Sir Michael Craig-Martin, il maestro di Damien Hirst e tutta la banda degli YBA, tra colori allegri e critiche feroci

Michael Craig-Martin, Common History: Conference, 1999. Acrylic on aluminium, 274 x 508 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Image courtesy of Gagosian

Adesso che ha 83 anni l’origine irlandese di Michael Craig-Martin, appare molto più chiara nei suoi tratti di quando frequentava la scuola d’arte negli Stati Unit; a testimonianza di quegli anni oltre oceano invece, pare conservi un accento americano che non riesce a cancellare nonostante abiti a Londra dal ’66. Ed è strano visto che il signor Craig-Martin dichiara di amare la città in cui vive. Senza contare che in Inghilterra, le sue gioiose e coloratissime immagini che effigiano oggetti della vita quotidiana hanno da tempo sfondato i muri delle gallerie d’arte per raggiungere il grande pubblico sotto forma di francobolli della Royal Mail, o borse della spesa della catena di supermercati Sainsbury's e lui è famosissimo per essere stato l’insegnate di Damien Hirst, Sarah Lucas, Gary Hume, Michael Landy e altri (cioè l’intero gruppo degli YBA, gli Young British Artists). Sull’onda del successo di quell’esperienza ha anche scritto un libro utile ad aiutare i giovani artisti a trovare la loro strada (“On Being an Artist”).

Tuttavia il suo nome non è conosciuto quanto quello di molti dei suoi ex-studenti. E questo nonostante Michael Craig-Martin sia stato nominato Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico nel 2001 e la sua attività espositiva si sia fatta più intensa e prestigiosa già da alcuni anni a questa parte. Adesso la Royal Academy of Arts gli dedica una retrospettiva che copre sessant’anni della sua carriera e dovrebbe consegnarlo alla storia dell’arte. Con 120 importanti opere ideate dagli anni'60 a oggi, tra cui sculture, installazioni, dipinti e disegni, comprende anche dei nuovi lavori concepiti per l’occasione.

In merito il signor Craig-Martin ha detto in un’intervista: “Pensavo che la possibilità di fare una mostra retrospettiva di questa portata nel Regno Unito fosse andata perduta, ma eccola qui. Difficilmente potrebbe essere più tardi, ma, in un altro modo, sta accadendo esattamente al momento giusto".

Michael Craig-Martin, An Oak Tree, 1973. Glass, water, metal and printed text on paper, 15 x 46 x 14 cm. Artist’s proof, shown with permission of the National Gallery of Australia. © Michael Craig-Martin. Image courtesy of Gagosian 

La mostra comincia dal periodo concettuale dell’artista irlandese in cui spicca “An Oak Tree” (“Una Quercia”) del 1973. Un’opera unanimamente apprezzata dalla critica e di cui, chiunque si sia interessato della storia dell’arte più recente, ha sentito parlare almeno una volta. Composta da un bicchiere d’acqua appoggiato su una mensola a parete, a cui è affiancato un testo che spiega in che modo tutto ciò è in realtà un albero (“Quello che ho fatto è trasformare un bicchiere d'acqua in una quercia adulta senza alterare gli accidenti del bicchiere d'acqua”), l’opera è stata definita dal critico britannico Jonathan Jones (che non ha l’abitudine di essere particolarmente clemente con gli artisti cui dedica una recensione): “Un incontro tra Tommaso d'Aquino e Monty Python”. Secondo lui, infatti, la questione avrebbe a che fare con la religione cattolica del signor Craig- Martin e con l’eucarestia, per spiegare la quale d’Aquino avrebbe fatto ricorso alla filosofia di Aristotele (“mentre gli ‘accidenti’- le apparenze superficiali- del pane e del vino sono immutati, l'’essenza’ si trasforma nella santa presenza del corpo di Cristo”). C’entrano poi i ready made (oggetti prelevati tali e quali dalla vita quotidiana e collocati nel museo) di Marcel Duchamp e il dipinto che rappresenta una pipa di René Magritte e che si intitola “Questa non è una pipa”. Il risultato è un lavoro affasciante, frizzante d’ironia, ma che pone questioni serie. Talmente serie che, quando “An Oak Tree” volò in Australia per una mostra al museo di Auckland, venne fermato dal dipartimento agricolo della dogana, ben deciso a non permettere a una specie vegetale non autoctona di entrare nel Paese. Qui il signor Craig-Martin fu costretto ad ammettere che, com’era evidente a tutti, il bicchiere d’acqua non era una quercia ma un bicchiere d’acqua.

Michael Craig-Martin, Untitled (corkscrew), 2014. Acrylic on aluminium, 122 x 122 cm. Private col-lection. © Michael Craig-Martin. Photo: Mike Bruce. Image courtesy of Gagosian

Non sarà su questa giovanile passione per il linguaggio concettuale, tuttavia, che si concentrerà la carriera di Michael Craig-Martin ma sorprendentemente sulla pittura: acrilici su alluminio declinati in una tavolozza splendente di gioiosi toni accesi e murales. La sua opera, infatti, effigia oggetti della vita quotidiana il più possibile attuali e duraturi (un biberon, una spilla da balia, un bicchiere take-away ecc.), disegnati con un tratto semplificato e lineare, per creare un vocabolario rassicurante di immagini onnipresenti e sottovalutate: “Pensavo- ha detto- che gli oggetti a cui diamo meno valore perché sono onnipresenti fossero in realtà i più straordinari”. Ma soprattutto per riflettere sullo spazio che separa la rappresentazione dal soggetto: “Il mio soggetto- ha spiegato- è ovvio: oggetti creati dall'uomo, cose utili. Ma non è questo il mio lavoro. Si tratta di un'esplorazione del miracolo delle immagini bidimensionali”.

Michael Craig-Martin, Untitled (painting), 2010. Acrylic on aluminium, 200 x 350 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Photo: Dave Morgan. Image courtesy of Gagosian

Nato nel 1941 a Dublino, Michael Craig-Martin, si è trasferito ancora bambino a Washington DC. Di quel periodo ha raccontato:” Sono cresciuto nell'America degli anni '50. Era l'età dell'oro dell'auto americana, con pinne e verniciatura bicolore, così glamour”. Ma il suo immaginario visivo infantile è stato segnato anche da suggestioni più antiche: "Sono cresciuto come cattolico in un mondo di immagini. In chiesa c'erano vetrate colorate e i preti indossavano abiti elaborati per la messa; c'erano accessori decorativi di ogni tipo. Era un ambiente molto visivo e mi ha incantato fin da piccolo”. In effetti i colori vivi e il cloisonne netto che separa le campiture nelle vetrate nelle chiese, restano riferimenti moto evidenti in tutta la sua opera.

Frequenta una scuola elementare cattolica gestita da suore e una scuola benedettina inglese (un sacerdote era un’artista e anche lui comincia ad interessarsi all’arte; in quel periodo in oltre vede i dipinti di MarK Rotko). Poi il padre, che era un economista della Banca Mondiale, viene trasferito in Colombia e il giovane Michael inizia il Lycée Français di Bogotà dove segue le lezioni di disegno dell’artista colombiano Antonio Roda (pure lui un riferimento importante per la sua formazione). Nel ’59 è di nuovo negli Stati Uniti e si iscrive alla Fordham University di New York, comincia a dipingere e l’estate del ’61 la trascorre alla Académie de la Grande Chaumière di Parigi (come tutti gli aspiranti artisti dell’epoca). Nell’autunno dello stesso anno, Craig-Martin, frequenterà il corso di pittura della prestigiosa Yale University, insieme a lui Richard Serra e altri giovani che si sarebbero affermati negli anni immediatamente successivi. Lui dovrà aspettare più a lungo.

