Arpita Singh tra i pionieri ingiustamente esclusi dai manuali di storia dell’arte viene celebrata alla Serpentine

Arpita Singh, My Lollipop City: Gemini Rising, 2005. Vadehra Art Gallery © Arpita Singh.

Arpita Singh alla Serpentine
60 anni di carriera in mostra a Londra

Sebbene Arpita Singh nel 1976 dipingesse già da parecchi anni e avesse individuato nella figurazione il suo linguaggio espressivo, un giorno decise di rinunciarvi e da quel momento in avanti, per quasi sei anni, tracciò solo linee e punti. Ripetutamente, quasi ossessivamente, centinaia e centinaia di volte, usando carta, matite, penne e inchiostri, a volte pastelli e vernice spray, altre coloranti vegetali e shampoo shikakai. Generalmente lavorava in bianco e nero, e pure se Paul Klee fosse uno dei suoi eroi non era all’astrazione che pensava in quel periodo ma a fare esercizio: sentiva di “non muoversi naturalmente sulla tela”. Visti adesso, anche questi suoi tentativi di automiglioramento hanno la dignità della grande arte.

Del resto Arpita Singh, cui dal 20 marzo scorso le prestigiose Serpentine Galleries di Londra dedicano la mostra “Remembering”, a 88 anni è una dei pionieri dell’arte contemporanea indiana e un’artista di grande talento il cui nome resta ad oggi però sconosciuto alla maggior parte del pubblico internazioale. Lo stesso direttore artistico di Serpentine (nonchè famoso critico di lungo corso) Hans Ulrich Obrist, ha detto di aver conosciuto l’opera della signora Singh solo alla fine del primo decennio del 2000 quasi per caso: l’“abbiamo incontrata- ha dichiarato Obrist insieme all’amministratrice di Serpentine Bettina Korek- per la prima volta durante la ricerca per la mostra del 2008/2009 alla Serpentine South intitolata Indian Highway (…) Questa mostra storica si basa sulla riconosciuta capacità della Serpentine di mettere in luce artisti pionieri che devono ancora ricevere un riconoscimento globale per il loro lavoro, come Luchita Hurtado, Faith Ringgold, Hervé Télémaque, James Barnor, Kamala Ibrahim Ishag e Barbara Chase-Riboud”.

Difatti, con un numero impressionante di lavori che documentano ben sei decenni di attività artistica di Arpita Singh, quella alle Serpentine Galleries è la prima personale della signora Singh in uno spazio istituzionale non indiano. Lei in merito ha detto: “Remembering attinge a vecchi ricordi da cui sono emerse queste opere. Che io ne sia consapevole o meno, c'è qualcosa che accade nel mio profondo. È il modo in cui scorre la mia vita. La Serpentine è un museo noto e affermato. Avere una mostra personale lì è un piacere, un onore e una sorpresa per me".

Arpita Singh, Remembering, Serpentine North © Photo: Jo Underhill. Courtesy Arpita Singh and Serpentine.

In India invece la signora Singh è piuttosto nota. Ha anche fatto parlare di sé per aver cavalcato con successo le aste d’arte contemporanea tra la fine degli anni ’90 in poi (un dipinto nel’99 valutato poco più di 570 dollari è stato poi venduto per oltre un milione e trecentomila; mentre nel 2010 un lavoro ha sfondato il tetto dei 2 milioni).

La sua opera mixa un approccio onirico e profondamente personale agli sconvolgimenti politici e sociali che hanno scosso l’India dalla sua indipendenza (avvenuta il 15 agosto 1947) in avanti. Stilisticamente unisce riferimenti al Surrealismo e in genere a vari modernisti europei, alla pittura di corte bengalese, alle miniature, ai tessuti e alle rappresentazioni folcloristiche del subcontinente indiano.

In merito Obrist e Korek hanno spiegato: “Attraverso una pratica che fonde l'arte popolare bengalese con esplorazioni moderniste dell'identità, Singh ritrae vividamente scene di vita e immaginazione, storie e simboli, unendo il personale e l'universale (…)”.

Arpita Singh, The Tamarind Tree, 2022. Courtesy of Vadehra Family Collection. © Arpita Singh

Nata nel 1937 a Baranagar in quello che oggi è il Bengala Occidentale, Arpita Dutta (in seguito avrebbe scelto di firmare il proprio lavoro col cognome del marito), che aveva già perso il padre fu costretta a scappare dalla sua città natale insieme alla madre e al fratello quando aveva 9 anni (malgrado gli stupri, il sangue e la violenza sarebbero esplosi solo l’anno successivo con l’indipendenza e la partizione del territorio che ne sarebbe seguita, ad Arpita quel momento rimase talmente impresso che lo ha dipinto più e più volte). Da allora vive a Nuova Delhi. Si è laureata in belle arti al Politecnico di Delhi e poi ha lavorato al Weavers' Service Centre (una cooperativa governativa nata nel ’56 sempre a Delhi per preservare e promuovere le tradizioni tessili dell'India) imparando a conoscere i tessuti tradizionali di tutto il Paese. Si è sposata con il collega artista Paramjit Singh da cui ha avuto una figlia (Anjum Singh, a sua volta artista talentuosa, morta prematuramente di cancro nel 2020). Ancora oggi dipinge tutti i giorni dalle nove di mattina fino al primo pomeriggio.

