Il Van Gogh scomparso da trent'anni sarebbe di proprietà di una famiglia italiana

“Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh (particolare). foto tramite Staedel Museum

L’ultima volta in cui “Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh apparve in pubblico fu nella sede newyorkese di Christie's. Era il 1990 e il dipinto, di cui esiste una sola copia (molto meno apprezzata dell’originale) conservata al Musée d’Orsay di Parigi, diventò un record d’asta. Se lo aggiudicò un magnate giapponese della carta per 82 milioni e mezzo di dollari (oggi gli esperti sostengono che ne valga 300). Da allora, fatta eccezione per i proprietari (ammesso che non lo tengano in un deposito climatizzato), nessuno l’ha più visto. Anzi da qualche decennio nessuno sa proprio dove sia. Un inchiesta comparsa ieri su New York Times però sembra aver diradato la nebbia che avvolge il mistero de “Il ritratto del dottor Gachet”.

Da quanto è emerso, infatti, il dipinto sarebbe a Lugano e dovrebbe appartenere ad una famiglia italiana. Voci insistenti, già pubblicate in altri approfondimenti sull’argomento, parlano di un nome famoso nel settore agroalimentare. Qualcuno aveva chiamato in causa Barilla, ma secondo gli isider contattati dal un gruppo di giornalisti del quotidiano statunitense, non di pasta ma di formaggio si tratterebbe.

Van Gogh dipinse l’opera a Auvers-sur-Oise nel giardino del medico con cui il fratello Theò aveva stretto amicizia e che aveva accettato di posare per lui dal vivo. Era il 1890, poche settimane dopo, l’artista si sarebbe suicidato. Paul Gachet era uno psichiata dalle molte passioni (l’omeopatia e la lettura dei tarocchi oltre alla pittura) e il suo ritratto è un primo esempio di rilettura moderna di un genere classico delle arti visive. Sarà lo stesso Vincent a descrivere così l’aria pensosa e malinconica di Gachet nel quadro: "espressione disillusa del nostro tempo".

Secondo la versione della storia più accreditata, fu proprio Gachet a volere che Van Gogh gli facesse una copia del ritratto (attualmente conservato al Musée d’Orsay di Parigi), ma non molto tempo fa alcuni critici "pur con fondamenti debolissimi" (ha scritto Wikipedia) ne hanno messo in dubbio l’autenticità.

A vendere per prima “Il ritratto del dottor Gachet” fu la vedova del fratello dell’artista, Johanna van Gogh-Bonger, nel 1897. Sembra che la transazione le sia fruttata 300 franchi (circa 54 euro). Ad ogni modo, il valore delle opere di Van Gogh aumentò in fretta e il dipinto passò di mano in mano velocemente, finchè non arrivò nella collezione del Städelsches Kunstinstitut di Francoforte nel 1911 (il museo tedesco è rimasto molto legato al dipinto al punto da redarre una pagina internet e costruire un podcast nel tentativo di ritrovarlo) e alcuni decenni dopo non venne confiscato dai nazisti come esempio di ‘arte degenerata’. Qui c’è un colpo di scena però, perchè l’opera viene venduta in segreto da un gallerista tedesco al banchiere olandese Franz Koenigs (i cui eredi sostengono che il nonno si sia separato dal dipinto solo per metterlo temporaneamente al sicuro), che lo cede all’amico e collega ebreo Siegfried Kramarsky in fuga verso New York.

Il signor Kramarsky, di quando in quando (ma soprattutto se partiva per le vacanze), lo lasciava in in prestito al Metropolitan Museum of Modern Art e alla sua morte l'opera è stata custodita dal museo fino a quando i proprietari non l’hanno messa all'asta da Christie's.

Il collezionista Ryoei Saito ce vince l’asta, però, aveva già qualche problema prima dell’acquisto multimilionario del dipinto e se ne libera relativamente in fretta. Di lì de “Il ritratto del dottor Gachet” si perdono le tracce, finchè la giornalista di Wall Street Journal,  Lee Rosenbaum, non individua nel gestore di fondi d’investimento di origine austriaca, Wolfgang Flöttl, il nuovo proprietario. Anche Flöttl a sua volta si rende conto di non potersi permettere di mantenere il ritratto. E lo vende, ma a “a chi?” o “dove?” sono rimaste a lungo domande senza risposta.

