La notevole pittura di Tesfaye Urgessa a Palazzo Bollani illumina la prima volta dell’Etiopia alla Biennale

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Raggiungere Palazzo Bollani richiede un piccolo sforzo in più ai visitatori della 60esima edizione della Biennale Internazionale d’Arte. Non è molto lontano né dall’Arsenale (dove si estende una parte della mostra “Stranieri ovunque- Foreigners everywhere” curata da Adriano Pedrosa) né da Piazza San Marco ma le cose da vedere a Venezia sono sempre talmente tante che si mette in conto di perdere qualcosa. Tuttavia depennare dalla visita proprio il Padiglione Etiopia alla sua prima in laguna e soprattutto l’artista Tesfaye Urgessa che lo rappresenta, sarebbe un grave errore. Perché il Signor Urgessa è un pittore talentuoso e raffinato che ha saputo fondere la tradizione rappresentativa etiope (imprevedibilmente, legata a filo stretto al Realismo Socialista russo) con le avanguardie storiche europee e poi con il neo-espressionismo tedesco, con Francis Bacon e Lucian Freud (ma non solo), shakerare ogni cosa e creare uno stile tutto suo. Onirico e a tratti umoristico. Mentre la ricca cornice cinquecentesca dell’edificio, con soffitti alti e grandi finestre affacciate direttamente sull’acqua dei canali, mette in luce la sua abilità.

D’altra parte si vede che Urgessa dipinge e disegna come respira (tra l’altro passando agevolmente da pittura a olio, acquerello, pastelli ecc.): su un’opera in mostra c’è un’ombra dipinta, che a chi guarda sembra indistinguibile da un’ombra reale, salvo rendersi poi conto dell’assenza di qualcuno o qualcosa che potrebbe proiettarla.

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Il progetto presentato in Biennale si intitola "Prejudice and Belonging" (Pregiudizio e Appartenenza) ed è curato dallo scrittore e conduttore radiofonico britannico Lemn Sissay, che il Signor Urgessa ha scelto personalmente (è stato lui stesso, infatti, a convincere il governo etiope a partecipare alla manifestazione italiana e per questo si è pure potuto regalare il lusso di scegliere il curatore). Sviluppata attraverso un nutrito numero di dipinti di grandi dimensioni e qualche opera più piccola, la mostra, è una riflessione dell’artista su cosa significhi appartenere a qualcosa (per esempio: quanto tempo ci vuole? Quali le caratteristiche distintive? Quando si smette di esserne parte? ecc.) e sul concetto di pregiudizio. Per rendere questi pensieri, Urgessa utilizza simboli (i libri per lui sono il pregiudizio, gli schermi il controllo e così via), parti del corpo disancorate (gambe, mani), spesso schierate in massa ad evocare dinamismo, vitalità, trasformazione, cambiamento, rituali di una qualche quotidianità e volti. Soprattutto volti, che scrutano lo spettatore mentre li osserva incapace di capire il loro messaggio.

In un’intervista ha detto: “Il mio obiettivo era quello di creare un gruppo di figure impegnate in attività sconosciute, lasciando intenzionalmente la situazione ambigua per lo spettatore. (…) Creando un'atmosfera in cui il pubblico si sente sotto esame, spero di stimolare l'introspezione e la riflessione sulla natura della percezione e del giudizio. La mia intenzione è quella di incoraggiare gli spettatori a confrontarsi con i propri pregiudizi e preconcetti mentre interagiscono con la mia opera d'arte”.

Nonostante l’argomento, le sue composizioni esprimono spesso umorismo e leggerezza. A proposito dei personaggi, lui ha spiegato: "Spesso le persone credono che io dipinga vittime nelle mie tele, ma non è così. La società ha una forte tendenza a ridurre l'essere umano in categorie. Io sto facendo l'opposto. Cerco di ritrarre persone nella loro totalità con le loro sicurezze, le loro lotte, le loro cicatrici, tutte le loro sfide e tensioni. Le mie figure non sono né bianche né nere. Sono fragili e sicure di sé. Rappresentano tutti. Mostrano esseri umani fatti di cose in comune tra loro".