Malgrado l’arte della signora Singh nel tempo si sia evoluta, passando dall’acquerello a una pittura ad olio stesa con crescente maestria ed abilità (spesso appiattisce l'olio in modo tale che le campiture sembrino pezzi di carta colorati applicati sulla tela; a volte riesce persino a stupire utilizzando la pittura inversa); da una dimensione prevalentemente intima a una più apertamente politica e di denuncia sociale; da composizioni tutto sommato raccolte a grandi lavori simili a mappe animate da un respiro epico. Nonostante ciò, la componente narrativa nella sua opera si ritrova inalterata dagli esordi fino ad oggi, ed è per questo che l’inesplicabilità dei suoi racconti sembra tutto sommato strana. Ad alcuni simboli ricorrenti (come gli omini vestiti di nero che rappresentano la kafkiana burocrazia del subcontinente) è facile trovare una spiegazione ma in linea di massima il significato più profondo delle sue storie resta avvolto nel mistero. In un’intervista lei ha detto: "Tutte le opere d'arte, che si tratti di un libro, una canzone o un dipinto, sono specchi, In un certo senso, l'artista ti mostra lo specchio e tu ci vedi te stesso".

Arpita Singh, Devi Pistol Wali, 1990. Courtesy of Museum of Art & Photography, Bengaluru, India. © Arpita Singh

Punteggiate da elementi che ricordano una natura lussureggiante e benevola (come manghi e fiori), uno spazio domestico altrettanto rassicurante (cuscini colorati ecc.) e riccamente incorniciate, le opere della signora Singh, mettono al centro figure femminili che affrontano con quieto coraggio una società in subbuglio dove ordinaria follia e violenza vanno di pari passo “In particolare- spiega Serpentine- l'artista si è occupata dell'impatto distintivo di eventi locali, nazionali e globali sulla psicologia delle donne, in particolare quelle all'interno della sua rete sociale”.

Grande lettrice, lei fa spesso ricorso a lettere e parole (sia in alfabeto devanagari che in quello latino) nella costruzione delle sue grandi tele. Un’abitudine che ha preso però quando al principio della sua carriera, per risparmiare, dipingeva su fogli di giornali e riviste.

Tra le sue opere una delle più famose (e ai tempi in cui venne presentata pubblicamente, in India, anche la più discussa) è “Devi Pistol Wali” (1990). In cui la dea indù dalle molte braccia solleva gli angoli del sari (bianco da lutto) con due mani, mentre con le altre regge un mango, una pianta in fiore e una pistola; sopra di lei volteggiano aerei militari.

Remembering” di Arpita Singh (curata da a Tamsin Hong in collaborazione con Liz Stumpf) rimarrà alla galleria nord delle Serpentine Galleries di Londra fino al 27 luglio 2025.

Arpita Singh, Remembering, Serpentine North © Photo: Jo Underhill. Courtesy Arpita Singh and Serpentine.

Arpita Singh, Buy Two, Get Two Free, 2007. Private Collection. © Arpita Singh

Arpita Singh, Remembering, Serpentine North © Photo: Jo Underhill. Courtesy Arpita Singh and Serpentine.

Arpita Singh, Lesser Myth, 2006. Courtesy of Vadehra Family Collection. © Arpita Singh

Arpita Singh, Remembering, Serpentine North © Photo: Jo Underhill. Courtesy Arpita Singh and Serpentine.

Arpita Singh, Remembering, Serpentine North © Photo: Jo Underhill. Courtesy Arpita Singh and Serpentine.

Arpita Singh © Vadehra Gallery

Paradiso di Gian Maria Tosatti: un Viaggio Immersivo tra Arte e Memoria

Gian Maria Tosatti, Paradiso 2025, ex Magazzini Raccordati (Stazione Centrale, Milano). Installation view. Courtesy the artist

Il "Paradiso" di Gian Maria Tosatti a Milano
La mostra agli ex-Magazzini Raccordati della Stazione Centrale

A due anni di distanza dalla sua personale presso gli spazi del Pirelli Hangar Bicocca l’artista e saggista Gian Maria Tosatti torna a Milano per presentare un progetto visionario che si articola e sviluppa tra due diverse sedi espositive complementari che si riflettono l’una nell’altra.

Lo show principale si intitola “Paradiso” ed è un intervento monumentale dal forte impatto simbolico, un’installazione ambientale site-specific appositamente concepita per essere ospitata presso gli spazi degli ex Magazzini Raccordati della Stazione Centrale di Milano. A cui è stata affiancata la mostra “Es brent!” (il titolo significa “Brucia!” ed è ispirato a una canzone yiddish del ‘38) alla galleria privata Lia Rumma (la sede milanese) incentrata principalmente sulla produzione pittorica di Gian Maria Tosatti.