Adesso New York Times sembra individuare con un margine piuttosto alto di fondamento in Lugano il luogo in cui “Il ritratto del dottor Gachet” è conservato. Anche le voci che lo vedono in mani italiane sembrano piuttosto numerose ed accreditate. L’inchiesta azzarda anche l’ipotesi che il dipinto sia stato comperato da Antonio Invernizzi alla fine degli anni ‘90 e che tutt’ora sia nella collezione (pare piuttosto ampia) della famiglia la cui fortuna è legata all’industria casearia, ma senza sbilanciarsi troppo. Gli Invernizzi, contattati dal quotidiano statunitense, nella maestosa Villa Favorita a Lugano (residenza seicentesca affacciata direttamente sul lago, un tempo di proprietà del barone Hans Heinrich Thyssen-Bornemisza), si sono rifiutati di commentare in qualsiasi modo la notizia e attraverso il loro avvocato si sono opposti alla possibilità di parlare dell’argomento. Non hanno ne confermato ne smentito. Lo stesso articolo, del resto, è molto aperto all’ipotesi che quella degli Invernizzi sia una falsa pista.

Sia come sia, la storia de’ “Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh pone domande molto concrete sulla liceità della proprietà privata senza nessun tipo di restrizioni di opere d’arte che costituiscono il patrimonio di tutti noi (soprattutto sapendo che i musei non si potrebbero mai permettere di acquistarle). Da una parte, imporre a chi le compra di esporle ogni tanto in un museo per esempio, violerebbe la libertà dei legittimi proprietari e metterebbe in difficoltà un mondo che si sostine sul mercato. Dall’altra, il pubblico in genere e gli studiosi in particolare perdono tanto nel non poterle ammirare mai.

E poi c’è l’affermazione del signor Saito. L’ultimo proprietario del ritratto di Vincent Van Gogh ad essersi aggiudicato l’opera in un’asta infatti, una volta disse che un giorno avrebbe voluto essere cremato insieme alle cose che gli erano più care. Incluso il dipinto.

“Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh , olio su tela 67 cm x 56 cm . Collezione privata

Koyo Kouoh curerà l’Esposizione Internazionale d’Arte 2026. Sarà la prima curatrice nera della Biennale di Venezia

Koyo Kouoh, curatrice della Biennale di Venezia 2026. Ritratto di: Mirjam Kluka

Koyo Kouoh, sarà la prossima curatrice della Biennale di Venezia. Nominata ieri nel corso di una riunione del Consiglio d’Amministrazione su proposta del presidente Pietrangelo Buttafuoco, la signora Kouoh, nata in Camerun 56 anni fa, sarà la prima donna di colore a prendere il timone dell’Esposizione Internazionale d’Arte. Attualmente direttrice dello Zeitz Museum of Contemporary Art Africa di Città del Capo, ha affermato che la sua però non sarà una “Biennale africana”.

Sarà una Biennale internazionale, come sempre!” ha detto.

La nomina di Kouoh (che tutti gli osservatori hanno apprezzato) arriva immediatamente dopo la conclusione della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte, “Stranieri Ovunque-Foreigners everywere, del curatore argentino, Adriano Pedrosa. Una Biennale che ha raggiunto i 700mila biglietti staccati, per una media di 3mila e 300 visitatori al giorno ed è quindi andata molto bene (anche se meno di quella del 2022, Il latte dei sogni” di Cecilia Alemani che arrivò ad 800mila), esponendo artisti internazionali e indigeni, rintracciati, questi ultimi, in territori spesso difficilmente raggiungibili, un po' ovunque in giro per il mondo (anche se prevalentemente nell’America del sud). Una Biennale che ha messo apertamente in discussione i canoni occidentalocentrici su cui è stata costruita la storia dell’arte e che si somma a quella femminista che l’ha preceduta. Insomma, una mostra non solo formalmente di rottura.

Infatti, Pedrosa alla conclusione dell’evento ha così commentato: “(…) In un certo senso il viaggio continua. Adesso sono curioso di vedere che futuro avrà Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere, soprattutto per la comprensione, l’accoglienza e la visibilità degli artisti del Sud del mondo, così come degli artisti indigeni, queer, autodidatti e delle figure del XX secolo provenienti da Africa, Asia e America Latina”.

Qualcuno (soprattutto all’estero, a dire il vero) si aspettava che quella del signor Pedrosa sarebbe stata l’ultima Biennale di questo filone, anche per l’avvenuto passaggio di consegne da Roberto Ciccuto al giornalista e scrittore Pietrangelo Buttafuoco alla presidenza del Cda lagunare. La nomina della signora Kouoh dice chiaramente che si sbagliavano (per questo un importante quotidiano britannico, non particolarmente in linea con le posizioni di centro-destra ha, ad esempio, speso parole ammirate verso il signor Buttafuoco, definito: “conservatore più idiosincratico e libero pensatore, con una propensione per il mistico”).