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Nato nell’83 ad Adis Abeba, Tesfaye Urgessa, considera le sue composizioni come fossero un’ordinata cantina o dei surreali collages senza colla ne ritagli. Così, inserisce all’interno dei dipinti immagini diverse (a un primo sguardo verosimili ma mai realistiche), che gli vengono in mente in momenti diversi e sono il risultato di domande e sentimenti non sempre omogenei. Tanto che lavora su più opere contemporaneamente e tiene in studio ognuna per almeno un anno (alla fine sceglie se conservarle o rifarle daccapo). Dopo essersi laureato in arte e design all’Università di Adis Abeba (i suoi insegnati erano artisti etiopi che, com’era consuetudine fino agli anni ’80, erano stati mandati in Russia per imparare le tecniche del Realismo Socialista), si è specializzato all’Accademia Statale di Stoccarda in Germania (dove ha continuato a vivere fino a poco tempo fa). Questo gli ha permesso di conoscere da vicino i maestri dell’arte europea sia del passato remoto (ha detto, ad esempio, che l’equilibrio tra luce e ombre nelle sue opere fa spesso riferimento a Caravaggio), che del modernismo, oltre ai grandi nomi della pittura contemporanea. Nonostante ciò, un particolare che ha contribuito a forgiare il suo stile almeno quanto il confronto con questi giganti, viene dalla sua vita privata. Ha infatti sposato l’artista tedesca Nina Raber-Urgessa (anche lei usa la pittura e fa figurazione) specializzata in arteterapia (i due hanno tre figli e dal 2022 abitano in Etiopia). E le surreali composizioni del Signor Urgessa che metteno in scena una teatralità stralunata hanno molto a che fare con l’elaborazione di elementi onirici.

La tavolozza è terrosa e variegata nelle sfumature ma pronta a illuminarsi di colori sgargianti (e a tratti persino stilosi) quando meno ce lo si aspetti. Spesso è scura ma per qualche strana alchimia mai cupa, drammatica o tragica.

"Prejudice and Belonging" di Tesfaye Urgessa, il primo padiglione Etiopia della Biennale d’Arte di Venezia, rimarrà a Palazzo Bollani fino alla fine, ormai prossima, della manifestazione (resta meno di un mese per visitarla: fino al 24 novembre 2024)

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

La Chola Poblete, un’artista indigena e queer sulla cresta dell’onda

La Chola Poblete, 2022 Foto: Agustina Lamborizio / © La Chola Poblete

Nata a Mendoza nella parte nord-occidentale dell’Argentina (a ridosso delle Ande) come Mauricio trentacinque anni fa e cresciuta in una famiglia indigena di pochi mezzi prevalentemente femminile, La Chola Poblete, è oggi un artista in vertiginosa ascesa. La partecipazione alla Biennale d’arte di Adriano Pedrosa “Stranieri Ovunque. Foreigners Everywhere dove ha ottenuto la menzione speciale della giuria, infatti, non è venuta da sola. E, dopo aver vinto il prestigioso premio “Artist of the Year” di Deutsche Bank, il suo colorato universo dolente, animato da madonne, dee, simboli pop, erotismo e crudo umorismo, adesso è al centro della mostra “Guaymallénal” (da un dipartimento nella provincia della sua città natale) al Mudec di Milano.

Se non bastasse, a giugno, si è confrontata con il mercato iper-competitivo della fiera più famosa in assoluto (Art-Basel). E poi i segnali premonitori c’erano già tutti, quando, durante Arco Madrid, la Regina di Spagna l’aveva voluta conoscere dopo essere stata colpita dai suoi acquerelli esposti nello stand della galleria che la rappresenta. Pare che La Chola Poblete, la cui opera è in gran parte una critica delle dinamiche post-coloniali, trovandosi di fronte Letizia abbia affermato: “Come stai? Eccoci qui, cinquecentotrenta anni dopo!”, suscitando un momento d’imbarazzo prontamente superato nella sovrana.

La Chola Poblete: Virgen del Carmen de Cuyo, 2023 Watercolor, acrylic, and ink colors on paper, 200 x 152 cm © La Chola Poblete

L’argentina, che dalla ricercatrice e curatrice, María Amalia García, sul sito e sul catalogo della Biennale, viene descritta così: “è un’artista transdisciplinare che opera con performance, videoarte, fotografia, pittura e oggetti: attraverso un sofisticato immaginario queer, recupera conoscenze ancestrali dai territori sudamericani(…)”, sembra non essersi però montata la testa. In un’intervista rilasciata in occasione dell’inaugurazione al Mudec ha detto: “È un periodo intenso. Ma guardami: io non sono cambiata per niente!” E poi forse è difficile credere a un cambiamento duraturo in un mondo ondivago come quello dell’arte contemporanea.

La Chola Poblete, che a Venezia è arrivata accompagnata dalla madre e dalla sorella al loro primo viaggio al di fuori del Paese, abita da anni a Buenos Aires dove da poco occupa uno studio in un’immobile prestigioso arredato con opere di alcuni dei più famosi artisti contemporanei come Leandro Erlich ed ha perfino un assistente. Ma non è sempre stato facile per lei: quando, fresca di laurea in Arti Visive a Mendoza, è arrivata nella capitale argentina, ha dovuto adattarsi a lavorare in un collettivo. Poi è arrivata qualche vendita e, pian-piano le cose hanno cominciato a marciare.

La Chola Poblete: Virgen de la Carrodilla, 2023 Watercolor, acrylic, and ink colors on paper, 200 x 152 cm © La Chola Poblete

Attualmente opera con vari medium che usa per parlare della propria identità. Si concentra sul suo essere queer e indigena ma non mancano simboli riferiti alla quotidianità pura e semplice (il condor ad esempio, perché volteggia sulle Ande) e alla banalità stereotipata di un immaginario globalizzato (i manga, etichette di prodotti di consumo ecc.). Ma anche alla storia (il barocco andino) e all’attualità dell’arte (“Comedian”, la banana che Maurizio Cattelan ha appeso a un muro, che compare in più di un’opera). Negli acquerelli, spesso eseguiti su larga scala, alla precisione calligrafica di alcuni elementi se ne contrappongono altri appena abbozzati, oltre a scritte e motivi decorativi, in un turbinio concitato e apparentemente spontaneo. Mentre il colore, vivo, a momenti accostato per toni contrapposti, tra eleganti chiaroscuri e colature drammatiche lotta per prendere il sopravvento sulla narrazione e sul bianco del supporto.

All’interno di questi pezzi ci sono i simboli prediletti da La Chola Poblete come: la madonna, le patate e il pane. In merito alla prima (che nelle sue opere appare idealizzata ma anche leggermente rivisitata, e sovrappone alla Vergine Maria la divinità latinoamericana della Pachamama) lei ha raccontato in un’altra intervista: “(…) Mio nonno è morto a 33 anni. Si raccontava che da ragazzo, in Bolivia, avesse trovato sepolta sotto terra la figura di una vergine. La prese e gli dissero che avrebbe dovuto adorarla: se trovi una piccola vergine devi adorarla sempre. Non l'ha fatto. Era uno stronzo, l'ha lanciata e si è rotta. Poi gli dissero che una maledizione lo avrebbe seguito. Ed è cresciuto con quell'idea. Morì fulminato, all’età di Cristo, e in punto di morte disse: ‘Questo è per la Vergine’. Quindi, sono cresciuta con rispetto per la Vergine a causa di questo mito familiare su quanto potente potesse essere questa figura (…)” Aggiungendo poi: “(…) Un giorno ho comprato un rotolo per realizzare grandi acquerelli. Stavo per compiere 33 anni e cominciavo ad avere paura di questo karma. Ho pensato che fosse ora di rompere con tutto ciò. Allora decisi di fare trentatré vergini, affinché mio nonno potesse riposarsi. È da lì che ho iniziato con la serie (…)”.

