Nan Goldin parla alla Neue Nationalgalerie di Berlino e innesca un caso nazionele

Nan Goldin, Autoritratto con gli occhi rivolti verso l'interno, Boston, 1989, Photographie, dalla serie “Sisters, Saints and Sybils” © Nan Goldin. Per gentile concessione dell'artista

Qualche giorno fa davanti e all’interno del grande atrio di vetro che accoglie il pubblico della Neue Nationalgalerie di Berlino c’era gente. Molta gente. E soprattutto quella folla non sembrava, armata com’era di cartelli e striscioni, composta dal tipo di persone che normalmente aspettano di partecipare all’inaugurazione di una mostra d’arte. C’era anche un’insolita presenza di polizia per uno show culturale, che, quando l’artista statunitense Nan Goldin, la cui retrospettiva “This Will Not End Well” stava per essere aperta al pubblico, ha cominciato il suo intervento si è fatta più attenta. Nel frattempo la signora Goldin diceva: “Ho deciso di utilizzare questa mostra come piattaforma per esprimere la mia indignazione morale per il genocidio a Gaza e in Libano (…)

Alla fine i cori e il parapiglia nella galleria d’arte moderna di Berlino non hanno portato ad eventi che potessero interessare gli agenti delle forze dell’ordine tedesche ma le parole di Nan Goldin, nota per le sue posizioni filo-palestinesi, pronunciate in quella sede, mentre il pubblico scandiva inni come “Free, Free Palestine!” (e cose peggiori), hanno lasciato attonita l’opinione pubblica della Germania.

Non che qualcuno si potesse aspettare qualcosa di diverso. Malgrado le sue origini ebraiche la settantunenne Goldin, ha già marciato con i manifestanti pro-palestinesi (nel corso di uno di un raduno a New York è stata anche arrestata) e ha firmato lettere pubbliche in cui definiva un “genocidio” le azioni di Israele a Gaza. Dal 2017 al conflitto mediorientale, l’artista si era invece impegnata a combattere la famiglia Sackler, proprietaria della società farmaceutica Purdue Pharma e produttrice del farmaco atidolorifico OxyContin, secondo lei responsabile di gran parte dei casi di dipendenza da oppioidi negli Stati Uniti (il suo obbiettivo era quello di spingere i musei che beneficiano delle donazioni dei Sackler a rifiutarle; fin’ora le è riuscito solo con la National Portrait Gallery di Londra). Da quel momento la signora Goldin, i cui primi successi risalgono agli anni ’70 e che è famosa da decenni, ha cominciato ad essere definita non solo artista ma anche attivista..

In Germania (dove la storia recente rende quello dell’antisemitismo un tema particolarmente sensibile), esiste una legge che proibisce il finanziamento ad eventi riconducibili al movimento per il boicottaggio di Israele, ritenuto antisemita. L’americana non si è detta d’accordo e ha accusato i tedeschi di confondere la critica ad Israele con l’antisemitismo. Questo però non ha evitato ad altri artisti dalle posizioni simili a quelle di Goldin di vedere cancellata la propria mostra mentre la sua non ha subito nemmeno un ritardo.

Anzi il dibattito politico consumato a suon di servizi televisivi e articoli di giornale che è seguito all’inaugurazione, ha fatto un gran bene all’evento (per visitare l’esposizione bisogna fare la fila). L’affollamento dell’inaugurazione invece non sembrava genuino, come ha fatto notare jl Ministro della cultura tedesco Claudia Roth che ha detto: “i dimostranti sono venuti al museo non per vedere l’arte ma per zittire il direttore”.

Il direttore del museo berlinese, Klaus Biesenbac, che aveva preparato un discorso da contrapporre a quello della signora Goldin ma che è risultato inudibile per le urla della folla, si era già guadagnato dei titoli di giornale per proposte creative e controcorrente, come quella di lasciare aperte a tutti le porte del museo permettendo alla gente di risparmiare sugli ormai esorbitanti costi necessari per il riscaldamento. Questa volta però la stampa con lui è stata severa. Il quotidiano tedesco Welt ne ha chiesto le dimissioni e ha così commentato l’accaduto: “Il fatto che abbia cercato di prendere le distanze dopo il discorso di Nan Goldin e sia stato messo a tacere dagli attivisti non deve distrarre dal fatto che Biesenbach stesso è responsabile di questo nuovo punto basso della politica culturale tedesca(…) sembrava credere che avrebbe tenuto sotto controllo la sua fidanzata Goldin, che dagli anni '90 descrive come parte della sua ‘famiglia prescelta’. Lei gli aveva promesso di mantenere un basso profilo a Berlino (…) È stata la stessa Goldin a derubarlo delle sue illusioni nelle settimane precedenti l'inaugurazione della mostra e ora a dire a chiunque volesse ascoltare cosa aveva intenzione di fare a Berlino e come non le importasse della sensibilità del suo vecchio compagno”.

