L’astrattismo drammaticamente contemporaneo di Julie Mehretu. A Palazzo Grassi ancora fino all’Epifania

Julie Mehretu, Among the Multitude XIII, 2021-2022, Private Collection Installation view, “Julie Mehretu. Ensemble”, 2024, Palazzo Grassi, Venezia. Ph. Marco Cappelletti © Palazzo Grassi, Pinault Collection

Julie Mehretu è una pittrice astratta. Un’espressionista astratta. Si tratta di un’astrazione politicamente consapevole anche se emotivamente carica, densa di riferimenti ad artisti suoi contemporanei ed alla Storia dell’arte (che, tuttavia, si disintegrano nelle trame stratificate e complesse delle sue opere), ma sempre astrazione resta. Un linguaggio, quello disancorato dalla rappresentazione del reale, che, quando la signora Mehretu era agli esordi della sua carriera (tra gli anni’90 e i primi 2000), veniva considerato morto e sepolto, oltre ad essere liquidato con male parole (decorativo e noioso sono i termini più gentili usati dagli intellettuali dell’epoca). “E poi arriva un artista- ha scritto Jonathan Jones recensendo la signora Mehretu- che capovolge ogni cliché critico e dimostra che gli esperti non sanno nulla di dove sta andando l'arte”. Parole quelle del giornalista britannico testimoniate dai premi (tra i vari riconoscimenti nel 2015 ha ricevuto la medaglia delle arti del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti), dalle mostre e dalle quotazioni da lei raggiunte in asta (lo scorso anno ha venduto un dipinto per oltre 10 milioni e mezzo di dollari: un record per tutti gli artisti nati in Africa).

Dalla primavera scorsa Julie Mehretu è protagonista della retrospettiva “Ensemble” a Palazzo Grassi di Venezia. Si tratta della più grande mostra mai dedicata all’artista in Europa ed è composta da una selezione di oltre cinquanta dipinti e stampe realizzate da Julie Mehretu negli ultimi venticinque anni insieme a opere più recenti, prodotte tra il 2021 e il 2023. Curata da Caroline Bourgeois (conservatrice capo della collezione dell’imprenditore francese François Pinault, cui fanno capo sia il prestigioso museo che si affaccia sul Canal Grande che quello di Punta della Dogana), l’esposizione si estende sui due piani dell’edificio settecentesco e riunisce 17 opere della Pinault Collection oltre a prestiti provenienti dalla collezione dell'artista, da musei internazionali e da collezioni private.

Julie Mehretu, TRANSpaintings (hand), 2023, Courtesy of the artist and White Cube. Installation view, “Julie Mehretu. Ensemble”, 2024, Palazzo Grassi, Venezia. Ph. Marco Cappelletti © Palazzo Grassi, Pinault Collection

Ensemble” si chiama così, perché la signora Mehretu ha voluto che alla mostra partecipassero anche un gruppo di artisti con cui per un motivo o per l’altro ha condiviso molto (conversazioni, lavoro, vita in generale) da molto tempo. Così, i suoi dipinti, che costituiscono il filo conduttore della retrospettiva, si intrecciano di volta in volta con sculture, musica, film e altro. Gli autori sono, chi più chi meno, famosi, ed hanno quasi tutti in comune il fatto di essere nati al di fuori del paese in cui abitano. “Ma ero più interessata- ha detto l’artista- a qualcosa che è sempre stato il problema con gli artisti: non si può mai veramente assistere a una mostra di Duchamp senza vedere una fotografia di Man Ray, perché il loro lavoro è stato realizzato dialogando l’un con l’altro”.

Si va dall’ottantenne afroamericano David Hammons, alla cara amica di Mehretu, Tacita Dean, al suo ex collaboratore nella residenza per artisti Denniston Hill (nei Monti Catskill di New York), Jason Moran (pianista e compositore), alla sua ex compagna, l’astrattista australiana Jessica Rankin (con cui Mehretu ha due figli).