La Chola Poblete lavora alle opere di pane per la mostra al Mudec al panificio Davide Longoni di Milano

Le patate invece, che spesso usa sotto forma di snack prelevandole semplicemente dai sacchetti della multinazionale Lay’s, simboleggiano soprattutto la deprivazione del suolo latino-americano da parte dei colonizzatori (questi ultimi, ha spesso raccontato, le credevano frutti infernali perché crescevano sottoterra e volevano spingere gli indigeni a smettere di mangiarle).

Mentre il pane, con cui fa anche delle sculture (al Mudec ne sono esposte diverse realizzate per l’occasione), ricorda la fertilità della terra, l’originarietà e il nutrimento ma l’artista argentina lo ha anche paragonato all’acquerello: “Quando realizzo una maschera di pane o lavoro con l'acquerello fuso, entrambi seguono un percorso irreversibile. Da un lato, la pasta assume diverse sfumature di colore a seconda di quanto tempo rimane nel forno, cambiando forma, lievitando, crepando e bruciando. Allo stesso modo, l'acquerello distorce il disegno, si mescola con altre macchie e crea nuove forme. Ho la sensazione che questi materiali abbiano una qualità performativa, incarnando la mutevolezza e il flusso”. Senza contare che è un materiale deperibile.

Alcune opere de La Chola Poblete si possono ammirare alla Biennale di Venezia 2024 (fino al 24 novembre). Molte di più rimarranno invece al Mudec di Milano per tutta la durata della mostra a lei dedicata (fino al 20 ottobre soltanto). La personale “Guaymallénal” è a ingresso gratuito.

La Chola Poblete: Virgen de la leche, 2023 Photograph, 152 x 160 cm © La Chola Poblete

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

Biennale di Venezia| Con 7 milioni di perline Kapwani Kiwanga ha trasformato il Padiglione Canada

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Non è necessario tardare più di tanto per trovare la fila davanti a “Trinket” (cioè “Paccottiglia”) la mostra della franco- canadese Kapwani Kiwanga che quest’anno rappresenta il suo paese natale (il Canada) alla 60esima Esposizione Internazionale d’Arte. Di solito sono le video installazioni a rallentare il flusso di visitatori alla Biennale di Venezia ma il padiglione canadese è luminoso e silenziosissimo, di film nemmeno l’ombra. Se ci si avvicina abbastanza tuttavia, si può cogliere un lieve rumore, simile a un tintinnio che si perde immediatamente nel canto degli uccelli, tra le chiacchiere e i passi sulla ghiaia dei visitatori, nel movimento delle fronde degli alberi dei Giardini. Sono perline, migliaia e migliaia di perline di vetro, infilate a mano, una ad una, ed appese a comporre monumentali tendaggi sia all’interno che all’esterno del padiglione. Per questo possono entrare solo poche persone alla volta: per non fare danni. Certo però che è bello il Padiglione Canada, simile a una scultura e così diverso dal solito, rivestito com’è di colori intensi e cangianti allo stesso tempo, che tremolano nella luce intensa dell’estate. E che invece, quando osservati da certi punti di vista, scompaiono all’improvviso.

Kiwanga, nata ad Hamilton nel ’78 e cresciuta nella vicina Brantford (entrambe le città sono in Ontario) dove ha studiato antropologia e religione comparata, ha origini tanzaniane e adesso vive a Parigi (qui si è anche laureata in Storia dell’Arte). In seguito ha vinto numerosi premi tra cui il prestigioso Prix Marcel Duchamp (è un riconoscimento francese, che le ha fruttato 35mila euro per l’installazione “Flowers of Africa” al Centre Pompidou di Parigi). Con grazia e logica ineccepibile, parla spesso di questioni legate al colonialismo e in passato ha affermato di aver maturato la prospettiva sull’argomento nel suo periodo a Brantford (la città si trova nell'Haldimand Tract nei territori tradizionali dei popoli indigeni Anishinaabe e Haudenosaunee) in un mix di consapevolezza afro-canadese e di vicinanza alla gente delle Prime Nazioni. Ma sull’opera di Kiwanga ha influito soprattutto il punto di vista dell’antropologa oltre a una propensione del tutto personale per i particolari estetici minuscoli e per le storie trascurate.

Kapwani Kiwanga: Trinket” parla del confine spesso labile che separa il valore di un oggetto dal suo costo, di come cambi a seconda del luogo in cui si svolge la transazione, del periodo storico, delle mode e di una marea di altri micro-fattori. Ma soprattutto degli effetti imprevedibili che uno scambio apparentemente innocuo può avere sui popoli nel lungo periodo, del sistema di potere che può contribuire ad instaurare e di come il significato dell’oggetto possa cambiare radicalmente passando di mano in mano. Un progetto che mette in gioco le competenze scientifiche di Kiwanga (storia, antropologia, economia), in aggiunta alla sua abilità artistica.

Al centro dell’opera ci sono le perline di conteria o margheritine o più spesso, semplicemente, perline veneziane, che dalla Serenissima si diffusero in tutto il mondo tra il 1400 e la prima metà del ‘900. Le minuscole perle erano uno dei pochi prodotti derivati dalla lavorazione del vetro a non venire esclusivamente dall’isola di Murano (dove per decreto già dal 1291 si concentrava l’industria dell’epoca) ma dalla città di Venezia in generale, dove le piccole fornaci necessarie per la fusione non arrecavano danno. Di lì erano poi esportate nelle Americhe, nell’Africa occidentale e in India (nel 2005 in Alaska sono stati persino ritrovati i resti di un paio di orecchini di perline, risalenti a qualche decennio prima della scoperta dell’America).

Il valore di queste sfere lucenti cambiava drasticamente a seconda della provenienza degli attori (gli europei attribuivano loro scarsa considerazione, mentre, ad esempio, gli africani per cui nel tempo sono diventate irrinunciabili, avevano valore scaramantico) e, è inutile dire, che gli affari che si fecero in quel periodo furono tutt’altro che etici. All’inizio furono i veneziani ad arricchirsi, mentre tra l’800 e la prima metà dell’900 a vendere le perline alle colonie furono soprattutto compagnie straniere con uffici in laguna. In Africa, il loro impatto fu inimmaginabile: si creò una vera e propria interdipendenza verso chi le produceva e vendeva, tanto piacevano i colori vivaci del tutto assenti nei monili tradizionali da diventare parte della dote delle spose. Si indossavano poi nelle feste della comunità, nei matrimoni e nei funerali (in ogni occasione delle perline diverse) e le più ricercate (quelle multicolore, le rosetta) potevano essere portate solo dalle massime autorità. Con queste ultime si potevano comprare schiavi, attraversare territori proibiti e godere di molti altri benefici. Del resto nei paesi africani, fino a poche decine di anni fa, le perline avevano il valore di una moneta ufficiale.

Questa storia, suggerita dalla cangiante bellezza dei drappi di perline che modificano quasi radicalmente la struttura architettonica del poco esteso padiglione (il Canada è il più piccolo ai Giardini), Kiwanga ce la racconta completamente all’interno, dove altri tendaggi colorati e tintinnanti nascondono le pareti e incontrano sculture fatte coi materiali con cui le sferette di vetro venivano scambiate (oltre all’oro anche rame, pigmenti del legno brasiliano di Pernambuco e olio di palma ricercatissimo e usato per lubrificare i macchinari durante la rivoluzione industriale), che e, a loro volta, incorporano complessi motivi di perline realizzati da artigiani dello Zimbabwe e canadesi.