Il signor Biesenbach continua a difendere la scelta di mettere in calendario la retrospettiva “This Will Not End Well” che racconta l’evoluzione della fotografia dell’artista nata a Washington, dal diario intimo per immagini che ne hanno caratterizzato gli esordi fino ai giorni nostri. Ha anzi affermato: “Spero solo che questa mostra altamente visibile di un artista molto importante e schietta possa essere un catalizzatore per far sì che accada di più, trasformando idealmente le sfide in opportunità per parlare, per provare empatia"

Il discorso della signora Goldin, durato oltre un quarto d’ora, e le reazioni del pubblico nel giorno dell’inaugurazione della mostra hanno, invece, sollevato un coro pressoché unanime di indignazione. Il ministro Roth si è detta "inorridita" dai commenti di Goldin e dalle azioni dei dimostranti. "Per quanto encomiabile sia l'arte di Nan Goldin, respingo le opinioni intollerabilmente unilaterali dell'attivista politica su Israele" ha aggiunto. A Hermann Parzinger, presidente della Fondazione prussiana per il patrimonio culturale, alla quale appartiene la Galleria Nazionale, il discorso non è piaciuto affatto e ha dichiarato: “Questo non è quello che intendiamo per libertà di espressione”.

Da poche ore Iraele ha concordato un cessate il fuoco con il Libano che potrebbe porre fine al conflitto con Hezbollah.

La retrospettiva, “This Will Not End Well” di Nan Goldin, invece, rimarrà alla Neue Nationalgalerie di Berlino fino al 6 aprile 2025. Si tratta di un corpo di opere importanti che si sviluppa in sei edifici unici progettati in risposta al lavoro dell’artista ma è anche una mostra itinerante che tocca Berlino dopo Stoccolma e Amsterdam. Dal 9 ottobre 2025 si trasferirà al Pirelli Hangar Bicocca di Milano

Una banana venduta da Sotheby’s per 6 milioni di dollari è come latte e miele per un mercato dell’arte malaticcio

Comedian di Maurizio Cattelan venduta per 6.2 milioni di dollari da Sotheby's a New York. Courtesy of Sotheby's.

Dalla pandemia il mercato dell’arte moderna e contemporanea ha subito una contrazione dopo anni di spensieratezza. Per questo la supposizione che, mercoledì notte (secondo l’orario italiano), la vendita di quella banana appiccicata col nastro adesivo alla parete della sede newyorkese di Sotherby’s fosse scontata, era una scommessa. O meglio alla vendita in sé di “Comedian”, l’opera prettamente concettuale più recente (2019) e discussa di Maurizio Cattelan, credeva la casa d’aste (che ha messo il lotto in evidenza già prima dell’evento), il pubblico, che ha riempito sia la sala reale dell’evento che quella virtuale (le persone commentavano con frasi come: “Siamo qui per quello delle banane!”) e in generale gli addetti ai lavori, ma rimaneva da vedere come. E alla fine, battuta a 5,2 milioni di dollari più commissioni, per un totale di 6.2 milioni di dollari, sestuplicando la stima più bassa (era valutata tra il milione e il milione e mezzo), l’opera, definita dal suo stesso acquirente “un fenomeno culturale che unisce il mondo dell'arte, dei meme e della comunità delle criptovalute" ha superato le aspettative.

Non ci credeva invece lo stesso sign. Cattelan, che ha dichiarato ad un quotidiano italiano di aver ricevuto l’offerta di ricomprare “Comedian” per 500 mila dollari. Era il 2019, appena una settimana dopo la presentazione dell’opera: “Ho detto di no. Ieri ho pensato: che stupido”.

C’è da dire che si trattava anche dell’unico lotto che accettava un pagamento in criptovalute (che dalla vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane hanno registrato record su record) e che ad aggiudicarselo è stato proprio, Justin Sun, un imprenditore del settore, di origine cinese. Sun, che ha vinto contro altri sei offerenti in un duello serratissimo durato solo una manciata di minuti, raggiunto telefonicamente da un quotidiano statunitense ha previsto un aumento dell’acquisto di opere d’arte da parte di chi si occupa di criptovalute durante la presidenza di Donald Trump.

Ed Ruscha, “Standard Station, Ten-Cent Western Being Torn in Half,” 1964, venduto per 68.2 milioni di dollari. Ed Ruscha, via Christie's

Uno dei motivi per cui le aste di novembre da Sotheby’s e Christie's erano sotto stretta osservazione era proprio l’avvenuta elezione del sig. Trump. Si ritiene infatti che le sue politiche fiscali potrebbero avere un impatto positivo sul mercato dell’arte. Prima che le aste avessero luogo Abigail Asher, una consulente d'arte di New York ha detto a un gruppo di giornalisti che hanno firmato un approfondimento sull’argomento per un quotidiano statunitense: “Ora le persone stanno improvvisamente provando un senso di sicurezza. Aspettavano dopo le elezioni per premere il grilletto sui grandi dipinti". Altri esperti hanno invece fatto notare che, sebbene ci siano stati dei segnali positivi già dall’indomani delle elezioni, è ancora troppo presto per trarre conclusioni.

Come sia messa la situazione, ad aste avvenute o in corso (nel momento in cui viene redatto questo articolo si sono svolte quelle di Christie's e Phillips New York, oltre alla serale Now and Contemporary di Sotheby’s dove è stata venduta l’opera di Maurizio Cattelan), non è affatto chiaro. Qualcuno sostiene che in generale il volume d’affari del contemporaneo sia calato vistosamente rispetto allo scorso anno, e che alcuni pezzi di pregio multimilionari siano rimasti invenduti a fronte di forbici di valutazione prudenti (ad esempio: la ceramica dell’88 di Jeff Koons “Woman in Tub”, stimata tra i 10 e i 15 milioni di dollari da Sotheby’s). Altri che la maggioranza dei committenti non ha voluto vendere prima che i “tumulti elettorali” non si fossero esauriti, insomma a passaggio di consegne avvenuto. Questo naturalmente avrebbe influito anche sulla qualità e la vendibilità delle opere.

Quel che è certo è che oltre allo splendido olio su tela di René Magritte, “L'impero della luce” (1954) la cui vendita da Christie’s era già certa (aveva una garanzia che lo copriva per 95 milioni) ma che è andato meglio del previsto arrivando a 121,2 milioni di dollari (incluse commissioni), se la sono cavata egregiamente tutte le opere, se così si può dire, patriottiche. Come lo studio di Roy Lichtenstein per “Oval Office” che, stimato tra il milione e il milione e mezzo, è stato battuto per ben 4 milioni e 200 mila dollari. O “Georges’ Flag” del ’37 di Ed Ruscha che, stimato tra gli 8 e i 12 milioni, è andato a casa di un’acquirente che ne ha offerti 13 e 650 (anche se di Ruscha a fare veramente faville è stato “Standard Station, Ten-Cent Western Being Torn in Half” del ’64 venduto ad oltre 68 milioni).

Benissimo anche la surrealista messicana di origine britannica, Leonora Carrington (1917-2011), che da dopo essere stata esposta alla Biennale di Venezia due anni fa (la più femminista) da Cecilia Alemani, aveva già macinato cifre a sette zeri, e con la scultura “La Grande Dame” (The Cat Woman) del ’51, si è superata: stimata tra i 5 e i 7 milioni è stata aggiudicata per 11, 4 milioni!

Altro successo che ha scavalcato le previsioni più rosee è stato appunto il frutto più costoso di sempre firmato da Maurizio Cattelan. “Comedian, apparsa per a prima volta nello stand della Perrotin Gallery di una fiera di Miami nel 2019, dove aveva causato trambusto, attirando curiosi su curiosi per il clamore che aveva suscitato, ai tempi era stata venduta per una cifra che oscillava tra i 120 e 150 mila dollari (ne esistono 3). Si tratta di un’opera concettuale, il cui valore non è ovviamente determinato dalla banana in sé, ne dal nastro adesivo (un rotolo del quale viene comunque fornito al compratore), ma dall’idea dell’artista che si concretizza in un certificato d’acquisto autenticato e in un dettagliatissimo manuale di istruzioni di 14 pagine con tanto di diagrammi che spiegano come sostituire il frutto una volta marcito.

Il signor Cattelan ha tratteggiato così la genesi di “Comedian”: “Nel 2019, lavoravo a un contributo per il New York Magazine e pensai alla banana come simbolo di New York (…) L’idea rimase lì, finché non arrivò la fiera di Miami. Mi trovavo di fronte a un mercato saturo, pieno di opere eccessive e poco sperimentali. Così decisi di fare un gesto essenziale, quasi assurdo: comprai una banana per 25 centesimi e la fissai al muro con del nastro adesivo”. Ha anche detto: “È il mercato che ha deciso di prendere sul serio una banana attaccata al muro. Se il sistema è così fragile da cadere su una buccia di banana, forse era già scivoloso di suo”. Tuttavia, è pure possibile che l’autore sia stato ingiusto con la sua opera, che, a distanza di anni, potrebbe apparire nei libri di storia dell’arte come un commento irrinunciabile alla nostra epoca, e con il mercato che, anziché respingere la critica feroce di un insider, la ha fatta sua e trasformata in salutare autoironia, come una battura, espressa con l’unica lingua che il mercato può conoscere: quella del denaro.

Leonora Carrington, “La Grande Dame (The Cat Woman),” olio su legno, 1951, venduta per 11.4 millioni di dollari. Leonora Carrington; via Sotheby's

Sir Michael Craig-Martin, il maestro di Damien Hirst e tutta la banda degli YBA, tra colori allegri e critiche feroci

Michael Craig-Martin, Common History: Conference, 1999. Acrylic on aluminium, 274 x 508 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Image courtesy of Gagosian

Adesso che ha 83 anni l’origine irlandese di Michael Craig-Martin, appare molto più chiara nei suoi tratti di quando frequentava la scuola d’arte negli Stati Unit; a testimonianza di quegli anni oltre oceano invece, pare conservi un accento americano che non riesce a cancellare nonostante abiti a Londra dal ’66. Ed è strano visto che il signor Craig-Martin dichiara di amare la città in cui vive. Senza contare che in Inghilterra, le sue gioiose e coloratissime immagini che effigiano oggetti della vita quotidiana hanno da tempo sfondato i muri delle gallerie d’arte per raggiungere il grande pubblico sotto forma di francobolli della Royal Mail, o borse della spesa della catena di supermercati Sainsbury's e lui è famosissimo per essere stato l’insegnate di Damien Hirst, Sarah Lucas, Gary Hume, Michael Landy e altri (cioè l’intero gruppo degli YBA, gli Young British Artists). Sull’onda del successo di quell’esperienza ha anche scritto un libro utile ad aiutare i giovani artisti a trovare la loro strada (“On Being an Artist”).

Tuttavia il suo nome non è conosciuto quanto quello di molti dei suoi ex-studenti. E questo nonostante Michael Craig-Martin sia stato nominato Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico nel 2001 e la sua attività espositiva si sia fatta più intensa e prestigiosa già da alcuni anni a questa parte. Adesso la Royal Academy of Arts gli dedica una retrospettiva che copre sessant’anni della sua carriera e dovrebbe consegnarlo alla storia dell’arte. Con 120 importanti opere ideate dagli anni'60 a oggi, tra cui sculture, installazioni, dipinti e disegni, comprende anche dei nuovi lavori concepiti per l’occasione.

In merito il signor Craig-Martin ha detto in un’intervista: “Pensavo che la possibilità di fare una mostra retrospettiva di questa portata nel Regno Unito fosse andata perduta, ma eccola qui. Difficilmente potrebbe essere più tardi, ma, in un altro modo, sta accadendo esattamente al momento giusto".