Gli ex Magazzini Raccordati sono un’area storica della città sottoposta al vincolo della Sovrintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, che mediante la collaborazione tra istituzioni come l’Accademia di Brera e il Politecnico di Milano, aziende e studenti, viene riqualificata e valorizzata attraverso un approccio culturale, foriero di rigenerazione urbana e rinnovata attenzione. L’Arte è in questo caso più che mai strumento universale di consapevolezza e Memoria.

Gian Maria Tosatti, Paradiso 2025, ex Magazzini Raccordati (Stazione Centrale, Milano). Installation view. Courtesy the artist

L’artista predilige il medium dell’installazione ambientale nella sua pratica artistica, a cui si dedica da diversi anni e a cui ha lavorato lungamente per la creazione di ambienti che danno vita a un’esperienza estetica immersiva e autentica che coinvolge attivamente il visitatore. Questo approccio mira a stimolare i sensi, la percezione e il pensiero di chi fa esperienza dell’opera e non si limita ad osservarla, ma ne è coinvolto e la attraversa affrontando un processo trasformativo. Per l’artista è fondamentale che l’esperienza estetica sia compiuta pienamente, in equilibrio tra percezione e riflessione.

Gian Maria Tosatti, Paradiso 2025, ex Magazzini Raccordati (Stazione Centrale, Milano). Installation view. Courtesy the artist

Paradiso” è una profonda metafora della condizione umana contemporanea, dominata dall’indifferenza, e nasce dall’urgenza di comunicare la mancanza di valori e moralità che investe il nostro tempo, ormai assuefatto e anestetizzato dalla violenza e dal male.

Il percorso si sviluppa su una superficie di 3000 metri quadrati, attraverso sette ambienti che mostrano un’immagine distopica di un cielo devastato, crollato, svuotato di ogni prospettiva ideale. Come afferma l’artista stesso: “Paradiso è una visione crudele e disincantata di un mondo che non crede più a sé stesso, né ad un orizzonte ideale, e abita una terra oscura, desolata, su cui il cielo é caduto in pezzi”.

Il paradiso di Tosatti è una dimensione decadente, dominata dal vuoto, desolata e abbandonata, ridotta al proprio scheletro, la cui sacralità è stata avvelenata. Le sette volte celesti sono crollate, infiltrate dall’umidità, dall’acqua, in un stato di abbandono generale. Sono ambienti in cui domina un senso di rovina, di incuria, di distruzione, tra lampadari a candelabro illuminati dalle fiammelle delle candele appesi o caduti a terra e grandi citazioni in foglia d’oro alle pareti tratte dall’Apocalisse che ci invitano a riflettere, mettendoci in discussione.

È un paradiso disabitato in cui le gerarchie angeliche non esistono più, evocate soltanto da una parete in marmo in frantumi, su cui sono classificati e incisi tutti i loro nomi. L’atmosfera è resa ancora più drammatica da angoli abitati da clochard avvolti nelle loro coperte termiche argentate, da qualche latrina sudicia, da qualche pozzanghera che si alterna a cumuli di neve di sale lungo tutto il percorso.

Gian Maria Tosatti, Paradiso 2025, ex Magazzini Raccordati (Stazione Centrale, Milano). Installation view. Courtesy the artist

L’ottavo ambiente è dominato dal buio, illuminato soltanto da una piccola lampada su un tavolo accanto ad una radio che trasmette le note del El Mole Rahamim. Questi elementi si rivolgono direttamente in direzione di un portale in ferro serrato che si apre sul tristemente noto binario 21 da cui partirono le deportazioni nei campi di sterminio. Questa è l’immagine più evocativa del percorso in cui il potere universale dell’Arte incontra il valore della Memoria, a cui non possiamo in alcun modo sottrarci.

"Paradiso" di Gian Maria Tosatti resterà agli ex Magazzini Raccordati della Stazione Centrale di Milano solo fino all’11 Aprile 2025. “Es brent!” da Lia Rumma proseguirà invece fino all’8 maggio.

Gian Maria Tosatti, Paradiso 2025, ex Magazzini Raccordati (Stazione Centrale, Milano). Installation view. Courtesy the artist

Gian Maria Tosatti, Paradiso 2025, ex Magazzini Raccordati (Stazione Centrale, Milano). Installation view. Courtesy the artist

Gian Maria Tosatti, Paradiso 2025, ex Magazzini Raccordati (Stazione Centrale, Milano). Installation view. Courtesy the artist

Gian Maria Tosatti, Paradiso 2025, ex Magazzini Raccordati (Stazione Centrale, Milano). Installation view. Courtesy the artist

Gian Maria Tosatti, Paradiso 2025, ex Magazzini Raccordati (Stazione Centrale, Milano). Installation view. Courtesy the artist