La maggior parte di noi in questo Ensemble- ha detto- appartiene alla generazione cresciuta durante il primo momento postcoloniale, e abbiamo affrontato le molte violenze che ne sono derivate: Nairy [Baghramian] viene dall’Iran, io dall’Etiopia, Huma [Bhabha] dal Pakistan. Sono luoghi in cui la rivoluzione e le promesse sono state completamente sfruttate e trasformate in dittature militari o religiose repressive”.

(Foreground - Left to right) Nairy Baghramian, S’accrochant (crépuscule), 2022; Se levant (mauve), 2022; S’accrochant (ventre de biche), 2022, Courtesy of the artist and kurimanzutto, Mexico City, New York; (Background- Left to right) Julie Mehretu, They departed for their own country another day, 2023, Courtesy YAGEO Foundation Collection, Taiwan; Nairy Baghramian, S’asseyant, 2022, Courtesy of the artist and kurimanzutto, Mexico City, New York; Julie Mehretu, Ghosthymn (after the Raft), 2019-2021, Private Collection. Installation view, “Julie Mehretu. Ensemble”, 2024, Palazzo Grassi, Venezia. Ph. Marco Cappelletti © Palazzo Grassi, Pinault Collection

François Pinault, che è presidente di Palazzo Grassi (oltre ad essere, tra l’altro, proprietario della casa d’aste Christie’s) ha commentato, durante la presentazione della retrospettiva: “Ciò che mi affascina nella sua opera, da quando l’ho scoperta nei primi anni duemila, è la sensibilità con cui l’artista riesce a ritrascrivere il caos di un mondo in costante rivolgimento, grazie all’incrociarsi di influenze architettoniche, politiche, sociali e culturali. In un certo senso il suo lavoro riflette la sua storia personale (…)

Nata ad Adis Abeba (Etiopia) nel 1970 da un’insegnante montessori ebreo americana e da un professore universitario di geografia etiope, Julie Mehretu si è trasferita nel Michigan (Stati Uniti) con la famiglia quando aveva solo sette anni. Si è laureata in arte al Kalamazoo College di Kalamazoo (nel Michigan); durante quel periodo ha anche trascorso un anno di studi all’università di Dakar in Senegal (la Cheikh Anta Diop University). Ha poi conseguito un master in belle arti (alla Rhode Island School of Design di Providence) in Rhode Island (è un piccolo stato nella regione del New England) e frequentato una residenza per artisti al museo di Houston (Texas).

Julie Mehretu, Invisible Line (collective), 2010-2011, Pinault Collection. Installation view, “Julie Mehretu. Ensemble”, 2024, Palazzo Grassi, Venezia. Ph. Marco Cappelletti © Palazzo Grassi, Pinault Collection

All’inizio della sua carriera la signora Mehretu sovrapponeva mappe, carte metereologiche, disegni tecnici di edifici e quant’altro, intervenendo poi sui tracciati, resi a tratti irriconoscibili, con segni e forme piatte. Le opere erano già grandi, solitamente sviluppate a patire dal centro della composizione attraverso un asse e permettevano di distinguere elementi figurali solo avvicinandosi. Era un lavoro semplice se vogliamo ma innovativo al tempo stesso, e conteneva in sé i germi di tutto quello che sarebbe venuto dopo.

Con il tempo ha sovrapposto disegni di luoghi distanti che la globalizzazione legava in modi inaspettati, come New York, il Cairo, Pechino o Adis Abeba, con nugoli di linee a mano libera in inchiostro sumi nero; fondendo la sua tecnica fatta di strati di vernice trasparente raschiati, immagini e calligrafia orientale. A questo punto l’ordine era rotto, il centro perduto: “(…) gli innumerevoli segni acquosi- ha scritto il critico Jason Farago in una recensione- si coagularono in sciami, che sembrano soffiare da un angolo all'altro del dipinto. I segni erano corpi in piazza Tahrir, o mercati finanziari sequestrati. Erano uccisioni di corvi; erano nuvole di gas lacrimogeni”.

Da una decina d’anni a questa parte le composizioni di Julie Mehretu si sono fatte ancora più mature, trovando una sintesi magistralmente sicura tra studiato e viscerale, sintesi e complessità. In genere parte da una fotografia o dal frame di un video di cronaca reso talmente sfumato da diventare irriconoscibile; ormai del tutto astratto eppure in potenza già disturbante. Una volta ha detto: “Lavoro con immagini che mi perseguitano, mi tormentano nel profondo”.

Julie Mehretu, Desire was our breastplate, 2022-2023, Pinault Collection. Installation view, “Julie Mehretu. Ensemble”, 2024, Palazzo Grassi, Venezia. Ph. Marco Cappelletti © Palazzo Grassi, Pinault Collection

D’altra parte la signora Mehretu non si limita mai ad una sola immagine. Lei sovrappone: vernici, colori, elementi gestuali, tessiture ricercate ecc. Idee. Con in testa il doppio binario degli esordi (l’opera vista da vicino o da lontano dev’essere diversa). Della sua tecnica la professoressa all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, Patricia Falguières, ha scritto nel catalogo di “Ensemble”: “Per quanto riguarda i dipinti, ogni strato di segni è rivestito da una miscela di acrilico e silicato che, asciugandosi, si solidifica come una superficie liscia e trasparente pronta per un nuovo strato di segni (. Così, una topografia dopo l’altra, un carattere dopo l’altro viene sepolto, sprofondato nella stratigrafia come i fossili nella sedimentazione geologica. Mehretu ha reinventato nella sua pratica il complicato gioco di quelli che un tempo erano detti ‘fondi’ della pittura (…)”.

La mostra “Ensemble” di Julie Mehretu (con Nairy Baghramian, Huma Bhabha, Tacita Dean, David Hammons, Robin Coste Lewis, Paul Pfeiffer e Jessica Rankin) a Palazzo Grassi di Venezia, si avvia alla chiusura prevista per il 6 gennaio 2025. Ma si potrà visitare durante tutte le feste.

Julie Mehretu, Among the Multitude XIII, 2021-2022, Private Collection. Installation view, “Julie Mehretu. Ensemble”, 2024, Palazzo Grassi, Venezia. Ph. Marco Cappelletti © Palazzo Grassi, Pinault Collection

Julie Mehretu, (from left to right), Sun Ship (J.C.), 2018, Pinault Collection, Loop (B. Lozano, Bolsonaro eve), 2019-2020, Pinault Collection. Installation view, “Julie Mehretu. Ensemble”, 2024, Palazzo Grassi, Venezia. Ph. Marco Cappelletti © Palazzo Grassi, Pinault Collection

Julie Mehretu, Your hands are like two shovels, digging in me (sphinx), 2021-2022, Courtesy of the artist and White Cube. Installation view, “Julie Mehretu. Ensemble”, 2024, Palazzo Grassi, Venezia. Ph. Marco Cappelletti © Palazzo Grassi, Pinault Collection

Julie Mehretu, Maahes (Mihos) torch, 2018-2019, Pinault Collection Installation view, “Julie Mehretu. Ensemble”, 2024, Palazzo Grassi, Venezia. Ph. Marco Cappelletti © Palazzo Grassi, Pinault Collection

(Left to right) Nairy Baghramian, S’allongeant, 2022; S’accrochant (ventre de biche), 2022, Courtesy of the artist and kurimanzutto, Mexico City, New York. Installation view, “Julie Mehretu. Ensemble”, 2024, Palazzo Grassi, Venezia. Ph. Marco Cappelletti © Palazzo Grassi, Pinault Collection

Julie Mehretu in un ritratto scattatole per NYT da Josefina Santos

Koyo Kouoh curerà l’Esposizione Internazionale d’Arte 2026. Sarà la prima curatrice nera della Biennale di Venezia

Koyo Kouoh, curatrice della Biennale di Venezia 2026. Ritratto di: Mirjam Kluka

Koyo Kouoh, sarà la prossima curatrice della Biennale di Venezia. Nominata ieri nel corso di una riunione del Consiglio d’Amministrazione su proposta del presidente Pietrangelo Buttafuoco, la signora Kouoh, nata in Camerun 56 anni fa, sarà la prima donna di colore a prendere il timone dell’Esposizione Internazionale d’Arte. Attualmente direttrice dello Zeitz Museum of Contemporary Art Africa di Città del Capo, ha affermato che la sua però non sarà una “Biennale africana”.

Sarà una Biennale internazionale, come sempre!” ha detto.

La nomina di Kouoh (che tutti gli osservatori hanno apprezzato) arriva immediatamente dopo la conclusione della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte, “Stranieri Ovunque-Foreigners everywere, del curatore argentino, Adriano Pedrosa. Una Biennale che ha raggiunto i 700mila biglietti staccati, per una media di 3mila e 300 visitatori al giorno ed è quindi andata molto bene (anche se meno di quella del 2022, Il latte dei sogni” di Cecilia Alemani che arrivò ad 800mila), esponendo artisti internazionali e indigeni, rintracciati, questi ultimi, in territori spesso difficilmente raggiungibili, un po' ovunque in giro per il mondo (anche se prevalentemente nell’America del sud). Una Biennale che ha messo apertamente in discussione i canoni occidentalocentrici su cui è stata costruita la storia dell’arte e che si somma a quella femminista che l’ha preceduta. Insomma, una mostra non solo formalmente di rottura.

Infatti, Pedrosa alla conclusione dell’evento ha così commentato: “(…) In un certo senso il viaggio continua. Adesso sono curioso di vedere che futuro avrà Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere, soprattutto per la comprensione, l’accoglienza e la visibilità degli artisti del Sud del mondo, così come degli artisti indigeni, queer, autodidatti e delle figure del XX secolo provenienti da Africa, Asia e America Latina”.

Qualcuno (soprattutto all’estero, a dire il vero) si aspettava che quella del signor Pedrosa sarebbe stata l’ultima Biennale di questo filone, anche per l’avvenuto passaggio di consegne da Roberto Ciccuto al giornalista e scrittore Pietrangelo Buttafuoco alla presidenza del Cda lagunare. La nomina della signora Kouoh dice chiaramente che si sbagliavano (per questo un importante quotidiano britannico, non particolarmente in linea con le posizioni di centro-destra ha, ad esempio, speso parole ammirate verso il signor Buttafuoco, definito: “conservatore più idiosincratico e libero pensatore, con una propensione per il mistico”).

Anche Koyo Kouoh, ha un profilo professionale molto particolare, che si può forse arrivare a definire unico. Dopo i primi anni dell’infanzia vissuti in Africa, infatti, si è trasferita a Zurigo, in Svizzera, dove ha studiato economia aziendale e bancaria (la gestione curatoriale invece l’ha approfondita in Francia) ed ha cominciato la sua carriera come banchiere. “Sono presto passata allo spazio curatoriale- ha spiegato in una recente intervista- prima scrivendo recensioni sugli artisti e imparando dalla vicinanza agli artisti, e leggendo letteralmente tutti i programmi di storia dell'arte a cui potevo accedere all'epoca, nei primi anni Novanta in Svizzera. Andando avanti velocemente, questo mi ha portata a tornare in Africa e a stabilirmi a Dakar, in Senegal, dove alla fine ho fondato la RAW Material Company, un centro per l'arte, la conoscenza e la società”. Ha poi contribuito a plasmare due edizioni di Documenta (altra importantissima manifestazione d’arte contemporanea, che si tiene a Kassel, in Germania, ogni quattro anni) e diverse mostre di respiro internazionale. Ha ricevuto il prestigioso premio svizzero per le arti, Grand Prix Meret Oppenheim, e dal 2019 dirige lo Zeitz Museum of Contemporary Art Africa (Zeitz MOCAA). Quest’incarico in particolare ha dimostrato l’energia e l’efficienza oltre che la bravura di Kouoh. Il museo sud africano, infatti, si trovava privo di fondi e di prospettive quando è stata nominata capo curatore (tra l’altro a seguito di una denuncia per molestie sessuali, con relativo scandalo, del precedente direttore), ma lei, in soli cinque anni, è riuscita a capovolgere la situazione. Innanzitutto facendosi donare l’importante collezione di arte africana dal presidente di Harley-Davidson, il tedesco Jochen Zeitz (che l’ha messa insieme, e che fino a prima di Kouoh l’aveva solo prestata al museo). Poi trovando donatori.

Nel museo sudafricano lei ha organizzato mostre importanti come “When We See Us: A Century of Black Figuration in Painting” e retrospettive come quella dedicata alla performer e fotografa Tracey Rose, poi passata al Queens Museum di New York.

Koyo Kouoh, che attualmente vive tra il Sud Africa e la svizzera, parla fluentemente francese, tedesco, inglese e italiano. Riguardo alla sua nomina come curatore della 61esima Biennale di Venezia ha detto: “L'Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia è da oltre un secolo il centro di gravità dell'arte. Artisti, professionisti dell'arte e dei musei, collezionisti, galleristi, filantropi e un pubblico in continua crescita si riuniscono in questo luogo mitico ogni due anni per cogliere il battito dello Zeitgeist”.

Di nuovo Koyo Kouoh. In un ritratto di ©Mehdi Benkler, BAK

Koyo Kouoh, curatrice della Biennale di Venezia 2026. Ritratto di: Mirjam Kluka

La notevole pittura di Tesfaye Urgessa a Palazzo Bollani illumina la prima volta dell’Etiopia alla Biennale

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Raggiungere Palazzo Bollani richiede un piccolo sforzo in più ai visitatori della 60esima edizione della Biennale Internazionale d’Arte. Non è molto lontano né dall’Arsenale (dove si estende una parte della mostra “Stranieri ovunque- Foreigners everywhere” curata da Adriano Pedrosa) né da Piazza San Marco ma le cose da vedere a Venezia sono sempre talmente tante che si mette in conto di perdere qualcosa. Tuttavia depennare dalla visita proprio il Padiglione Etiopia alla sua prima in laguna e soprattutto l’artista Tesfaye Urgessa che lo rappresenta, sarebbe un grave errore. Perché il Signor Urgessa è un pittore talentuoso e raffinato che ha saputo fondere la tradizione rappresentativa etiope (imprevedibilmente, legata a filo stretto al Realismo Socialista russo) con le avanguardie storiche europee e poi con il neo-espressionismo tedesco, con Francis Bacon e Lucian Freud (ma non solo), shakerare ogni cosa e creare uno stile tutto suo. Onirico e a tratti umoristico. Mentre la ricca cornice cinquecentesca dell’edificio, con soffitti alti e grandi finestre affacciate direttamente sull’acqua dei canali, mette in luce la sua abilità.

D’altra parte si vede che Urgessa dipinge e disegna come respira (tra l’altro passando agevolmente da pittura a olio, acquerello, pastelli ecc.): su un’opera in mostra c’è un’ombra dipinta, che a chi guarda sembra indistinguibile da un’ombra reale, salvo rendersi poi conto dell’assenza di qualcuno o qualcosa che potrebbe proiettarla.

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Il progetto presentato in Biennale si intitola "Prejudice and Belonging" (Pregiudizio e Appartenenza) ed è curato dallo scrittore e conduttore radiofonico britannico Lemn Sissay, che il Signor Urgessa ha scelto personalmente (è stato lui stesso, infatti, a convincere il governo etiope a partecipare alla manifestazione italiana e per questo si è pure potuto regalare il lusso di scegliere il curatore). Sviluppata attraverso un nutrito numero di dipinti di grandi dimensioni e qualche opera più piccola, la mostra, è una riflessione dell’artista su cosa significhi appartenere a qualcosa (per esempio: quanto tempo ci vuole? Quali le caratteristiche distintive? Quando si smette di esserne parte? ecc.) e sul concetto di pregiudizio. Per rendere questi pensieri, Urgessa utilizza simboli (i libri per lui sono il pregiudizio, gli schermi il controllo e così via), parti del corpo disancorate (gambe, mani), spesso schierate in massa ad evocare dinamismo, vitalità, trasformazione, cambiamento, rituali di una qualche quotidianità e volti. Soprattutto volti, che scrutano lo spettatore mentre li osserva incapace di capire il loro messaggio.

In un’intervista ha detto: “Il mio obiettivo era quello di creare un gruppo di figure impegnate in attività sconosciute, lasciando intenzionalmente la situazione ambigua per lo spettatore. (…) Creando un'atmosfera in cui il pubblico si sente sotto esame, spero di stimolare l'introspezione e la riflessione sulla natura della percezione e del giudizio. La mia intenzione è quella di incoraggiare gli spettatori a confrontarsi con i propri pregiudizi e preconcetti mentre interagiscono con la mia opera d'arte”.

Nonostante l’argomento, le sue composizioni esprimono spesso umorismo e leggerezza. A proposito dei personaggi, lui ha spiegato: "Spesso le persone credono che io dipinga vittime nelle mie tele, ma non è così. La società ha una forte tendenza a ridurre l'essere umano in categorie. Io sto facendo l'opposto. Cerco di ritrarre persone nella loro totalità con le loro sicurezze, le loro lotte, le loro cicatrici, tutte le loro sfide e tensioni. Le mie figure non sono né bianche né nere. Sono fragili e sicure di sé. Rappresentano tutti. Mostrano esseri umani fatti di cose in comune tra loro".

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Nato nell’83 ad Adis Abeba, Tesfaye Urgessa, considera le sue composizioni come fossero un’ordinata cantina o dei surreali collages senza colla ne ritagli. Così, inserisce all’interno dei dipinti immagini diverse (a un primo sguardo verosimili ma mai realistiche), che gli vengono in mente in momenti diversi e sono il risultato di domande e sentimenti non sempre omogenei. Tanto che lavora su più opere contemporaneamente e tiene in studio ognuna per almeno un anno (alla fine sceglie se conservarle o rifarle daccapo). Dopo essersi laureato in arte e design all’Università di Adis Abeba (i suoi insegnati erano artisti etiopi che, com’era consuetudine fino agli anni ’80, erano stati mandati in Russia per imparare le tecniche del Realismo Socialista), si è specializzato all’Accademia Statale di Stoccarda in Germania (dove ha continuato a vivere fino a poco tempo fa). Questo gli ha permesso di conoscere da vicino i maestri dell’arte europea sia del passato remoto (ha detto, ad esempio, che l’equilibrio tra luce e ombre nelle sue opere fa spesso riferimento a Caravaggio), che del modernismo, oltre ai grandi nomi della pittura contemporanea. Nonostante ciò, un particolare che ha contribuito a forgiare il suo stile almeno quanto il confronto con questi giganti, viene dalla sua vita privata. Ha infatti sposato l’artista tedesca Nina Raber-Urgessa (anche lei usa la pittura e fa figurazione) specializzata in arteterapia (i due hanno tre figli e dal 2022 abitano in Etiopia). E le surreali composizioni del Signor Urgessa che metteno in scena una teatralità stralunata hanno molto a che fare con l’elaborazione di elementi onirici.

La tavolozza è terrosa e variegata nelle sfumature ma pronta a illuminarsi di colori sgargianti (e a tratti persino stilosi) quando meno ce lo si aspetti. Spesso è scura ma per qualche strana alchimia mai cupa, drammatica o tragica.

"Prejudice and Belonging" di Tesfaye Urgessa, il primo padiglione Etiopia della Biennale d’Arte di Venezia, rimarrà a Palazzo Bollani fino alla fine, ormai prossima, della manifestazione (resta meno di un mese per visitarla: fino al 24 novembre 2024)

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia