A Firenze Drift fa sbocciare le sculture come fiori e poi danzare a ritmo hip hop

DRIFT, Shy Society, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio. Video The Factory Prd.

Il Selenicereus o Principessa della notte è un cactus dagli enormi fiori bianchi, con solo qualche accenno giallo crema qua e là, che si schiudono al tramonto e cominciano ad appassire all’alba del giorno successivo. Sono profumatissimi. In realtà i sette elementi che compongono l’installazione “Shy Society”, appena posizionata nel cortile di Palazzo Strozzi (Firenze) dal duo di designers Drift, non gli assomigliano affatto, con le loro corolle ricche di petali come quelle delle ortensie e più simili nella forma ai tulipani (olandesi come i loro creatori) o alle campanule. Ma chissà perché, quando le sculture si aprono a ritmo di musica, si ha l’impressione che si stia per sprigionare lo stesso profumo intenso ed esotico.

L’installazione “Shy Society” di Drift è composta appunto da sette sculture sospese nel punto più alto del cortile rinascimentale, che ricalcano una loro lampada di quasi dieci anni fa (Shylight, 2015; è simile a un fiore di tessuto e metallo), ma che adesso oltre a illuminarsi, aprirsi e chiudersi, si muovono in sincronia e danzano a ritmo di un brano sinfonico del compositore contemporaneo statunitense RZA (Robert Fitzgerald Diggs, che è anche rapper, produttore discografico, attore e regista).

Da ferma, l’installazione si regge sulla ricercatezza stilizzata delle forme contrapposta alla semplicità dei colori e dei materiali (tessuto e metallo) ma a rendere l’opera straordinaria è il movimento: le sculture sembrano davvero sbocciare, come in un video timelapse che ci renda percepibile l’aprirsi delle corolle di fronte ai nostri occhi. Alla base di questo mimetismo c’è un software progettato per imitare i movimenti imprevedibili e naturali dei fiori. La luce rende teatrale e drammatico il tutto

Fondato dagli artisti olandesi Lonneke Gordijn e Ralph Nauta una ventina di anni fa, Studio Drift, è orami un brand famoso a livello globale che al suo interno riunisce un team interdisciplinare composto da sessantacinque persone.Sono talmente conosciuti e ben introdotti che nel 2025, negli enormi edifici di archeologia industriale che formano il Van Gendthallen di Amsterdam, si aprirà un museo dedicato solo a loro. Appassionata di botanica lei, fan della fantascienza lui, non stupisce che a regalare il successo al loro marchio sia stato il modo in cui coniuga riferimenti alla natura e alla tecnologia. Oltre all’equilibrio tra semplicità e sofisticatezza, soggetti un po’ old style e freschezza contemporanea. Un altro pallino della loro ricerca è trovare il modo di far sentire il pubblico al centro delle opere. Tra queste, una famosissima, presentata in più contesti (come ad esempio, Art Basel 2017 o Noor Riyadh 2023) sempre simile ma con delle differenze da una volta all’altra, è quella in cui fanno volare centinaia di droni luminosi che si muovono nel cielo esattamente come stormi d’uccelli durante la migrazione.

Naturalezza, metamorfosi e varietà sono anche il cuore di “Shy Society”.

Gli elementi che formano l’opera si aprono e chiudono e, da determinati punti di vista sembrano fiori, mentre da altri o mentre si calano e risalgono, assomigliano a dei veri e propri ballerini. Come se il cortile rinascimentale diventasse magicamente il palcoscenico di uno spettacolo animato in cui i visitatori sono chiamati ad immergersi. Inoltre l’installazione è fatta per essere vista e rivista, per la lunghezza cangiante della coreografia ma anche per come lo show appare diverso a seconda delle condizioni meteo, dell’ora e soprattutto se guardato durante la notte o il giorno. Cambia anche in base al punto d’osservazione (soprattutto se si è nel cortile o al piano nobile dell’edificio rinascimentale.

Palazzo Strozzi, durante le importanti mostre che organizza, ha l’abitudine di offrire alla città e ai turisti una grande opera pubblica di cui tutti possono fruire semplicemente entrando nel cortile del museo. “Shy Society” di Studio Drift con musica di RZA, è tra queste. Resterà incorniciata dalle colonne dell’antico loggiato fino al 26 gennaio 2025, quando si concluderà anche “Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole”, la prima retrospettiva italiana centrata sulla bravissima espressionista astratta statunitense.

DRIFT, Shy Society, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio. Video The Factory Prd.

DRIFT, Shy Society, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio. Video The Factory Prd.

DRIFT, Shy Society, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio. Video The Factory Prd.

DRIFT, Shy Society, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio. Video The Factory Prd.

Snow Pallet 17 an urban-style: Toshihiko Shibuya fa costruire alla neve un monumento alla mutevole bellezza della natura nel cuore di Sapporo

Toshihiko Shibuya, Snow Pallet 17 an urban-style. All images courtesy Toshihiko Shibuya  © Toshihiko Shibuya

La diciasettesima versione della serie scultorea “Snow Pallet” di Toshihiko Shibuya è stata più breve del solito. I consueti elementi, a forma di tavolino, ombrellino o fungo stilizzato (in sintesi: cerchi e linee perpendicolari gli uni alle altre), dipinti in colori fluorescenti, vivacissimi e briosi, sono rimasti posizionati all’ingresso del campus Maruyama dell'Università di Hokusho meno di un mese: dal 27 dicembre al 5 gennaio. Eppure la neve, anche questa volta, ha saputo trasformarli giorno dopo giorno in maniera sostanziale.

Anche- ha detto Toshihiko Shibuya- se la durata dell'esposizione è stata più breve del solito, si sono potuti vedere ammucchiati (sui supporti ndr) non solo berretti di cotone ma anche cappelli da neve”.

Siamo a Sapporo, capitale della montuosa isola di Hokkaido, nell’estremo nord del Giappone (da Capo Sōya, nella parte più a nord dell’isola, la Russia dista solo 43 chilometri), dove la neve cade copiosa ogni anno (anche se ultimamente meno di prima). Il susseguirsi delle stagioni, lì non ha chiaroscuri, e le persone associano i loro ricordi al mutare del paesaggio più che altrove; anche e soprattutto durante l’inverno con la sua spessa coltre bianca, capace di trasformare ogni scorcio. Ed è qui che Toshihiko Shibuya concepisce un’installazione ricorrente che ripete ogni anno. Più o meno uguale a se stessa, sempre nello stesso periodo, da ben 17 anni ormai.

© Toshihiko Shibuya

Certo cambia il numero degli elementi che Shibuya posiziona, la loro collocazione, l’altezza, le dimensioni e la giustapposizione dei colori, ma alla base di “Snow Pallet” ci sono sempre uno o più gruppi di piedistalli, pensati per sorreggere la neve, mettendone in luce la mutevolezza, la grana e le forme cangianti. In maniera che quest’ultima (vista come parte che riflette il tutto) sia di fatto la scultura. O meglio le sculture. Proprio come un busto capace di cambiare fisionomia da solo a seconda dell’anno, del giorno, dell’ora, del meteo, e di casualità varie (magari il passaggio di un animaletto o la mano di un umano). Un vero e proprio monumento alla bellezza multiforme della natura ed alla transitorietà.

Shibuya, da parte sua, osserva e documenta pazientemente ogni travestimento della materia (persino la sua momentanea assenza). Anche se la neve in mostra sui pedistalli è la metafora di un paesaggio che si estende ben oltre di essa e che andrebbe ammirato dal vivo. Sembra anzi che uno degli scopi del lavoro sia strappare ad una rappresentazione la pienezza della realtà, posizionando l’umanità non più al centro del quadro ma come parte del tutto. Attrice tra gli attori di un armonioso fluire.

© Toshihiko Shibuya

L’elemento rituale dell’opera di Toshihiko Shibuya, infatti, richiama la stagionalità stessa ed evoca anche ancestrali pratiche propiziatorie. Ma è soprattutto un modo per sottolineare la fragilità della natura e preservare la memoria.

