La Chola Poblete, un’artista indigena e queer sulla cresta dell’onda

La Chola Poblete, 2022 Foto: Agustina Lamborizio / © La Chola Poblete

Nata a Mendoza nella parte nord-occidentale dell’Argentina (a ridosso delle Ande) come Mauricio trentacinque anni fa e cresciuta in una famiglia indigena di pochi mezzi prevalentemente femminile, La Chola Poblete, è oggi un artista in vertiginosa ascesa. La partecipazione alla Biennale d’arte di Adriano Pedrosa “Stranieri Ovunque. Foreigners Everywhere dove ha ottenuto la menzione speciale della giuria, infatti, non è venuta da sola. E, dopo aver vinto il prestigioso premio “Artist of the Year” di Deutsche Bank, il suo colorato universo dolente, animato da madonne, dee, simboli pop, erotismo e crudo umorismo, adesso è al centro della mostra “Guaymallénal” (da un dipartimento nella provincia della sua città natale) al Mudec di Milano.

Se non bastasse, a giugno, si è confrontata con il mercato iper-competitivo della fiera più famosa in assoluto (Art-Basel). E poi i segnali premonitori c’erano già tutti, quando, durante Arco Madrid, la Regina di Spagna l’aveva voluta conoscere dopo essere stata colpita dai suoi acquerelli esposti nello stand della galleria che la rappresenta. Pare che La Chola Poblete, la cui opera è in gran parte una critica delle dinamiche post-coloniali, trovandosi di fronte Letizia abbia affermato: “Come stai? Eccoci qui, cinquecentotrenta anni dopo!”, suscitando un momento d’imbarazzo prontamente superato nella sovrana.

La Chola Poblete: Virgen del Carmen de Cuyo, 2023 Watercolor, acrylic, and ink colors on paper, 200 x 152 cm © La Chola Poblete

L’argentina, che dalla ricercatrice e curatrice, María Amalia García, sul sito e sul catalogo della Biennale, viene descritta così: “è un’artista transdisciplinare che opera con performance, videoarte, fotografia, pittura e oggetti: attraverso un sofisticato immaginario queer, recupera conoscenze ancestrali dai territori sudamericani(…)”, sembra non essersi però montata la testa. In un’intervista rilasciata in occasione dell’inaugurazione al Mudec ha detto: “È un periodo intenso. Ma guardami: io non sono cambiata per niente!” E poi forse è difficile credere a un cambiamento duraturo in un mondo ondivago come quello dell’arte contemporanea.

La Chola Poblete, che a Venezia è arrivata accompagnata dalla madre e dalla sorella al loro primo viaggio al di fuori del Paese, abita da anni a Buenos Aires dove da poco occupa uno studio in un’immobile prestigioso arredato con opere di alcuni dei più famosi artisti contemporanei come Leandro Erlich ed ha perfino un assistente. Ma non è sempre stato facile per lei: quando, fresca di laurea in Arti Visive a Mendoza, è arrivata nella capitale argentina, ha dovuto adattarsi a lavorare in un collettivo. Poi è arrivata qualche vendita e, pian-piano le cose hanno cominciato a marciare.

La Chola Poblete: Virgen de la Carrodilla, 2023 Watercolor, acrylic, and ink colors on paper, 200 x 152 cm © La Chola Poblete

Attualmente opera con vari medium che usa per parlare della propria identità. Si concentra sul suo essere queer e indigena ma non mancano simboli riferiti alla quotidianità pura e semplice (il condor ad esempio, perché volteggia sulle Ande) e alla banalità stereotipata di un immaginario globalizzato (i manga, etichette di prodotti di consumo ecc.). Ma anche alla storia (il barocco andino) e all’attualità dell’arte (“Comedian”, la banana che Maurizio Cattelan ha appeso a un muro, che compare in più di un’opera). Negli acquerelli, spesso eseguiti su larga scala, alla precisione calligrafica di alcuni elementi se ne contrappongono altri appena abbozzati, oltre a scritte e motivi decorativi, in un turbinio concitato e apparentemente spontaneo. Mentre il colore, vivo, a momenti accostato per toni contrapposti, tra eleganti chiaroscuri e colature drammatiche lotta per prendere il sopravvento sulla narrazione e sul bianco del supporto.

All’interno di questi pezzi ci sono i simboli prediletti da La Chola Poblete come: la madonna, le patate e il pane. In merito alla prima (che nelle sue opere appare idealizzata ma anche leggermente rivisitata, e sovrappone alla Vergine Maria la divinità latinoamericana della Pachamama) lei ha raccontato in un’altra intervista: “(…) Mio nonno è morto a 33 anni. Si raccontava che da ragazzo, in Bolivia, avesse trovato sepolta sotto terra la figura di una vergine. La prese e gli dissero che avrebbe dovuto adorarla: se trovi una piccola vergine devi adorarla sempre. Non l'ha fatto. Era uno stronzo, l'ha lanciata e si è rotta. Poi gli dissero che una maledizione lo avrebbe seguito. Ed è cresciuto con quell'idea. Morì fulminato, all’età di Cristo, e in punto di morte disse: ‘Questo è per la Vergine’. Quindi, sono cresciuta con rispetto per la Vergine a causa di questo mito familiare su quanto potente potesse essere questa figura (…)” Aggiungendo poi: “(…) Un giorno ho comprato un rotolo per realizzare grandi acquerelli. Stavo per compiere 33 anni e cominciavo ad avere paura di questo karma. Ho pensato che fosse ora di rompere con tutto ciò. Allora decisi di fare trentatré vergini, affinché mio nonno potesse riposarsi. È da lì che ho iniziato con la serie (…)”.

La Chola Poblete lavora alle opere di pane per la mostra al Mudec al panificio Davide Longoni di Milano

Le patate invece, che spesso usa sotto forma di snack prelevandole semplicemente dai sacchetti della multinazionale Lay’s, simboleggiano soprattutto la deprivazione del suolo latino-americano da parte dei colonizzatori (questi ultimi, ha spesso raccontato, le credevano frutti infernali perché crescevano sottoterra e volevano spingere gli indigeni a smettere di mangiarle).

Mentre il pane, con cui fa anche delle sculture (al Mudec ne sono esposte diverse realizzate per l’occasione), ricorda la fertilità della terra, l’originarietà e il nutrimento ma l’artista argentina lo ha anche paragonato all’acquerello: “Quando realizzo una maschera di pane o lavoro con l'acquerello fuso, entrambi seguono un percorso irreversibile. Da un lato, la pasta assume diverse sfumature di colore a seconda di quanto tempo rimane nel forno, cambiando forma, lievitando, crepando e bruciando. Allo stesso modo, l'acquerello distorce il disegno, si mescola con altre macchie e crea nuove forme. Ho la sensazione che questi materiali abbiano una qualità performativa, incarnando la mutevolezza e il flusso”. Senza contare che è un materiale deperibile.

Alcune opere de La Chola Poblete si possono ammirare alla Biennale di Venezia 2024 (fino al 24 novembre). Molte di più rimarranno invece al Mudec di Milano per tutta la durata della mostra a lei dedicata (fino al 20 ottobre soltanto). La personale “Guaymallénal” è a ingresso gratuito.

La Chola Poblete: Virgen de la leche, 2023 Photograph, 152 x 160 cm © La Chola Poblete

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

I paesaggi argentini intessuti da Alexandra Kehayoglou, come eco-memorie distillate in un tappeto

“Santa Cruz River” (2016-2017), detail, Textile tapestry (handtuft system), wool, 980 x 420 cm, Courtesy of The National Gallery of Victoria and the artist. All other images © Alexandra Kehayoglou

“Santa Cruz River” (2016-2017), detail, Textile tapestry (handtuft system), wool, 980 x 420 cm, Courtesy of The National Gallery of Victoria and the artist. All other images © Alexandra Kehayoglou

L’artista argentina Alexandra Kehayoglou fa tappeti e arazzi bellissimi che riproducono il paesaggio della sua terra visto dall’alto. Resa famosa, tra le altre cose, da collaborazioni con star dell’arte contemporanea (come Olafur Eliasson), del design (come Dries Van Noten) e con importanti brand della moda. Opera nel solco delle arti applicate in un punto di congiunzione tra arte (con la A maiuscola) e design. Tra aspetto e contenuto. Tra storia e presente.

Ieri e oggi convivono anche nel significato del lavoro, in cui la fotografia tessile del paesaggio delle praterie (soprattutto quelle vicine alla sua città natale: Buenos Aires), diventa testimonianza e specchio di mutamento involontario del paesaggio incontaminato. Sullo sfondo sempre i temi contestati dagli ecologisti (cambiamenti climatici, deforestazione, fabbriche ecc.).

Una posizione, quella dell’arte tessile di Kehayoglou, proficua nel breve periodo, insidiosa nel lungo. Qualcosa rischia sempre di farti naufragare verso il lezioso, il vuoto, il ripetitivo. A mantenere l’equilibrio ci pensa la partecipazione di lei, che costella ogni pezzo di ricordi personali. Il paesaggio che (di norma) ritrae, è quello che ha nella mente e nel cuore, come argentina e come persona, che l’ha percorso, osservato e condiviso con chi le era caro negli anni.

Prima, per dare corpo alle sue opere, usava addirittura i tessuti di scarto della fabbrica di tappeti che apparteneva al padre. In quella pratica, c’era tenerezza e orgoglioso senso d’identità. Poi le cose della vita sono cambiate ma non i tratti emotivi del lavoro dell’artista.

Sia i tappeti che gli arazzi di Alexandra Kehayoglou sono realizzati con una tecnica artiginale complessa in vari materiali. A volte.ideati come isole da comporre o semplicemente come tessuti da stendere su pavimento. Altre diventano grandi fino ad avvolgere un intero ambiente espositivo. In alcuni casi virano verso l’astrazione ma più spesso sono spietatamente iperrealisti.

Anche il calendario espositivo di Alexandra Kehaoglou è stato sconvolto dalla pandemia, che continua a tenere in ostaggio parte dei musei e delle gallerie del mondo, ma per vedere virtualmente (parola che purtroppo tutti abbiamo imparato ad odiare) altre opere d’arte tessile il suo sito internet e l’account instagram se non altro hanno il beneficio di essere aperti a ogni ora del giorno e della notte.

Kehayoglou-1-scaled.jpg
Kehayoglou-4-960x640@2x.jpg
“Santa Cruz River” detail (2016-2017), Textile tapestry (handtuft system), wool, 980 x 420 cm

“Santa Cruz River” detail (2016-2017), Textile tapestry (handtuft system), wool, 980 x 420 cm

“Hope the voyage is a long one” (2016), Textile tapestry (handtuft system), wool

“Hope the voyage is a long one” (2016), Textile tapestry (handtuft system), wool

alexandra-5.jpg
alexandra-4.jpg
Kehayoglou-5-scaled.jpg
Kehayoglou-6-scaled.jpg

La mongolfiera a energia solare di Tomás Saraceno batte sei record della World Air Sports Federation

All images © Tomás Saraceno

All images © Tomás Saraceno

La mongolfiera dell’artista di origini argentine Tomás Saraceno ha battuto ben sei record mondiali della Fédération Aéronautique Internationale - World Air Sports Federation (FAI) con un volo sopra le Salinas Grandes. Il pallone si è librato in cielo senza usare nient’altro che aria e sole.

Tomás Saraceno, che dopo la Biennale a fine settimana sarà protagonista dell’importante mostra Aria a Palazzo Strozzi di Firenze (dal 22 febbraio al 19 luglio 2020), con il progetto Fly with Aerocene Pacha ha messo a segno un punto importante verso l’obbiettivo di volare in modo ecosostenibile. La mongolfiera creata dallo Studio Tomás Saraceno (dove l’artista collabora con vari scienziati), infatti, si è alzata in volo a Salinas Grandes (Jujuy) in Argentina superando i record mondiali precedenti di altitudine, distanza e durata per uomini e donne della World Air Sports Federation. Il pallone Aerocene Pacha (il prototipo di un mezzo simile sarà al centro dell’installazione site-specific Thermodynamic Constellation) è diventato il primo al mondo a volare con a bordo un pilota . Alimentato soltanto dall’aria e dall’energia solare.

Decolleranno in un viaggio sempre sognato- scriveva l’artista in merito sul suo sito internet- volando liberi, sollevati solo dal sole e dall'aria, senza litio, pannelli solari, elio o combustibili fossili.”

Pilotato da Leticia Marques, Aerocene Pacha, servendosi del calore dell’aria accumulata all’interno del pallone, ha raggiunto un'altitudine di 272,1 metri e ha percorso 2,56 chilometri. Il volo più lungo è durato un'ora e 21 minuti. Per gonfiarlo il team di Saraceno ha usato un dispositivo a pedali.

La mongolfiera aerosolare è certificata ufficialmente come capace di sollevare un peso netto di oltre 250 kg e trasportare fino a due passeggeri.

Il progetto Fly with Aerocene Pacha, esposto come parte di Connect BTS (un'iniziativa artistica organizzata dalla South Korean boy band) è servito anche per protestare contro l’estrazione di litio nelle saline argentine. Infatti, sul pallone nero si leggeva chiaramente lo slogan "El agua y la vida valen más que el litio" (cioè "Acqua e vita valgono più del litio") e al lancio hanno partecipato anche le organizzazioni indigene. (via Hyperallergic)

saraceno-4.jpg
saraceno-3-960x640@2x.jpg
saraceno-6.jpg