Michael Craig-Martin, An Oak Tree, 1973. Glass, water, metal and printed text on paper, 15 x 46 x 14 cm. Artist’s proof, shown with permission of the National Gallery of Australia. © Michael Craig-Martin. Image courtesy of Gagosian 

La mostra comincia dal periodo concettuale dell’artista irlandese in cui spicca “An Oak Tree” (“Una Quercia”) del 1973. Un’opera unanimamente apprezzata dalla critica e di cui, chiunque si sia interessato della storia dell’arte più recente, ha sentito parlare almeno una volta. Composta da un bicchiere d’acqua appoggiato su una mensola a parete, a cui è affiancato un testo che spiega in che modo tutto ciò è in realtà un albero (“Quello che ho fatto è trasformare un bicchiere d'acqua in una quercia adulta senza alterare gli accidenti del bicchiere d'acqua”), l’opera è stata definita dal critico britannico Jonathan Jones (che non ha l’abitudine di essere particolarmente clemente con gli artisti cui dedica una recensione): “Un incontro tra Tommaso d'Aquino e Monty Python”. Secondo lui, infatti, la questione avrebbe a che fare con la religione cattolica del signor Craig- Martin e con l’eucarestia, per spiegare la quale d’Aquino avrebbe fatto ricorso alla filosofia di Aristotele (“mentre gli ‘accidenti’- le apparenze superficiali- del pane e del vino sono immutati, l'’essenza’ si trasforma nella santa presenza del corpo di Cristo”). C’entrano poi i ready made (oggetti prelevati tali e quali dalla vita quotidiana e collocati nel museo) di Marcel Duchamp e il dipinto che rappresenta una pipa di René Magritte e che si intitola “Questa non è una pipa”. Il risultato è un lavoro affasciante, frizzante d’ironia, ma che pone questioni serie. Talmente serie che, quando “An Oak Tree” volò in Australia per una mostra al museo di Auckland, venne fermato dal dipartimento agricolo della dogana, ben deciso a non permettere a una specie vegetale non autoctona di entrare nel Paese. Qui il signor Craig-Martin fu costretto ad ammettere che, com’era evidente a tutti, il bicchiere d’acqua non era una quercia ma un bicchiere d’acqua.

Michael Craig-Martin, Untitled (corkscrew), 2014. Acrylic on aluminium, 122 x 122 cm. Private col-lection. © Michael Craig-Martin. Photo: Mike Bruce. Image courtesy of Gagosian

Non sarà su questa giovanile passione per il linguaggio concettuale, tuttavia, che si concentrerà la carriera di Michael Craig-Martin ma sorprendentemente sulla pittura: acrilici su alluminio declinati in una tavolozza splendente di gioiosi toni accesi e murales. La sua opera, infatti, effigia oggetti della vita quotidiana il più possibile attuali e duraturi (un biberon, una spilla da balia, un bicchiere take-away ecc.), disegnati con un tratto semplificato e lineare, per creare un vocabolario rassicurante di immagini onnipresenti e sottovalutate: “Pensavo- ha detto- che gli oggetti a cui diamo meno valore perché sono onnipresenti fossero in realtà i più straordinari”. Ma soprattutto per riflettere sullo spazio che separa la rappresentazione dal soggetto: “Il mio soggetto- ha spiegato- è ovvio: oggetti creati dall'uomo, cose utili. Ma non è questo il mio lavoro. Si tratta di un'esplorazione del miracolo delle immagini bidimensionali”.

Michael Craig-Martin, Untitled (painting), 2010. Acrylic on aluminium, 200 x 350 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Photo: Dave Morgan. Image courtesy of Gagosian

Nato nel 1941 a Dublino, Michael Craig-Martin, si è trasferito ancora bambino a Washington DC. Di quel periodo ha raccontato:” Sono cresciuto nell'America degli anni '50. Era l'età dell'oro dell'auto americana, con pinne e verniciatura bicolore, così glamour”. Ma il suo immaginario visivo infantile è stato segnato anche da suggestioni più antiche: "Sono cresciuto come cattolico in un mondo di immagini. In chiesa c'erano vetrate colorate e i preti indossavano abiti elaborati per la messa; c'erano accessori decorativi di ogni tipo. Era un ambiente molto visivo e mi ha incantato fin da piccolo”. In effetti i colori vivi e il cloisonne netto che separa le campiture nelle vetrate nelle chiese, restano riferimenti moto evidenti in tutta la sua opera.