Ho iniziato il progetto Snow pallet nel 2011- dice l’artista- Le nevicate sono diminuite di anno in anno. Negli ultimi tempi qui a Hokkaido abbiamo nevicate irregolari, che variano da vere e proprie tormente all’ assenza di neve in un breve ciclo. Penso che il fenomeno sia legato al cambiamento climatico. Le questioni ambientali sono urgenti per tutti gli esseri umani (…) Il progetto Snow Palette consiste nel registrare e memorizzare le nevicate di ogni inverno attraverso l'arte, ma potrebbe esserci una stagione nel prossimo futuro in cui il progetto non sia realizzabile a causa della totale mancanza di neve. Naturalmente non lo desidero. Spero che questo progetto tesserà insieme i bellissimi ricordi di ogni inverno”.

L’artista ha poi l’abitudine di colorare parte dei supporti bianchi con toni fluorescenti che sembrano penetrare nella neve, per generare nell’osservatore un senso di stupore e meraviglia. Immaginando l’effetto finale, si concentra sulla parte superiore o su quella inferiore dei piani, che riflettono, verso l’alto o verso il basso, colori vividi e gioiosi che sembrano rubati all’industria alimentare facendo riferimento all’infanzia e alla giovinezza. Ma anche ai numerosi impieghi della luce nell’arte contemporanea, all’immateriale e al transitorio, senza dimenticare il tema degli inganni percettivi. E ovviamente, quello della bellezza sempre uguale e sempre diversa della natura che si rinnova.

Man mano che la temperatura aumenta- spiega l’artista- la neve accumulata diventa simile a un sorbetto e si può vedere il colore fluorescente trasmesso dalla luce riflessa sulla parte superiore del tavolo macchiarsi come lo sciroppo su un ghiaccio tritato. Inoltre, i cappelli (masse) di neve che si sciolgono creano formazioni naturali uniche”.

© Toshihiko Shibuya

Snow Pallet 17” (a differenza di gran parte delle passate versioni) è stata concepita per lo spazio urbano (non a caso si chiama: “Snow Pallet 17 an urban-style”) a cui si sposa con grazia. Composta da un totale di 18 piedistalli (16 alti e 2, grandi, bassi) per accogliere la neve, concentrati intorno a due panchine all’esterno dell’università.

Interessante dal punto di vista del design, la scelta di coprire le panchine di cemento, in quel momento inutilizzate, proteggendole, e sviluppando l’installazione intorno e sopra di esse. Le linee che si ripetono nella struttura protettiva sono omogenee ai supporti, agli elementi architettonici vicini e si mimetizzano nell’ambiente cittadino ma soprattutto sono anonime quel tanto che basta per mettere in evidenza i volumi curvilinei e inaspettati costruiti dalla neve.

Questa volta abbiamo tentato di realizzare un'installazione in stile urbano nel centro della città come recinzione protettiva per le sedie in marmo. Il terreno della sede era riscaldato dalla strada, quindi non c'era neve. Anche se la durata dell'esposizione è stata più breve del solito, si sono potuti vedere ammucchiati non solo berretti di cotone ma anche berretti da neve”.

Il gioco di riflessi dei colori sulla neve che si scioglie durante una giornata di sole, pronti ad espandersi in toni inaspettati sulla base protettiva bagnata, mentre i ventri del campus rispecchiano gli alberi circostanti, mostrano quanto la bellezza, a volte, nella propria umiltà, possa nascondersi sotto il nostro naso. E, mentre i rigori dell’inverno sono ancora tutti da superare, anticipano il risveglio primaverile della vita.