"A volte- ha detto in un’intervista- faccio riferimento alla storia e all'importanza socio-politica di un particolare materiale. E poi quello che cerco di fare è riassemblarlo o ricontestualizzarlo in modo che lo sperimentiamo in un modo diverso".

Kiwanga, che nella sua pratica affianca minimalismo e colore, qui tratta lo spazio architettonico come parte integrante dell’installazione: a pieno titolo scultura tra le sculture. Per rendere più morbido lo spazio e omogeneo il rapporto tra le sculture, i drappi e le pareti l’artista ha sostituito il pavimento del padiglione. La nuova pavimentazione per la maggior parte è in semplice resina bianca, interrotta da forme ondulate, colorate con la tinta bruno-rossastra del legno di Pernambuco, foglia d'oro e metallo scintillante che a momenti sale fin in cima alle pareti. La luce che filtra dalle ampie vetrate gioca con gli elementi che compongono l’opera, rendendola quasi un organismo vivente.

Tra le perline più ricercate c’erano quelle blu cobalto che formano il tendaggio esterno. L’opera si chiama “Impiraresse (Blu)” dal nome con cui venivano chiamate le donne che le infilavano, cui rende omaggio. Perché per quanto il commercio delle perline fosse esclusivamente maschile, alle donne veniva affidato questo alienante e poco redditizio compito.

Kiwanga ha preso parte anche alla Biennale di Venezia 2022, invitata da Cecilia Alemani a esporre a “Il Latte dei Sogni”. In quell’occasione ha creato un ambiente riscaldato dai colori del deserto al tramonto, circoscritto da grandi dipinti semitrasparenti, che al centro poneva sculture in vetro riempite di sabbia (per quanto quest’ultima sia un materiale organico è infatti utilizzata in Texas nel fracking, cioè nell’estrazione di petrolio e gas). Ha poi spesso scelto colori utilizzati per controllare lo stato d’animo e il movimento delle persone negli uffici, nei reparti psichiatrici e nelle prigioni (qui, ad esempio, si sceglieva un tono di rosa sperando di rendere più mansueti i detenuti).

La sua pratica- ha detto la curatrice della mostra, Gaëtane Verna- si basa sulla ricerca approfondita di ciò che a prima vista potrebbe sembrare un insieme di semplici questioni di narrative storiche, ma che vengono poi abilmente utilizzate per esaminare il modo in cui le nostre società sono state costruite tramite un’architettura sociale e culturale, l’imposizione di leggi, il commercio e altre forme di scambio. Per Kiwanga, i materiali sono le tracce di incontri umani che portano alla creazione di nuove opere”.

Kapwani Kiwanga: Trinket” il Padiglione Canada, con la National Gallery of Canada (NGC) come commissario e curato da Gaëtane Verna, si potrà visitare per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024 (fino al 24 novembre). Kapwani Kiwanga è la prima artista donna nera a rappresentare il paese alla manifestazione lagunare.

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Impiraresse (Blue), 2024 cobalt glass beads, nylon-coated metal wire, metal components dimensions variable Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer II (Metal, breath, beads) and Transfer IV (Metal, wood, breath, beads), 2024 bronze, blown glass, glass beads; bronze, palladium leaf, wood, blown glass, glass beads 160 × 120 × 32 cm; 164 × 100 × 70 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer III (Metal, wood, beads), 2024 wood, Pernambuco pigment, copper, glass beads 160 × 100 × 66 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer II (Metal, breath, beads), 2024 bronze, blown glass, glass beads 160 × 120 × 32 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Impiraresse (Blue), 2024 cobalt glass beads, nylon-coated metal wire, metal components dimensions variable Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Portrait of Kapwani Kiwanga, 2024  Photo: Angela Scamarcio