’anno), è il museo più visto al mondo. Ovviamente ci sono molti francesi ma la maggioranza del pubblico è composto da stranieri (soprattutto statunitensi e cinesi ma a seguire: inglesi, italiani, tedeschi e spagnoli). E si stima che l’80 per cento di loro sia lì solo per vedere la Monna Lisa (e farsi un selfie con l’iconico ritratto). Nonostante la collezione vasta e spettacolare del museo (circa 500mila pezzi di cui solo 30mila in esposizione).

Per questo era da tempo che si parlava di spostare l’opera. Sempre per questo si pensava ad un biglietto ad hoc. Alla fine l’annuncio è arrivato e le opinioni espresse sul progetto non sono state univoche. Il critico britannico Jonathan Jones ha ad esempio scritto: “È vero che la Monna Lisa rende difficile prestare attenzione ai dipinti di Veronese, Tiziano e altri nella stessa stanza. Ma non è per via della folla. È per la Monna Lisa che è così avvincente. Nella mia esperienza, la folla non rovina il Louvre. Gli dà vita. Un'altra misura pianificata, l'apertura di un nuovo ingresso, sembra più utile perché può esserci una coda lenta per entrare nella piramide di IM Pei”. Mentre molti altri hanno espresso soddisfazione. In fondo, sarà anche bello condividere con altri l’esperienza di ammirare un’opera d’arte, ma da soli, con calma, è meglio.

Effettivamente invece l’unico ingresso attuale, creato negli anni ’80 dallo scomparso architetto cino-statunitense Ieoh Ming Pei su commissione dell’allora presidente François Mitterrand, era uno dei punti critici segnalati al governo dal direttore del Louvre, Laurence des Cars, in un memorandum che era arrivato, non si sa come, alla stampa e che il quotidiano Le Parisien aveva pubblicato. Perché è piccolo rispetto alla mole di persone attese giornalmente al museo e la natura della sua struttura (la forma e i materiali della piramide che lo sovrastano) lo rende rumoroso e caldissimo. Caratteristiche molto fastidiose per i visitatori ma addirittura debilitanti per lo staff (composto da 2mila e 500 persone: cioè più della popolazione dei comuni di Madonna di Campiglio, Portofino e Monterosso messi assieme).

Gli altri problemi segnalati andavano dalle perdite d'acqua alle variazioni di temperatura che mettono a rischio le opere d'arte, dalla mancanza di impermeabilizzazione di alcune aree ai bagni obsoleti, fino alle insufficienti strutture di ristorazione. E poi la segnaletica (il museo, nato come palazzo reale, è un dedalo in cui perdersi è facilissimo; forse anche per questo il ritratto di Leonardo è così visitato: seguire gli altri è più facile che orientarsi da soli). Il signor Macron ha però assicurato che il progetto di restauro sarà “colossale” e che, in sostanza, presto sarà tutto risolto.

Il Louvre, che ogni anno dispone di 323 milioni per mantenere l’edificio (per il 60 per cento provenienti da risorse proprie (come biglietti, merchandising, resa del marchio cui ha fortemente contribuito il museo di Abu Dabi), finanzierà buona parte del progetto (il secondo ingresso, i nuovi spazi e la sala dedicata alla Gioconda). Per poterselo permettere aumenterà i biglietti ai visitatori extraeuropei. Lo Stato, in questo momento in crisi finanziaria, contribuirà invece per 10 milioni soltanto

Il salone interno del Louvre da cui si raggiungono tutte le gallerie inganna e non è sempre facile arrivare dove si vorrebbe anche perchè la segnaletica è carente. Photo ©artbooms

Il Van Gogh scomparso da trent'anni sarebbe di proprietà di una famiglia italiana

“Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh (particolare). foto tramite Staedel Museum

L’ultima volta in cui “Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh apparve in pubblico fu nella sede newyorkese di Christie's. Era il 1990 e il dipinto, di cui esiste una sola copia (molto meno apprezzata dell’originale) conservata al Musée d’Orsay di Parigi, diventò un record d’asta. Se lo aggiudicò un magnate giapponese della carta per 82 milioni e mezzo di dollari (oggi gli esperti sostengono che ne valga 300). Da allora, fatta eccezione per i proprietari (ammesso che non lo tengano in un deposito climatizzato), nessuno l’ha più visto. Anzi da qualche decennio nessuno sa proprio dove sia. Un inchiesta comparsa ieri su New York Times però sembra aver diradato la nebbia che avvolge il mistero de “Il ritratto del dottor Gachet”.

Da quanto è emerso, infatti, il dipinto sarebbe a Lugano e dovrebbe appartenere ad una famiglia italiana. Voci insistenti, già pubblicate in altri approfondimenti sull’argomento, parlano di un nome famoso nel settore agroalimentare. Qualcuno aveva chiamato in causa Barilla, ma secondo gli isider contattati dal un gruppo di giornalisti del quotidiano statunitense, non di pasta ma di formaggio si tratterebbe.

Van Gogh dipinse l’opera a Auvers-sur-Oise nel giardino del medico con cui il fratello Theò aveva stretto amicizia e che aveva accettato di posare per lui dal vivo. Era il 1890, poche settimane dopo, l’artista si sarebbe suicidato. Paul Gachet era uno psichiata dalle molte passioni (l’omeopatia e la lettura dei tarocchi oltre alla pittura) e il suo ritratto è un primo esempio di rilettura moderna di un genere classico delle arti visive. Sarà lo stesso Vincent a descrivere così l’aria pensosa e malinconica di Gachet nel quadro: "espressione disillusa del nostro tempo".

Secondo la versione della storia più accreditata, fu proprio Gachet a volere che Van Gogh gli facesse una copia del ritratto (attualmente conservato al Musée d’Orsay di Parigi), ma non molto tempo fa alcuni critici "pur con fondamenti debolissimi" (ha scritto Wikipedia) ne hanno messo in dubbio l’autenticità.

A vendere per prima “Il ritratto del dottor Gachet” fu la vedova del fratello dell’artista, Johanna van Gogh-Bonger, nel 1897. Sembra che la transazione le sia fruttata 300 franchi (circa 54 euro). Ad ogni modo, il valore delle opere di Van Gogh aumentò in fretta e il dipinto passò di mano in mano velocemente, finchè non arrivò nella collezione del Städelsches Kunstinstitut di Francoforte nel 1911 (il museo tedesco è rimasto molto legato al dipinto al punto da redarre una pagina internet e costruire un podcast nel tentativo di ritrovarlo) e alcuni decenni dopo non venne confiscato dai nazisti come esempio di ‘arte degenerata’. Qui c’è un colpo di scena però, perchè l’opera viene venduta in segreto da un gallerista tedesco al banchiere olandese Franz Koenigs (i cui eredi sostengono che il nonno si sia separato dal dipinto solo per metterlo temporaneamente al sicuro), che lo cede all’amico e collega ebreo Siegfried Kramarsky in fuga verso New York.

Il signor Kramarsky, di quando in quando (ma soprattutto se partiva per le vacanze), lo lasciava in in prestito al Metropolitan Museum of Modern Art e alla sua morte l'opera è stata custodita dal museo fino a quando i proprietari non l’hanno messa all'asta da Christie's.

Il collezionista Ryoei Saito ce vince l’asta, però, aveva già qualche problema prima dell’acquisto multimilionario del dipinto e se ne libera relativamente in fretta. Di lì de “Il ritratto del dottor Gachet” si perdono le tracce, finchè la giornalista di Wall Street Journal,  Lee Rosenbaum, non individua nel gestore di fondi d’investimento di origine austriaca, Wolfgang Flöttl, il nuovo proprietario. Anche Flöttl a sua volta si rende conto di non potersi permettere di mantenere il ritratto. E lo vende, ma a “a chi?” o “dove?” sono rimaste a lungo domande senza risposta.

Adesso New York Times sembra individuare con un margine piuttosto alto di fondamento in Lugano il luogo in cui “Il ritratto del dottor Gachet” è conservato. Anche le voci che lo vedono in mani italiane sembrano piuttosto numerose ed accreditate. L’inchiesta azzarda anche l’ipotesi che il dipinto sia stato comperato da Antonio Invernizzi alla fine degli anni ‘90 e che tutt’ora sia nella collezione (pare piuttosto ampia) della famiglia la cui fortuna è legata all’industria casearia, ma senza sbilanciarsi troppo. Gli Invernizzi, contattati dal quotidiano statunitense, nella maestosa Villa Favorita a Lugano (residenza seicentesca affacciata direttamente sul lago, un tempo di proprietà del barone Hans Heinrich Thyssen-Bornemisza), si sono rifiutati di commentare in qualsiasi modo la notizia e attraverso il loro avvocato si sono opposti alla possibilità di parlare dell’argomento. Non hanno ne confermato ne smentito. Lo stesso articolo, del resto, è molto aperto all’ipotesi che quella degli Invernizzi sia una falsa pista.

Sia come sia, la storia de’ “Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh pone domande molto concrete sulla liceità della proprietà privata senza nessun tipo di restrizioni di opere d’arte che costituiscono il patrimonio di tutti noi (soprattutto sapendo che i musei non si potrebbero mai permettere di acquistarle). Da una parte, imporre a chi le compra di esporle ogni tanto in un museo per esempio, violerebbe la libertà dei legittimi proprietari e metterebbe in difficoltà un mondo che si sostine sul mercato. Dall’altra, il pubblico in genere e gli studiosi in particolare perdono tanto nel non poterle ammirare mai.

E poi c’è l’affermazione del signor Saito. L’ultimo proprietario del ritratto di Vincent Van Gogh ad essersi aggiudicato l’opera in un’asta infatti, una volta disse che un giorno avrebbe voluto essere cremato insieme alle cose che gli erano più care. Incluso il dipinto.

“Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh , olio su tela 67 cm x 56 cm . Collezione privata

Koyo Kouoh curerà l’Esposizione Internazionale d’Arte 2026. Sarà la prima curatrice nera della Biennale di Venezia

Koyo Kouoh, curatrice della Biennale di Venezia 2026. Ritratto di: Mirjam Kluka

Koyo Kouoh, sarà la prossima curatrice della Biennale di Venezia. Nominata ieri nel corso di una riunione del Consiglio d’Amministrazione su proposta del presidente Pietrangelo Buttafuoco, la signora Kouoh, nata in Camerun 56 anni fa, sarà la prima donna di colore a prendere il timone dell’Esposizione Internazionale d’Arte. Attualmente direttrice dello Zeitz Museum of Contemporary Art Africa di Città del Capo, ha affermato che la sua però non sarà una “Biennale africana”.

Sarà una Biennale internazionale, come sempre!” ha detto.

La nomina di Kouoh (che tutti gli osservatori hanno apprezzato) arriva immediatamente dopo la conclusione della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte, “Stranieri Ovunque-Foreigners everywere, del curatore argentino, Adriano Pedrosa. Una Biennale che ha raggiunto i 700mila biglietti staccati, per una media di 3mila e 300 visitatori al giorno ed è quindi andata molto bene (anche se meno di quella del 2022, Il latte dei sogni” di Cecilia Alemani che arrivò ad 800mila), esponendo artisti internazionali e indigeni, rintracciati, questi ultimi, in territori spesso difficilmente raggiungibili, un po' ovunque in giro per il mondo (anche se prevalentemente nell’America del sud). Una Biennale che ha messo apertamente in discussione i canoni occidentalocentrici su cui è stata costruita la storia dell’arte e che si somma a quella femminista che l’ha preceduta. Insomma, una mostra non solo formalmente di rottura.

Infatti, Pedrosa alla conclusione dell’evento ha così commentato: “(…) In un certo senso il viaggio continua. Adesso sono curioso di vedere che futuro avrà Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere, soprattutto per la comprensione, l’accoglienza e la visibilità degli artisti del Sud del mondo, così come degli artisti indigeni, queer, autodidatti e delle figure del XX secolo provenienti da Africa, Asia e America Latina”.

Qualcuno (soprattutto all’estero, a dire il vero) si aspettava che quella del signor Pedrosa sarebbe stata l’ultima Biennale di questo filone, anche per l’avvenuto passaggio di consegne da Roberto Ciccuto al giornalista e scrittore Pietrangelo Buttafuoco alla presidenza del Cda lagunare. La nomina della signora Kouoh dice chiaramente che si sbagliavano (per questo un importante quotidiano britannico, non particolarmente in linea con le posizioni di centro-destra ha, ad esempio, speso parole ammirate verso il signor Buttafuoco, definito: “conservatore più idiosincratico e libero pensatore, con una propensione per il mistico”).

Anche Koyo Kouoh, ha un profilo professionale molto particolare, che si può forse arrivare a definire unico. Dopo i primi anni dell’infanzia vissuti in Africa, infatti, si è trasferita a Zurigo, in Svizzera, dove ha studiato economia aziendale e bancaria (la gestione curatoriale invece l’ha approfondita in Francia) ed ha cominciato la sua carriera come banchiere. “Sono presto passata allo spazio curatoriale- ha spiegato in una recente intervista- prima scrivendo recensioni sugli artisti e imparando dalla vicinanza agli artisti, e leggendo letteralmente tutti i programmi di storia dell'arte a cui potevo accedere all'epoca, nei primi anni Novanta in Svizzera. Andando avanti velocemente, questo mi ha portata a tornare in Africa e a stabilirmi a Dakar, in Senegal, dove alla fine ho fondato la RAW Material Company, un centro per l'arte, la conoscenza e la società”. Ha poi contribuito a plasmare due edizioni di Documenta (altra importantissima manifestazione d’arte contemporanea, che si tiene a Kassel, in Germania, ogni quattro anni) e diverse mostre di respiro internazionale. Ha ricevuto il prestigioso premio svizzero per le arti, Grand Prix Meret Oppenheim, e dal 2019 dirige lo Zeitz Museum of Contemporary Art Africa (Zeitz MOCAA). Quest’incarico in particolare ha dimostrato l’energia e l’efficienza oltre che la bravura di Kouoh. Il museo sud africano, infatti, si trovava privo di fondi e di prospettive quando è stata nominata capo curatore (tra l’altro a seguito di una denuncia per molestie sessuali, con relativo scandalo, del precedente direttore), ma lei, in soli cinque anni, è riuscita a capovolgere la situazione. Innanzitutto facendosi donare l’importante collezione di arte africana dal presidente di Harley-Davidson, il tedesco Jochen Zeitz (che l’ha messa insieme, e che fino a prima di Kouoh l’aveva solo prestata al museo). Poi trovando donatori.

Nel museo sudafricano lei ha organizzato mostre importanti come “When We See Us: A Century of Black Figuration in Painting” e retrospettive come quella dedicata alla performer e fotografa Tracey Rose, poi passata al Queens Museum di New York.

Koyo Kouoh, che attualmente vive tra il Sud Africa e la svizzera, parla fluentemente francese, tedesco, inglese e italiano. Riguardo alla sua nomina come curatore della 61esima Biennale di Venezia ha detto: “L'Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia è da oltre un secolo il centro di gravità dell'arte. Artisti, professionisti dell'arte e dei musei, collezionisti, galleristi, filantropi e un pubblico in continua crescita si riuniscono in questo luogo mitico ogni due anni per cogliere il battito dello Zeitgeist”.

Di nuovo Koyo Kouoh. In un ritratto di ©Mehdi Benkler, BAK

Koyo Kouoh, curatrice della Biennale di Venezia 2026. Ritratto di: Mirjam Kluka