Nel frattempo le teorie minimaliste e processuali di uno degli insegnanti, Josef Albers (uno dei nomi più noti del movimento Bauhaus) lasciano il segno (a dire il vero non solo su di lui: il cambiamento culturale era già in atto, la pittura cominciava a sembrare obsoleta).

Pur avendo sempre trovato Washington provinciale, il Signor Craig Martin sarebbe rimasto oltre oceano se avesse visto la possibilità di fare qualcosa di ben remunerato negli Stati Uniti, ma non crede ci siano chance e si trasferisce a Londra (lì insegnerà fino all’88). Durante il periodo di Yale si era sposato e aveva avuto una figlia ma nel ’76 si dichiara apertamente gay. Il suo lavoro, tuttavia, non viene influenzato più di tanto da questi scombussolamenti della vita privata.

Michael Craig-Martin, Untitled (papercup), 2014. Acrylic on aluminium, 122 x 122 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Photo: Mike Bruce. Image courtesy of Gagosian

Passato il periodo concettuale l’artista irlandese comincia a riprodurre oggetti della quotidianità, più spesso sui muri, ma con il nastro adesivo e senza nessun colore. Per vedere il suo stile definitivo dovremo aspettare gli anni 90 quando lui era intorno alla cinquantina d’anni. Da allora grandi formati, linee nere che delimitano in maniera semplice e lineare i disegni, grandi campiture di colori accesi che non hanno niente a che vedere con quelli del soggetto originale (dice di usarli per suggerire la consistenza delle varie parti). Fa ancora enormi opere murarie ma più spesso dipinge con rulli intrisi di vernici industriali su alluminio. Nel tempo, tuttavia, il suo vocabolario di oggetti d’uso quotidiano si è modificato, e le forme costose ma onnipresenti degli smartphone o dei computer portatili meno ingombranti, hanno fatto la loro comparsa.

Oggi la sua opera è considerata un momento di sintesi tra Pop Art, Minimalismo e Arte Concettuale (anche se a lui, per qualche motivo, non piace chiamarla così). Ed è piacevole, davvero piacevole da vedere. Ma questo non lo ha protetto dalle recensioni feroci (anche in occasione di quest’ultima importate mostra i critici inglesi si sono sbizzarriti), tanto che una volta il curatore britannico Brian Sewell si è spinto a dire: “Come artista Craig-Martin merita solo derisione”. Il signor Craig-Martin ha così commentato la questione in un’intervista: “Quando una persona molto istruita si imbatte in un'arte che le sfugge, ne è così sconvolta che deve liquidarla come fraudolenta o falsa”.

La retrospettiva di Michael Craig-Martin alla Royal Academy of Arts di Londra, curata dal segretario e amministratore delegato del museo Axel Rüger, con le curatrici assistenti Sylvie Broussine e e Colm Guo-Lin Peare, si chiuderà il 10 dicembre 2024.

Michael Craig-Martin, Eye of the Storm, 2003. Acrylic on canvas, 335.3 x 279.4 cm. Collection Irish Museum of Modern Art, Purchase, 2005. © Michael Craig-Martin. Photo: Prudence Cuming Associates Ltd. Image courtesy of Gagosian

Michael Craig Martin, Untitled (four laptops blue), 2024. Acrylic on aluminium, 250 x 240, Gagosian, London. © Michael Craig-Martin. Photo: Lucy Dawkins. Image courtesy of Gagosian

Michael Craig Martin, Sea Food, 1984. Steel rod and oil paint on aluminium, 228.6 x 172.7, Waddington Custot, London. © Michael Craig-Martin

Frank Auerbach, uno dei maggiori esponenti della scuola di Londra è mancato lunedì

Frank Auerbach, Self-portrait, 2023, Acrylic on board 660 x 610 mm. Frankie Rossi Art Project

Conosciuto per la caparbia dedizione al lavoro, l’essere abitudinario ai limiti del maniacale e per la laboriosità della sua opera, il pittore britannico Frank Auerbach, è mancato lunedì scorso. Aveva 93 anni, insieme a Francis Bacon e a Lucian Freud (nipote di Sigmund), era uno dei maggiori rappresentanti della Scuola di Londra.