Frequenta una scuola elementare cattolica gestita da suore e una scuola benedettina inglese (un sacerdote era un’artista e anche lui comincia ad interessarsi all’arte; in quel periodo in oltre vede i dipinti di MarK Rotko). Poi il padre, che era un economista della Banca Mondiale, viene trasferito in Colombia e il giovane Michael inizia il Lycée Français di Bogotà dove segue le lezioni di disegno dell’artista colombiano Antonio Roda (pure lui un riferimento importante per la sua formazione). Nel ’59 è di nuovo negli Stati Uniti e si iscrive alla Fordham University di New York, comincia a dipingere e l’estate del ’61 la trascorre alla Académie de la Grande Chaumière di Parigi (come tutti gli aspiranti artisti dell’epoca). Nell’autunno dello stesso anno, Craig-Martin, frequenterà il corso di pittura della prestigiosa Yale University, insieme a lui Richard Serra e altri giovani che si sarebbero affermati negli anni immediatamente successivi. Lui dovrà aspettare più a lungo.

Nel frattempo le teorie minimaliste e processuali di uno degli insegnanti, Josef Albers (uno dei nomi più noti del movimento Bauhaus) lasciano il segno (a dire il vero non solo su di lui: il cambiamento culturale era già in atto, la pittura cominciava a sembrare obsoleta).

Pur avendo sempre trovato Washington provinciale, il Signor Craig Martin sarebbe rimasto oltre oceano se avesse visto la possibilità di fare qualcosa di ben remunerato negli Stati Uniti, ma non crede ci siano chance e si trasferisce a Londra (lì insegnerà fino all’88). Durante il periodo di Yale si era sposato e aveva avuto una figlia ma nel ’76 si dichiara apertamente gay. Il suo lavoro, tuttavia, non viene influenzato più di tanto da questi scombussolamenti della vita privata.

Michael Craig-Martin, Untitled (papercup), 2014. Acrylic on aluminium, 122 x 122 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Photo: Mike Bruce. Image courtesy of Gagosian

Passato il periodo concettuale l’artista irlandese comincia a riprodurre oggetti della quotidianità, più spesso sui muri, ma con il nastro adesivo e senza nessun colore. Per vedere il suo stile definitivo dovremo aspettare gli anni 90 quando lui era intorno alla cinquantina d’anni. Da allora grandi formati, linee nere che delimitano in maniera semplice e lineare i disegni, grandi campiture di colori accesi che non hanno niente a che vedere con quelli del soggetto originale (dice di usarli per suggerire la consistenza delle varie parti). Fa ancora enormi opere murarie ma più spesso dipinge con rulli intrisi di vernici industriali su alluminio. Nel tempo, tuttavia, il suo vocabolario di oggetti d’uso quotidiano si è modificato, e le forme costose ma onnipresenti degli smartphone o dei computer portatili meno ingombranti, hanno fatto la loro comparsa.

Oggi la sua opera è considerata un momento di sintesi tra Pop Art, Minimalismo e Arte Concettuale. Ed è piacevole, davvero piacevole da vedere. Ma questo non lo ha protetto dalle recensioni feroci (anche in occasione di quest’ultima importate mostra i critici inglesi si sono sbizzarriti), tanto che una volta il curatore britannico Brian Sewell si è spinto a dire: “Come artista Craig-Martin merita solo derisione”. Il signor Craig-Martin ha così commentato la questione in un’intervista: “Quando una persona molto istruita si imbatte in un'arte che le sfugge, ne è così sconvolta che deve liquidarla come fraudolenta o falsa”.

La retrospettiva di Michael Craig-Martin alla Royal Academy of Arts di Londra, curata dal segretario e amministratore delegato del museo Axel Rüger, con le curatrici assistenti Sylvie Broussine e e Colm Guo-Lin Peare, si chiuderà il 10 dicembre 2024.

Michael Craig-Martin, Eye of the Storm, 2003. Acrylic on canvas, 335.3 x 279.4 cm. Collection Irish Museum of Modern Art, Purchase, 2005. © Michael Craig-Martin. Photo: Prudence Cuming Associates Ltd. Image courtesy of Gagosian

Michael Craig Martin, Untitled (four laptops blue), 2024. Acrylic on aluminium, 250 x 240, Gagosian, London. © Michael Craig-Martin. Photo: Lucy Dawkins. Image courtesy of Gagosian

Michael Craig Martin, Sea Food, 1984. Steel rod and oil paint on aluminium, 228.6 x 172.7, Waddington Custot, London. © Michael Craig-Martin