Anche Koyo Kouoh, ha un profilo professionale molto particolare, che si può forse arrivare a definire unico. Dopo i primi anni dell’infanzia vissuti in Africa, infatti, si è trasferita a Zurigo, in Svizzera, dove ha studiato economia aziendale e bancaria (la gestione curatoriale invece l’ha approfondita in Francia) ed ha cominciato la sua carriera come banchiere. “Sono presto passata allo spazio curatoriale- ha spiegato in una recente intervista- prima scrivendo recensioni sugli artisti e imparando dalla vicinanza agli artisti, e leggendo letteralmente tutti i programmi di storia dell'arte a cui potevo accedere all'epoca, nei primi anni Novanta in Svizzera. Andando avanti velocemente, questo mi ha portata a tornare in Africa e a stabilirmi a Dakar, in Senegal, dove alla fine ho fondato la RAW Material Company, un centro per l'arte, la conoscenza e la società”. Ha poi contribuito a plasmare due edizioni di Documenta (altra importantissima manifestazione d’arte contemporanea, che si tiene a Kassel, in Germania, ogni quattro anni) e diverse mostre di respiro internazionale. Ha ricevuto il prestigioso premio svizzero per le arti, Grand Prix Meret Oppenheim, e dal 2019 dirige lo Zeitz Museum of Contemporary Art Africa (Zeitz MOCAA). Quest’incarico in particolare ha dimostrato l’energia e l’efficienza oltre che la bravura di Kouoh. Il museo sud africano, infatti, si trovava privo di fondi e di prospettive quando è stata nominata capo curatore (tra l’altro a seguito di una denuncia per molestie sessuali, con relativo scandalo, del precedente direttore), ma lei, in soli cinque anni, è riuscita a capovolgere la situazione. Innanzitutto facendosi donare l’importante collezione di arte africana dal presidente di Harley-Davidson, il tedesco Jochen Zeitz (che l’ha messa insieme, e che fino a prima di Kouoh l’aveva solo prestata al museo). Poi trovando donatori.

Nel museo sudafricano lei ha organizzato mostre importanti come “When We See Us: A Century of Black Figuration in Painting” e retrospettive come quella dedicata alla performer e fotografa Tracey Rose, poi passata al Queens Museum di New York.

Koyo Kouoh, che attualmente vive tra il Sud Africa e la svizzera, parla fluentemente francese, tedesco, inglese e italiano. Riguardo alla sua nomina come curatore della 61esima Biennale di Venezia ha detto: “L'Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia è da oltre un secolo il centro di gravità dell'arte. Artisti, professionisti dell'arte e dei musei, collezionisti, galleristi, filantropi e un pubblico in continua crescita si riuniscono in questo luogo mitico ogni due anni per cogliere il battito dello Zeitgeist”.

Di nuovo Koyo Kouoh. In un ritratto di ©Mehdi Benkler, BAK

Koyo Kouoh, curatrice della Biennale di Venezia 2026. Ritratto di: Mirjam Kluka

Nan Goldin parla alla Neue Nationalgalerie di Berlino e innesca un caso nazionele

Nan Goldin, Autoritratto con gli occhi rivolti verso l'interno, Boston, 1989, Photographie, dalla serie “Sisters, Saints and Sybils” © Nan Goldin. Per gentile concessione dell'artista

Qualche giorno fa davanti e all’interno del grande atrio di vetro che accoglie il pubblico della Neue Nationalgalerie di Berlino c’era gente. Molta gente. E soprattutto quella folla non sembrava, armata com’era di cartelli e striscioni, composta dal tipo di persone che normalmente aspettano di partecipare all’inaugurazione di una mostra d’arte. C’era anche un’insolita presenza di polizia per uno show culturale, che, quando l’artista statunitense Nan Goldin, la cui retrospettiva “This Will Not End Well” stava per essere aperta al pubblico, ha cominciato il suo intervento si è fatta più attenta. Nel frattempo la signora Goldin diceva: “Ho deciso di utilizzare questa mostra come piattaforma per esprimere la mia indignazione morale per il genocidio a Gaza e in Libano (…)

Alla fine i cori e il parapiglia nella galleria d’arte moderna di Berlino non hanno portato ad eventi che potessero interessare gli agenti delle forze dell’ordine tedesche ma le parole di Nan Goldin, nota per le sue posizioni filo-palestinesi, pronunciate in quella sede, mentre il pubblico scandiva inni come “Free, Free Palestine!” (e cose peggiori), hanno lasciato attonita l’opinione pubblica della Germania.