Nel 2001 in occasione della mostra alla Royal Accademy, Frank Auerbach andò ad aspettare il giornalista John O'Mahony che doveva intervistarlo alla fermata della metropolitana e lo accompagnò fino al suo studio. Una camminata di soli cinque minuti per il quartiere di Camden Town nella zona nord di Londra ma il Signor O'Mahony scrisse: “Una volta reggiunta la scalinata del suo studio con il cancelletto rappresentato in modo esaustivo nei suoi dipinti To The Studios, questo breve viaggio sembra averci portato attraverso l'intera lunghezza e larghezza del piccolo universo di Auerbach”. Quello studio, che pare fosse angusto e freddo, il Signor Auerbach, lo aveva rilevato dal suo amico e collega Leon Kossoff nel ’54. Da allora vi si recava tutti i giorni, sette giorni su sette, per dipingere, a parte un giorno all’anno in cui prendeva il treno per Bringhton sulla costa meriodinale dell’Inghilterra (a circa un’ora e mezza da Londra) per respirare un po’ d’aria di mare e poi ritornare in fretta e furia. Nello studio, da quando era tornato con la moglie, la pittrice Julia Wolstenholme (da cui ha avuto il figlio Jake che adesso fa il regista), dopo la tumultuosa e appassionata relazione con Estella Olive West, lui dormiva anche cinque notti a settimana (nel weekend andava dalla moglie). Non guardava mai la televisione che riteneva “un’invenzione abominevole” e la mattina, prima delle sette per non trovare traffico, dipingeva i parchi, le strade e gli edifici lì intorno. Tuttavia erano i ritratti quelli a cui dedicava più tempo, impegno e dedizione.

Si parla di immagini stilizzate ma dinamiche che emergono dalla pittura densa e grumosa spesso al limite dell’immaginabile in cui raramente si riconosce il soggetto. Comunque il Signor Auerbach ritraeva un ristrettissimo gruppo di persone, sempre le stesse (in genere amici e famigliari, tra cui la moglie, l’amata West e la modella Juliet Yardley Mills). Uno dei motivi era che posare per lui doveva essere una vera e propria prova di sopportazione: due ore a settimana per un tempo indefinito che poteva protrarsi facilmente per un anno o due e niente ritardi altrimenti lui si innervosiva. Un modello ha riferito a The Guardian: “Era come andare dal dentista”. Un altro ha invece spiegato: “Parla da solo tutto il tempo, dicendo 'spazzatura, non è abbastanza buono, spazzatura completa'. Ma ti rendi conto che improvvisamente a un certo punto in questo atto di creazione è un po' più contento. Di punto in bianco entra in uno stato di meditazione e tocca la tela con grande delicatezza, e pensi che forse è finalmente soddisfatto".

E.O.W. Nude, 1953–4, Frank Auerbach Oil paint on canvas. 508 × 768 mm frame: 683 × 945 × 106 mm Tate Britain

Era un disegnatore geniale e un pittore, perennemente insoddisfatto (anche molti anni dopo ricomprava le opere che non lo convincevano per distruggerle) ma enorme, con la mente sempre rivolta ai grandi maestri (tra loro Picasso ma anche Tiziano, Rembrandt e Rubens). All’inizio della sua carriera sovrapponeva strati su strati di pigmento, talvolta raschiando via zone gli sembravano sbagliate, per poi applicarne ancora e ancora. Si trattava di volumi di colore incredibilmente tattili e talmente consistenti che nel ’55 quando vennero esposti per la prima volta (opere oggi celebrate come Head Of EOW del 1954-55 che aveva richiesto 300 sedute e due anni di lavoro e l'EOW Nude del 1953-54) ci vollero due o tre persone per reggerli talmente erano diventati pesanti, e, alla fine, si decise di appoggiarli sul pavimento per paura che la vernice si staccasse e cadesse a terra. Qualche anno dopo però cambiò tecnica e cominciò a dipingere per poi raschiare via l’intero risultato, poi ridipingeva poi raschiava di nuovo e così via per un infinito numero di volte. Secondo una stima fatta dallo stesso artista pare che il 95 per cento del colore da lui utilizzato finisse nell’immondizia.

Era nato a Berlino il 29 aprile del 1931 da una famiglia ebrea colta e benestante. Il padre Max era un avvocato specializzato in brevetti, mentre la madre Charlotte Borchardt aveva ricevuto una formazione artistica. Ma poi la situazione politica tedesca si complicò troppo e i genitori decisero di mandare il piccolo Frank Helmut Auerbach in Inghilterra attraverso un programma per bambini rifugiati. Poco tempo dopo loro furono internati in un campo di concentramento ed uccisi ma il figlio si salvò ed ebbe l’opportunità di studiare oltre Manica. Fin da piccolo sognava di fare l’artista e frequentò prima il Bunce Court School a Otterden, nel Kent, poi il Hampstead Garden Suburb Institute e la St. Martin's School of Art di Londra. Recuperò infine un semestre al Borough Polytechnic Institute (ora London South Bank University), dove studiò con il pittore vorticista David Bomberg (che lui ricordò per tutti gli anni a venire). Era dotato per l’arte ma lo era anche per il teatro e una volta finì a recitare in una produzione dell’opera di Peter Ustinov, "House of Regrets", lì incontrò la signora Estella Olive West. Lui aveva 17 anni lei 32, sarebbero stati insieme per 25 anni.

La tragica fine della sua famiglia e le difficoltà che porta intraprendere la carriera artistica, lo misero nella condizione di avere costanti problemi economici. Tanto che per sopravvivere insegnò, trovò lavoro presso la panetteria della famiglia Kossoff nell'East London, fece il corniciaio e vendette persino gelati a Wimbledon Common. Ne avrebbe risentito per molti anni anche la sua pittura: per risparmiare comperava soltanto pigmenti scuri che costavano meno. Man mano che la sua situazione finanziaria migliorava (ci vollero molti anni perché si sistemasse definitivamente) aggiungeva colori dalle tinte sempre più accese che emergevano irrequieti in mezzo alla biacca incrostata. La sua affermazione venne ritardata da vari movimenti come l’Arte Concettuale e il Minimalismo ma nell’86 rappresentò la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia e si aggiudicò il Leone d’Oro insieme al tedesco Sigmar Polke. Ora le sue opere superano molto spesso il milione.

Nel 2011 quando morì Lucian Freud una parte della sua vasta collezione di Aurbach fu donata al governo inglese al posto della tassa di successione di 16 milioni di sterline (al cambio attuale oltre 19 milioni di euro).

Nel corso del tempo raccolse critiche entusiastiche e pareri ferocemente contrari che vanno da “l’inglese testardo per eccellenza” con cui lo liquidò il critico Stuart Morgan a "uno degli artisti più ammirati che lavorano oggi in Inghilterra" del critico Robert Hughes. Ma martedì, dopo che il mondo aveva appreso della sua scomparsa tutti gli artisti più famosi del Regno Unito lo hanno celebrato.

Frank Auerbach, Mornington Crescent - Summer Morning 2004 © Frank Auerbach Tate Britain

Meno horror e più ghost story fa discutere la fabbrica di pelli umane di Mire Lee alla Tate

Hyundai Commission: Mire Lee: Open Wound, Installation View, Photo © Tate (Larina Fernandes)

Conosciuta per le sue sculture cinetiche che, mentre si muovono in maniera goffa e altalenate, tra gocciolamenti di liquidi vischiosi e parti simili a viscere, incutono rispetto e repulsione, Mire Lee si sta sempre più saldamente affermando. Da circa un mese a questa parte occupa la Turbine Hall alla Tate Modern di Londra con la sua grande installazione “Open Wound”. La Hyunday Commission (si chiama così perché dal 2015 è finanziata dalla multinazionale coreana), è un incarico molto prestigioso e la signora Lee, a 34 anni, è l’artista più giovane a cui sia mai stata assegnata.

Prima di lei, tra gli altri: El Anatsui, Anicka Yi, Bruce Nauman, Louise Bourgeois, Olafur Eliasson, Ai Weiwei e Carsten Höller. Tutti nomi noti, alcuni molto famosi. Ognuno di loro è stato selezionato per presentare un progetto nell’ex- spazio turbine dell’edificio che un tempo ospitava la centrale termoelettrica di Bankside. Aperta al pubblico nel 2000, la Turbine Hall, però, è una struttura a sé stante, una di quelle che si possono dire difficili per un artista (alta cinque piani ha un’estensione di 3.400 metri quadri).

Hyundai Commission: Mire Lee: Open Wound, Installation View, Photo © Tate (Oliver Cowling with Lucy Green)

Lee, in questo caso, ha deciso di puntare sulle memorie dell’industria del passato, tirando fuori suggestioni da ghost story molto inglesi e riducendo la percentuale horror dell’opera. “Open Wound” si compone, infatti, di una grande e fantasiosa turbina che ruota avvolgendo e lasciando cadere dei cavi (il movimento imprevedibile di questi ultimi è una tra le note più brutali del lavoro), su questo corpo meccanizzato scivola un liquido rosa che, dopo essere caduto su delle sculture di metallo e tessuto (tingendole e, poco a poco, trasformandole in “pelli” come le chiama l’artista) si raccoglie in una specie di piatto. Via via che le sculture si impregnano completamente di colore degli addetti le prendono e le appendono sul retro (dove ci sono anche altri oggetti dall’aria sinistra). L’installazione, è insomma una specie di catena di montaggio di pelle umana, ispirata alle condizioni di lavoro degli operai durante la rivoluzione industriale ma con l’occhio della mente già rivolto al prezzo che dovremo pagare per le innovazioni tecnologiche del presente e del prossimo futuro.

A qualcuno “Open Wound” è piaciuta ma ad altri non è piaciuta affatto (su Instagram molti l’hanno paragonata al videogioco “Silent Hill”mentre qualcuno si è soffermato sui costi del progetto)..

Sarà che le opere della signora Lee, che solo due anni fa sono state esposte da Cecilia Alemani alla Biennale di Venezia, sono fondamentalmente bipolari: disturbanti e piuttosto splatter certo, ma anche docili nei loro incerti movimenti e persino graziose. E mentre sgocciolano liquidi non meglio precisati, che richiamano sangue e secrezioni corporee di vario tipo (lei però è una personcina per bene e in genere usa materiali non cruenti come siliconi e olio motori), possono persino risultare rilassanti come un’innocua fontana o grottescamente buffe. Alemani, parlando delle opere che aveva inserito in biennale, ha detto: "Sembra di guardare dentro le viscere di un drago, o qualcosa che in realtà non vuoi vedere. Ma c'è anche questa sensualità della pelle delle sculture, l'idea dell'epidermide che cambia ed è anche piuttosto delicata in un certo senso".

Hyundai Commission artist Mire Lee at Tate Modern. Photo © Tate (Ben Fisher Photography)

Figlia di uno scultore surrealista e di un’editrice d’arte che insegnava anche in una scuola media, Mire Lee, ha trascorso la maggior parte della sua vita a Seoul ma dal 2018 abita ad Amsterdam. Da adolescente sognava di diventare regista mentre alla fine si è laureata in belle arti per poi specializzarsi in scultura attraverso un master della prestigiosa Seoul National University. In un’intervista ha detto: "Ho sempre voluto realizzare opere dall'aspetto selvaggio, o opere grezze", anche se la svolta nel suo lavoro l’ha avuta quando ha cominciato a inserire motori, per la precarietà del funzionamento di questi ultimi all’interno delle sculture, per l’elemento di casualità che portano ma soprattutto perché le “hanno dato dei risultati sorprendenti”.

Lee è un’appassionata di manga a contenuto erotico, di film alla Quentin Tarantino e fantascienza ma le sue opere prendono spesso spunto da fonti peggiori (mutilazioni, parafilie di ogni genere, shibari o bondage giapponese con corde e altre abbiezioni di questo tipo). Fa lunghe ricerche su argomenti quantomeno ambigui se non apertamente disgustosi prima di costruire un lavoro, ma nel momento in cui tutto ciò confluisce nel progetto, si tramuta. Resta repulsione ma c’è anche della bellezza (a fare una parte del miracolo è l’artigianalità che si percepisce).

Hyundai Commission: Mire Lee: Open Wound, Installation View, Photo © Tate (Oliver Cowling with Lucy Green)

Lee in genere ci parla di decadimento del corpo, di intimità viscerale, di sesso e identità. Le sue installazioni possono anche essere viste come un modo per dare forma a dei forti sentimenti. Alla Turbine Hall, inoltre, ha introdotto degli elementi nuovi; come il fatto che le sculture di tela ricordano dei fantasmi intenti a svolazzare per l’enorme spazio espositivo ma anche degli abiti (chiamando quindi in causa l’industria della moda). La turbina goccionate poi, coi suoi bravi cavi di silicio da sbattere qua e là, sembra una pianta (magari carnivora) da cui penzolano delle liane durante un temporale.

La Tate, l’opera l’ha spiegata con queste parola: “L'installazione è intesa ad avere un effetto inquietante sullo spettatore, evocando una gamma di emozioni contraddittorie tra cui sentimenti di tenerezza ed empatia, così come malinconia, soggezione e disgusto”. L’artista Antonio Riello dopo averla vista dal vivo ha invece scritto in un articolo: “Una esperienza decisamente notevole per lo spettatore, anche se a volte le vociferanti schiere dei visitatori tolgono un po’ della sacralita’ laica che emana dal progetto: finiscono insomma per banalizzarlo un po”. Così, infine, critico britannico e insegnate del Royal College, Adrian Searle (a cui proprio l’installazione alla Turbine Hall non è piaciuta): “Gli artisti si sono spesso rivolti alla miseria dell'essere nel corpo. A volte lo hanno fatto per impartire qualche lezione religiosa o per istruirci sulle miserie e la brevità della vita, e a volte perché, come Francis Bacon, a loro piace questo genere di cose, e ci si eccitano persino (…) Oggigiorno è difficile trovare le allusioni di Lee alla mortalità molto più che kitsch. Tutti quegli stracci somigliano a tante decorazioni di Halloween, pronte per essere buttate il primo novembre”.

La “Hyundai Commission: Open Wound” di Mire Lee nella Turbine Hall della Tate Modern di Londra si potrà visitare fino al 16 marzo 2025.

Hyundai Commission: Mire Lee: Open Wound, Installation View, Photo © Tate (Larina Fernandes)

Hyundai Commission: Mire Lee: Open Wound, Installation View, Photo © Tate (Larina Fernandes)

Hyundai Commission: Mire Lee: Open Wound, Installation View, Photo © Tate (Lucy Green)

Hyundai Commission: Mire Lee: Open Wound, Installation View, Photo © Tate (Larina Fernandes)

Hyundai Commission: Mire Lee: Open Wound, Installation View, Photo © Tate (Oliver Cowling)