© Toshihiko Shibuya

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© Toshihiko Shibuya

© Toshihiko Shibuya

L'allegra malinconia dei mosaici di galloni gialli di Serge Attukwei Clottey sospesi sulla laguna di Venezia per la Biennale d'Architettura

Serge Attukwei Clottey, Time and Chance 18. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Inserito nella sezione "Dangerous liaisons" della Biennale d'Architettura di Venezia 2023, l'artista di Accra Serge Attukwei Clottey, ha presentato uno dei suoi mosaici di taniche di plastica gialla (i galloni Kufuor). L’opera si intitola "Time and Chance" ed è stata sospesa alle Gaggiandre (Arsenale), direttamente sull’acqua della laguna. consentendole di riflettersi nelle onde. La scultura allude ai problemi di approviggionamento idrico dei popoli africani ma anche alla circolarità della Storia ed alla coesione delle comunità ghanesi.

Viste da lontano le opere di Serge Attukwei Clottey sembrano sontuose, ricordano ad un tempo i mosaici bizantini, gli strascichi di antiche regine o gli abiti di arcani cavalieri. Possono dare persino l’impressione di incorporare pagine scritte in uno stratificarsi di segni ricco di storia. Ma si tratta di un’illusione. Serge Attukwei Clottey, infatti, ultilizza soltanto vecchie taniche di plastica gialla, tagliate, forate e legate insieme con fili di rame e altri elementi di recupero. Anche se questo non impedisce, comunque, al materiale di raccontare vicende umane e narrare la sua ormai pluridecennale storia.

Chiamati galloni Kufuor (dal nome di un ex-presidente ghanese, sotto il cui mandato il paese africano conobbe una severa crisi idrica), o più semplicemente galloni (di qui, Attukwei Clottey. ha ricavato il nome di “Afrogallonism” per descrivere la sua pratica artistica), questi contenitori, di litri ne raccolgono ben 10 e sono diffusissimi nel Ghana ma anche in altre parti dell’Africa. Usati originariamente per trasportare olio, sono giunti lì da Occidente. La gente da allora li usa per recuperarare acqua qua e là, quando i rubinetti smettono di funzionare (pare che accada spessissiamo), e poi li abbandona in giro, certa che di lì a pochi giorni ritorneranno nuovamente utili. Ma a volte, tanti e talmente malmessi sono, finiscono nei fiumi e poi negli oceani, contribuendo all’inquinamento.

Serge Attukwei Clottey, sulla loro storia, ha costruito una serie di sculture, dalle dimensoni monumentali e dai risvolti epici. Non sempre, certo, ma nel tempo ne ha create di grandissime, le ha appese ad un’alta formazione rocciosa nel deserto dell’Arabia Saudita, gli ha dato forme architettoniche nella valle di Coachella in California, oltre ad averle usate per lastricare le strade di un’ampia zona di Accra. Spesso ha pagato per i galloni, coinvolgendo intere comunità nella sua opera, mettendone in luce la resilienza ma anche l’allegra malinconia. Le dinamiche che regolano la società africana, infatti, sono uno degli argomenti al centro della sua pratica.

Non più, naturalmente, dei problemi nell’approvvigionamento idrico, dell’ecologia, del rapporto tra Africa e Occidente e dell’urbanistica di città come Accra.

Curata dall’architetto ghanese-scozzese, Lesley Lokko, la 18esima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, ha un focus particolare sull’Africa.  Con 89 partecipanti (di cui oltre la metà provenienti dall’Africa o dalla diaspora africana), "The Laboratory of the Future", si divide in sei parti. Una delle quali è appunto "Dangerous liaisons", in cui sono raccolti i progetti speciali della curatrice.

Serge Attukwei Clottey, con il suo stile semplice ma dall’estetica ricercata, capace di parlare allo stesso tempo di una serie di argomenti importanti per definire l’Africa contemporanea, in questo capitolo della Biennale stà benissimo. E oltre alla grande installazione a pelo d’acqua delle Gaggiandre, ha anche collocato uno dei suoi mosaici all’interno dell’Arsenale. Le opere si potranno visitare per tutta la durata della Biennale d’Architettura (fino a domenica 26 novembre 2023).

Serge Attukwei Clottey, Time and Chance 18. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Serge Attukwei Clottey, Time and Chance 18. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Serge Attukwei Clottey, Time and Chance 18. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Serge Attukwei Clottey, Time and Chance 18. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia