La notevole pittura di Tesfaye Urgessa a Palazzo Bollani illumina la prima volta dell’Etiopia alla Biennale

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Raggiungere Palazzo Bollani richiede un piccolo sforzo in più ai visitatori della 60esima edizione della Biennale Internazionale d’Arte. Non è molto lontano né dall’Arsenale (dove si estende una parte della mostra “Stranieri ovunque- Foreigners everywhere” curata da Adriano Pedrosa) né da Piazza San Marco ma le cose da vedere a Venezia sono sempre talmente tante che si mette in conto di perdere qualcosa. Tuttavia depennare dalla visita proprio il Padiglione Etiopia alla sua prima in laguna e soprattutto l’artista Tesfaye Urgessa che lo rappresenta, sarebbe un grave errore. Perché il Signor Urgessa è un pittore talentuoso e raffinato che ha saputo fondere la tradizione rappresentativa etiope (imprevedibilmente, legata a filo stretto al Realismo Socialista russo) con le avanguardie storiche europee e poi con il neo-espressionismo tedesco, con Francis Bacon e Lucian Freud (ma non solo), shakerare ogni cosa e creare uno stile tutto suo. Onirico e a tratti umoristico. Mentre la ricca cornice cinquecentesca dell’edificio, con soffitti alti e grandi finestre affacciate direttamente sull’acqua dei canali, mette in luce la sua abilità.

D’altra parte si vede che Urgessa dipinge e disegna come respira (tra l’altro passando agevolmente da pittura a olio, acquerello, pastelli ecc.): su un’opera in mostra c’è un’ombra dipinta, che a chi guarda sembra indistinguibile da un’ombra reale, salvo rendersi poi conto dell’assenza di qualcuno o qualcosa che potrebbe proiettarla.

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Il progetto presentato in Biennale si intitola "Prejudice and Belonging" (Pregiudizio e Appartenenza) ed è curato dallo scrittore e conduttore radiofonico britannico Lemn Sissay, che il Signor Urgessa ha scelto personalmente (è stato lui stesso, infatti, a convincere il governo etiope a partecipare alla manifestazione italiana e per questo si è pure potuto regalare il lusso di scegliere il curatore). Sviluppata attraverso un nutrito numero di dipinti di grandi dimensioni e qualche opera più piccola, la mostra, è una riflessione dell’artista su cosa significhi appartenere a qualcosa (per esempio: quanto tempo ci vuole? Quali le caratteristiche distintive? Quando si smette di esserne parte? ecc.) e sul concetto di pregiudizio. Per rendere questi pensieri, Urgessa utilizza simboli (i libri per lui sono il pregiudizio, gli schermi il controllo e così via), parti del corpo disancorate (gambe, mani), spesso schierate in massa ad evocare dinamismo, vitalità, trasformazione, cambiamento, rituali di una qualche quotidianità e volti. Soprattutto volti, che scrutano lo spettatore mentre li osserva incapace di capire il loro messaggio.

In un’intervista ha detto: “Il mio obiettivo era quello di creare un gruppo di figure impegnate in attività sconosciute, lasciando intenzionalmente la situazione ambigua per lo spettatore. (…) Creando un'atmosfera in cui il pubblico si sente sotto esame, spero di stimolare l'introspezione e la riflessione sulla natura della percezione e del giudizio. La mia intenzione è quella di incoraggiare gli spettatori a confrontarsi con i propri pregiudizi e preconcetti mentre interagiscono con la mia opera d'arte”.

Nonostante l’argomento, le sue composizioni esprimono spesso umorismo e leggerezza. A proposito dei personaggi, lui ha spiegato: "Spesso le persone credono che io dipinga vittime nelle mie tele, ma non è così. La società ha una forte tendenza a ridurre l'essere umano in categorie. Io sto facendo l'opposto. Cerco di ritrarre persone nella loro totalità con le loro sicurezze, le loro lotte, le loro cicatrici, tutte le loro sfide e tensioni. Le mie figure non sono né bianche né nere. Sono fragili e sicure di sé. Rappresentano tutti. Mostrano esseri umani fatti di cose in comune tra loro".

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Nato nell’83 ad Adis Abeba, Tesfaye Urgessa, considera le sue composizioni come fossero un’ordinata cantina o dei surreali collages senza colla ne ritagli. Così, inserisce all’interno dei dipinti immagini diverse (a un primo sguardo verosimili ma mai realistiche), che gli vengono in mente in momenti diversi e sono il risultato di domande e sentimenti non sempre omogenei. Tanto che lavora su più opere contemporaneamente e tiene in studio ognuna per almeno un anno (alla fine sceglie se conservarle o rifarle daccapo). Dopo essersi laureato in arte e design all’Università di Adis Abeba (i suoi insegnati erano artisti etiopi che, com’era consuetudine fino agli anni ’80, erano stati mandati in Russia per imparare le tecniche del Realismo Socialista), si è specializzato all’Accademia Statale di Stoccarda in Germania (dove ha continuato a vivere fino a poco tempo fa). Questo gli ha permesso di conoscere da vicino i maestri dell’arte europea sia del passato remoto (ha detto, ad esempio, che l’equilibrio tra luce e ombre nelle sue opere fa spesso riferimento a Caravaggio), che del modernismo, oltre ai grandi nomi della pittura contemporanea. Nonostante ciò, un particolare che ha contribuito a forgiare il suo stile almeno quanto il confronto con questi giganti, viene dalla sua vita privata. Ha infatti sposato l’artista tedesca Nina Raber-Urgessa (anche lei usa la pittura e fa figurazione) specializzata in arteterapia (i due hanno tre figli e dal 2022 abitano in Etiopia). E le surreali composizioni del Signor Urgessa che metteno in scena una teatralità stralunata hanno molto a che fare con l’elaborazione di elementi onirici.

La tavolozza è terrosa e variegata nelle sfumature ma pronta a illuminarsi di colori sgargianti (e a tratti persino stilosi) quando meno ce lo si aspetti. Spesso è scura ma per qualche strana alchimia mai cupa, drammatica o tragica.

"Prejudice and Belonging" di Tesfaye Urgessa, il primo padiglione Etiopia della Biennale d’Arte di Venezia, rimarrà a Palazzo Bollani fino alla fine, ormai prossima, della manifestazione (resta meno di un mese per visitarla: fino al 24 novembre 2024)

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Biennale di Venezia| Con 7 milioni di perline Kapwani Kiwanga ha trasformato il Padiglione Canada

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Non è necessario tardare più di tanto per trovare la fila davanti a “Trinket” (cioè “Paccottiglia”) la mostra della franco- canadese Kapwani Kiwanga che quest’anno rappresenta il suo paese natale (il Canada) alla 60esima Esposizione Internazionale d’Arte. Di solito sono le video installazioni a rallentare il flusso di visitatori alla Biennale di Venezia ma il padiglione canadese è luminoso e silenziosissimo, di film nemmeno l’ombra. Se ci si avvicina abbastanza tuttavia, si può cogliere un lieve rumore, simile a un tintinnio che si perde immediatamente nel canto degli uccelli, tra le chiacchiere e i passi sulla ghiaia dei visitatori, nel movimento delle fronde degli alberi dei Giardini. Sono perline, migliaia e migliaia di perline di vetro, infilate a mano, una ad una, ed appese a comporre monumentali tendaggi sia all’interno che all’esterno del padiglione. Per questo possono entrare solo poche persone alla volta: per non fare danni. Certo però che è bello il Padiglione Canada, simile a una scultura e così diverso dal solito, rivestito com’è di colori intensi e cangianti allo stesso tempo, che tremolano nella luce intensa dell’estate. E che invece, quando osservati da certi punti di vista, scompaiono all’improvviso.

Kiwanga, nata ad Hamilton nel ’78 e cresciuta nella vicina Brantford (entrambe le città sono in Ontario) dove ha studiato antropologia e religione comparata, ha origini tanzaniane e adesso vive a Parigi (qui si è anche laureata in Storia dell’Arte). In seguito ha vinto numerosi premi tra cui il prestigioso Prix Marcel Duchamp (è un riconoscimento francese, che le ha fruttato 35mila euro per l’installazione “Flowers of Africa” al Centre Pompidou di Parigi). Con grazia e logica ineccepibile, parla spesso di questioni legate al colonialismo e in passato ha affermato di aver maturato la prospettiva sull’argomento nel suo periodo a Brantford (la città si trova nell'Haldimand Tract nei territori tradizionali dei popoli indigeni Anishinaabe e Haudenosaunee) in un mix di consapevolezza afro-canadese e di vicinanza alla gente delle Prime Nazioni. Ma sull’opera di Kiwanga ha influito soprattutto il punto di vista dell’antropologa oltre a una propensione del tutto personale per i particolari estetici minuscoli e per le storie trascurate.

Kapwani Kiwanga: Trinket” parla del confine spesso labile che separa il valore di un oggetto dal suo costo, di come cambi a seconda del luogo in cui si svolge la transazione, del periodo storico, delle mode e di una marea di altri micro-fattori. Ma soprattutto degli effetti imprevedibili che uno scambio apparentemente innocuo può avere sui popoli nel lungo periodo, del sistema di potere che può contribuire ad instaurare e di come il significato dell’oggetto possa cambiare radicalmente passando di mano in mano. Un progetto che mette in gioco le competenze scientifiche di Kiwanga (storia, antropologia, economia), in aggiunta alla sua abilità artistica.

Al centro dell’opera ci sono le perline di conteria o margheritine o più spesso, semplicemente, perline veneziane, che dalla Serenissima si diffusero in tutto il mondo tra il 1400 e la prima metà del ‘900. Le minuscole perle erano uno dei pochi prodotti derivati dalla lavorazione del vetro a non venire esclusivamente dall’isola di Murano (dove per decreto già dal 1291 si concentrava l’industria dell’epoca) ma dalla città di Venezia in generale, dove le piccole fornaci necessarie per la fusione non arrecavano danno. Di lì erano poi esportate nelle Americhe, nell’Africa occidentale e in India (nel 2005 in Alaska sono stati persino ritrovati i resti di un paio di orecchini di perline, risalenti a qualche decennio prima della scoperta dell’America).

Il valore di queste sfere lucenti cambiava drasticamente a seconda della provenienza degli attori (gli europei attribuivano loro scarsa considerazione, mentre, ad esempio, gli africani per cui nel tempo sono diventate irrinunciabili, avevano valore scaramantico) e, è inutile dire, che gli affari che si fecero in quel periodo furono tutt’altro che etici. All’inizio furono i veneziani ad arricchirsi, mentre tra l’800 e la prima metà dell’900 a vendere le perline alle colonie furono soprattutto compagnie straniere con uffici in laguna. In Africa, il loro impatto fu inimmaginabile: si creò una vera e propria interdipendenza verso chi le produceva e vendeva, tanto piacevano i colori vivaci del tutto assenti nei monili tradizionali da diventare parte della dote delle spose. Si indossavano poi nelle feste della comunità, nei matrimoni e nei funerali (in ogni occasione delle perline diverse) e le più ricercate (quelle multicolore, le rosetta) potevano essere portate solo dalle massime autorità. Con queste ultime si potevano comprare schiavi, attraversare territori proibiti e godere di molti altri benefici. Del resto nei paesi africani, fino a poche decine di anni fa, le perline avevano il valore di una moneta ufficiale.

Questa storia, suggerita dalla cangiante bellezza dei drappi di perline che modificano quasi radicalmente la struttura architettonica del poco esteso padiglione (il Canada è il più piccolo ai Giardini), Kiwanga ce la racconta completamente all’interno, dove altri tendaggi colorati e tintinnanti nascondono le pareti e incontrano sculture fatte coi materiali con cui le sferette di vetro venivano scambiate (oltre all’oro anche rame, pigmenti del legno brasiliano di Pernambuco e olio di palma ricercatissimo e usato per lubrificare i macchinari durante la rivoluzione industriale), che e, a loro volta, incorporano complessi motivi di perline realizzati da artigiani dello Zimbabwe e canadesi.

"A volte- ha detto in un’intervista- faccio riferimento alla storia e all'importanza socio-politica di un particolare materiale. E poi quello che cerco di fare è riassemblarlo o ricontestualizzarlo in modo che lo sperimentiamo in un modo diverso".

Kiwanga, che nella sua pratica affianca minimalismo e colore, qui tratta lo spazio architettonico come parte integrante dell’installazione: a pieno titolo scultura tra le sculture. Per rendere più morbido lo spazio e omogeneo il rapporto tra le sculture, i drappi e le pareti l’artista ha sostituito il pavimento del padiglione. La nuova pavimentazione per la maggior parte è in semplice resina bianca, interrotta da forme ondulate, colorate con la tinta bruno-rossastra del legno di Pernambuco, foglia d'oro e metallo scintillante che a momenti sale fin in cima alle pareti. La luce che filtra dalle ampie vetrate gioca con gli elementi che compongono l’opera, rendendola quasi un organismo vivente.

Tra le perline più ricercate c’erano quelle blu cobalto che formano il tendaggio esterno. L’opera si chiama “Impiraresse (Blu)” dal nome con cui venivano chiamate le donne che le infilavano, cui rende omaggio. Perché per quanto il commercio delle perline fosse esclusivamente maschile, alle donne veniva affidato questo alienante e poco redditizio compito.

Kiwanga ha preso parte anche alla Biennale di Venezia 2022, invitata da Cecilia Alemani a esporre a “Il Latte dei Sogni”. In quell’occasione ha creato un ambiente riscaldato dai colori del deserto al tramonto, circoscritto da grandi dipinti semitrasparenti, che al centro poneva sculture in vetro riempite di sabbia (per quanto quest’ultima sia un materiale organico è infatti utilizzata in Texas nel fracking, cioè nell’estrazione di petrolio e gas). Ha poi spesso scelto colori utilizzati per controllare lo stato d’animo e il movimento delle persone negli uffici, nei reparti psichiatrici e nelle prigioni (qui, ad esempio, si sceglieva un tono di rosa sperando di rendere più mansueti i detenuti).

La sua pratica- ha detto la curatrice della mostra, Gaëtane Verna- si basa sulla ricerca approfondita di ciò che a prima vista potrebbe sembrare un insieme di semplici questioni di narrative storiche, ma che vengono poi abilmente utilizzate per esaminare il modo in cui le nostre società sono state costruite tramite un’architettura sociale e culturale, l’imposizione di leggi, il commercio e altre forme di scambio. Per Kiwanga, i materiali sono le tracce di incontri umani che portano alla creazione di nuove opere”.

Kapwani Kiwanga: Trinket” il Padiglione Canada, con la National Gallery of Canada (NGC) come commissario e curato da Gaëtane Verna, si potrà visitare per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024 (fino al 24 novembre). Kapwani Kiwanga è la prima artista donna nera a rappresentare il paese alla manifestazione lagunare.

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Impiraresse (Blue), 2024 cobalt glass beads, nylon-coated metal wire, metal components dimensions variable Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer II (Metal, breath, beads) and Transfer IV (Metal, wood, breath, beads), 2024 bronze, blown glass, glass beads; bronze, palladium leaf, wood, blown glass, glass beads 160 × 120 × 32 cm; 164 × 100 × 70 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer III (Metal, wood, beads), 2024 wood, Pernambuco pigment, copper, glass beads 160 × 100 × 66 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer II (Metal, breath, beads), 2024 bronze, blown glass, glass beads 160 × 120 × 32 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Impiraresse (Blue), 2024 cobalt glass beads, nylon-coated metal wire, metal components dimensions variable Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Portrait of Kapwani Kiwanga, 2024  Photo: Angela Scamarcio

I clan di sculture in spazzatura di Leilah Babirye in Biennale e allo Yorkshire Sculpture Park

Leilah Babirye, Obumu Unity, Iinstallation view at Yorkshire Sculpture Park 2024. Courtesy the artist andStephen Friedman Gallery.Photo: Jonty Wilde Courtesy YSP

L’artista di origine ugandese Leilah Babirye crea sculture con ceramica, legno, oggetti trovati, come ruote di biciclette, copertoni e tutto ciò che si può scovare tra i rifiuti a Brooklyn. Babirye, infatti, costretta a fuggire dal suo paese perché lesbica dichiarata, vive a New York, dove ha cominciato a scolpire meno di sei anni fa (prima dipingeva e disegnava soltanto). Adesso il suo lavoro è focalizzato sulle opere tridimensionali, ha due studi nella Grande Mela (uno a Brooklyn, e l’altro nel Queens), è tra gli artisti chiamati da Adriano Pedrosa a partecipare a “Stranieri Ovunque- Foreigners Everyere, (la Biennale di Venezia 2024) e da marzo è in mostra nella Cappella dello Yorkshire Sculpture Park (famoso parco scultoreo e sede espositiva inglese, nei pressi della cittadina di Wakefield, a circa due ore di treno da Londra).

Rigorosa nei ritmi di lavoro e abitudinaria, Babirye, ha una pratica basata sul contatto diretto con i materiali di cui si appropria e sceglie di utilizzare. Preferendo spesso strumenti che presuppongono forza e velocità nello scolpire, come la sega elettrica o la fiamma ossidrica con cui annerisce le sue opere, dopo essersi fatta guidare dal legno stesso (ne segue le venature, si ispira alla sagoma del tronco) per definirne la forma. Sia questo aspetto che l’uso di oggetti trovati fanno del caso e dell’occasionalità elementi poco appariscenti ma vitali nella scultura dell’artista ugandese-statunitense.

Lei ha spiegato così il proprio impegno: “Il mio lavoro consiste fondamentalmente nell'utilizzare la spazzatura, nel dargli nuova vita e renderla bella. È sempre influenzato da dove sono, userò tutto ciò che c'è. Ecco perché il lavoro sembra sempre diverso, perché non sono sicura di cosa troverò. Il legno con cui lavoro qui è un legno tenero, mentre a New York di solito è il pino, che è un legno più duro. Ciò conferisce alle sculture un aspetto diverso e contribuisce alle loro diverse personalità.”

Babirye, che crea anche opere in ceramica poi rivestite di smalti colorati e luminosi, attraverso le sue sculture parla della cultura del suo paese natale, di questioni coloniali ma soprattutto della comunità queer di cui fa parte e di come i diritti dei gay in Africa vegano calpestati. Babirye, infatti, nel 2018 è stata pubblicamente accusata di preferire intrattenere rapporti intimi con persone del suo stesso sesso da un giornale ugandese, ha avuto problemi all’università dove stava frequentando un master ma soprattutto la sua famiglia l’ha ripudiata. E tutto sommato avrebbe potuto andarle anche molto peggio visto che in Uganda l’omosessualità è illegale e può essere punita con la pena di morte.

Nella sua opera gli scarti (usati sia per comporre che abbellire il lavoro) sono, infatti, un riferimento al termine ‘abasiyazi’, cioè la parte della canna da zucchero da buttare, che in lingua luganda si usa per indicare una persona gay. L’artista è stata profondamente ispirata da Henry Moore e utilizza le maschere africane, che non sono tipiche della sua patria ma di un’altra parte del continente, per citare l’amore che scultori e pittore dell’Occidente di quegli anni nutrivano per questa forma espressiva africana. I titoli (a volte in qualche misura autobiografici) portano, invece, i nomi di clan ugandesi (cioè famiglie allargate di cui fanno parte i membri di una stessa comunità) a loro volta rubati ad animali e piante locali. Naturalmente nel suo linguaggio questi elementi hanno anche ulteriori significati: le maschere diventano un mezzo per esprimere le diversità delle persone queer, mentre i titoli fanno riferimento ai clan da cui le persone gay sono state cacciate.

Nata nel 1985 a Kampala dove ha frequentato la Makerere University, Leilah Babirye, ha ottenuto asilo negli Stati Uniti nel 2018, dopo aver preso parte lì ad una residenza a Fire Island. Nella Cappella dello Yorkshire Sculpture Park presenta un clan composto da sette sculture lignee più cinque in ceramica smaltata, realizzate la scorsa estate direttamente nel parco scultoreo inglese dove l’artista ha soggiornato. Il legno utilizzato proveniva da alberi morti (tra loro anche un faggio settecentesco piantato più o meno nello stesso periodo in cui venne costruita la Cappella).

La scultura senza compromessi di Leilah- ha detto la direttrice dello Yorkshire Sculpture Park, Clare Lilley- è sempre efficace. Il fatto che queste sculture siano state create presso YSP, con Leilah che sfrutta al meglio ciò che questo posto ha da offrire, è davvero speciale. Per quasi 300 anni, la nostra Cappella è stata un luogo di comunità e contemplazione, e siamo privilegiati che Leilah ne abbia fatto una casa per il suo clan di opere d'arte avvincenti. "

La mostra di Leilah Babirye allo Yorkshire Sculpture Park si intitola “Obumu (Unity)” dove continuerà fino all’8 settembre 2024, ma l’artista ugandese-statunitense quest’anno fa anche parte di Stranieri Ovunque- Foreigners Everyere”, la Biennale di Venezia di Adriano Pedrosa, dove espone alcune sculture nel giardino alle spalle del Padiglione Italia (all’Arsenale).

Leilah Babirye, Gyagenda 2023.Itallation view at Yorkshire Sculpture Park 2024. Courtesy the artist andStephen Friedman Gallery.Photo: Jonty Wilde Courtesy YSP

Leilah Babirye, Nakambugu from the Kuchu Njovu Elephant Clan 2023. .Itallation view at Yorkshire Sculpture Park 2024. Courtesy the artist andStephen Friedman Gallery.Photo: Jonty Wilde Courtesy YSP

Leilah Babirye Gunsinze  aliwa Bitono 2023. © Leilah Babirye.Courtesy the artist Stephen Friedman Gallery-London and New York and Gordon Robichaux New York. Photo© Mark Blower

Leilah Babirye Gunsinze  aliwa Bitono 2023. © Leilah Babirye.Courtesy the artist Stephen Friedman Gallery-London and New York and Gordon Robichaux New York. Photo© Mark Blower

Leilah Babirye Gunsinze  aliwa Bitono 2023 detail. © Leilah Babirye.Courtesy the artist Stephen Friedman Gallery-London and New York and Gordon Robichaux New York. Photo© Mark Blower

Leilah Babirye Gunsinze  aliwa Bitono 2023 detail. © Leilah Babirye.Courtesy the artist Stephen Friedman Gallery-London and New York and Gordon Robichaux New York. Photo© Mark Blower

Portrait of Leilah Babirye Obumu Unity 2024. Courtesy the artist and Stephen Friedman Gallery. Photo: Jonty Wilde Courtesy Yorkshire Sculpture Park