Non che qualcuno si potesse aspettare qualcosa di diverso. Malgrado le sue origini ebraiche la settantunenne Goldin, ha già marciato con i manifestanti pro-palestinesi (nel corso di uno di un raduno a New York è stata anche arrestata) e ha firmato lettere pubbliche in cui definiva un “genocidio” le azioni di Israele a Gaza. Dal 2017 al conflitto mediorientale, l’artista si era invece impegnata a combattere la famiglia Sackler, proprietaria della società farmaceutica Purdue Pharma e produttrice del farmaco atidolorifico OxyContin, secondo lei responsabile di gran parte dei casi di dipendenza da oppioidi negli Stati Uniti (il suo obbiettivo era quello di spingere i musei che beneficiano delle donazioni dei Sackler a rifiutarle; fin’ora le è riuscito solo con la National Portrait Gallery di Londra). Da quel momento la signora Goldin, i cui primi successi risalgono agli anni ’70 e che è famosa da decenni, ha cominciato ad essere definita non solo artista ma anche attivista..

In Germania (dove la storia recente rende quello dell’antisemitismo un tema particolarmente sensibile), esiste una legge che proibisce il finanziamento ad eventi riconducibili al movimento per il boicottaggio di Israele, ritenuto antisemita. L’americana non si è detta d’accordo e ha accusato i tedeschi di confondere la critica ad Israele con l’antisemitismo. Questo però non ha evitato ad altri artisti dalle posizioni simili a quelle di Goldin di vedere cancellata la propria mostra mentre la sua non ha subito nemmeno un ritardo.

Anzi il dibattito politico consumato a suon di servizi televisivi e articoli di giornale che è seguito all’inaugurazione, ha fatto un gran bene all’evento (per visitare l’esposizione bisogna fare la fila). L’affollamento dell’inaugurazione invece non sembrava genuino, come ha fatto notare jl Ministro della cultura tedesco Claudia Roth che ha detto: “i dimostranti sono venuti al museo non per vedere l’arte ma per zittire il direttore”.

Il direttore del museo berlinese, Klaus Biesenbac, che aveva preparato un discorso da contrapporre a quello della signora Goldin ma che è risultato inudibile per le urla della folla, si era già guadagnato dei titoli di giornale per proposte creative e controcorrente, come quella di lasciare aperte a tutti le porte del museo permettendo alla gente di risparmiare sugli ormai esorbitanti costi necessari per il riscaldamento. Questa volta però la stampa con lui è stata severa. Il quotidiano tedesco Welt ne ha chiesto le dimissioni e ha così commentato l’accaduto: “Il fatto che abbia cercato di prendere le distanze dopo il discorso di Nan Goldin e sia stato messo a tacere dagli attivisti non deve distrarre dal fatto che Biesenbach stesso è responsabile di questo nuovo punto basso della politica culturale tedesca(…) sembrava credere che avrebbe tenuto sotto controllo la sua fidanzata Goldin, che dagli anni '90 descrive come parte della sua ‘famiglia prescelta’. Lei gli aveva promesso di mantenere un basso profilo a Berlino (…) È stata la stessa Goldin a derubarlo delle sue illusioni nelle settimane precedenti l'inaugurazione della mostra e ora a dire a chiunque volesse ascoltare cosa aveva intenzione di fare a Berlino e come non le importasse della sensibilità del suo vecchio compagno”.

Il signor Biesenbach continua a difendere la scelta di mettere in calendario la retrospettiva “This Will Not End Well” che racconta l’evoluzione della fotografia dell’artista nata a Washington, dal diario intimo per immagini che ne hanno caratterizzato gli esordi fino ai giorni nostri. Ha anzi affermato: “Spero solo che questa mostra altamente visibile di un artista molto importante e schietta possa essere un catalizzatore per far sì che accada di più, trasformando idealmente le sfide in opportunità per parlare, per provare empatia"

Il discorso della signora Goldin, durato oltre un quarto d’ora, e le reazioni del pubblico nel giorno dell’inaugurazione della mostra hanno, invece, sollevato un coro pressoché unanime di indignazione. Il ministro Roth si è detta "inorridita" dai commenti di Goldin e dalle azioni dei dimostranti. "Per quanto encomiabile sia l'arte di Nan Goldin, respingo le opinioni intollerabilmente unilaterali dell'attivista politica su Israele" ha aggiunto. A Hermann Parzinger, presidente della Fondazione prussiana per il patrimonio culturale, alla quale appartiene la Galleria Nazionale, il discorso non è piaciuto affatto e ha dichiarato: “Questo non è quello che intendiamo per libertà di espressione”.

Da poche ore Iraele ha concordato un cessate il fuoco con il Libano che potrebbe porre fine al conflitto con Hezbollah.

La retrospettiva, “This Will Not End Well” di Nan Goldin, invece, rimarrà alla Neue Nationalgalerie di Berlino fino al 6 aprile 2025. Si tratta di un corpo di opere importanti che si sviluppa in sei edifici unici progettati in risposta al lavoro dell’artista ma è anche una mostra itinerante che tocca Berlino dopo Stoccolma e Amsterdam. Dal 9 ottobre 2025 si trasferirà al Pirelli Hangar Bicocca di Milano