La notevole pittura di Tesfaye Urgessa a Palazzo Bollani illumina la prima volta dell’Etiopia alla Biennale

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Raggiungere Palazzo Bollani richiede un piccolo sforzo in più ai visitatori della 60esima edizione della Biennale Internazionale d’Arte. Non è molto lontano né dall’Arsenale (dove si estende una parte della mostra “Stranieri ovunque- Foreigners everywhere” curata da Adriano Pedrosa) né da Piazza San Marco ma le cose da vedere a Venezia sono sempre talmente tante che si mette in conto di perdere qualcosa. Tuttavia depennare dalla visita proprio il Padiglione Etiopia alla sua prima in laguna e soprattutto l’artista Tesfaye Urgessa che lo rappresenta, sarebbe un grave errore. Perché il Signor Urgessa è un pittore talentuoso e raffinato che ha saputo fondere la tradizione rappresentativa etiope (imprevedibilmente, legata a filo stretto al Realismo Socialista russo) con le avanguardie storiche europee e poi con il neo-espressionismo tedesco, con Francis Bacon e Lucian Freud (ma non solo), shakerare ogni cosa e creare uno stile tutto suo. Onirico e a tratti umoristico. Mentre la ricca cornice cinquecentesca dell’edificio, con soffitti alti e grandi finestre affacciate direttamente sull’acqua dei canali, mette in luce la sua abilità.

D’altra parte si vede che Urgessa dipinge e disegna come respira (tra l’altro passando agevolmente da pittura a olio, acquerello, pastelli ecc.): su un’opera in mostra c’è un’ombra dipinta, che a chi guarda sembra indistinguibile da un’ombra reale, salvo rendersi poi conto dell’assenza di qualcuno o qualcosa che potrebbe proiettarla.

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Il progetto presentato in Biennale si intitola "Prejudice and Belonging" (Pregiudizio e Appartenenza) ed è curato dallo scrittore e conduttore radiofonico britannico Lemn Sissay, che il Signor Urgessa ha scelto personalmente (è stato lui stesso, infatti, a convincere il governo etiope a partecipare alla manifestazione italiana e per questo si è pure potuto regalare il lusso di scegliere il curatore). Sviluppata attraverso un nutrito numero di dipinti di grandi dimensioni e qualche opera più piccola, la mostra, è una riflessione dell’artista su cosa significhi appartenere a qualcosa (per esempio: quanto tempo ci vuole? Quali le caratteristiche distintive? Quando si smette di esserne parte? ecc.) e sul concetto di pregiudizio. Per rendere questi pensieri, Urgessa utilizza simboli (i libri per lui sono il pregiudizio, gli schermi il controllo e così via), parti del corpo disancorate (gambe, mani), spesso schierate in massa ad evocare dinamismo, vitalità, trasformazione, cambiamento, rituali di una qualche quotidianità e volti. Soprattutto volti, che scrutano lo spettatore mentre li osserva incapace di capire il loro messaggio.

In un’intervista ha detto: “Il mio obiettivo era quello di creare un gruppo di figure impegnate in attività sconosciute, lasciando intenzionalmente la situazione ambigua per lo spettatore. (…) Creando un'atmosfera in cui il pubblico si sente sotto esame, spero di stimolare l'introspezione e la riflessione sulla natura della percezione e del giudizio. La mia intenzione è quella di incoraggiare gli spettatori a confrontarsi con i propri pregiudizi e preconcetti mentre interagiscono con la mia opera d'arte”.

Nonostante l’argomento, le sue composizioni esprimono spesso umorismo e leggerezza. A proposito dei personaggi, lui ha spiegato: "Spesso le persone credono che io dipinga vittime nelle mie tele, ma non è così. La società ha una forte tendenza a ridurre l'essere umano in categorie. Io sto facendo l'opposto. Cerco di ritrarre persone nella loro totalità con le loro sicurezze, le loro lotte, le loro cicatrici, tutte le loro sfide e tensioni. Le mie figure non sono né bianche né nere. Sono fragili e sicure di sé. Rappresentano tutti. Mostrano esseri umani fatti di cose in comune tra loro".

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Nato nell’83 ad Adis Abeba, Tesfaye Urgessa, considera le sue composizioni come fossero un’ordinata cantina o dei surreali collages senza colla ne ritagli. Così, inserisce all’interno dei dipinti immagini diverse (a un primo sguardo verosimili ma mai realistiche), che gli vengono in mente in momenti diversi e sono il risultato di domande e sentimenti non sempre omogenei. Tanto che lavora su più opere contemporaneamente e tiene in studio ognuna per almeno un anno (alla fine sceglie se conservarle o rifarle daccapo). Dopo essersi laureato in arte e design all’Università di Adis Abeba (i suoi insegnati erano artisti etiopi che, com’era consuetudine fino agli anni ’80, erano stati mandati in Russia per imparare le tecniche del Realismo Socialista), si è specializzato all’Accademia Statale di Stoccarda in Germania (dove ha continuato a vivere fino a poco tempo fa). Questo gli ha permesso di conoscere da vicino i maestri dell’arte europea sia del passato remoto (ha detto, ad esempio, che l’equilibrio tra luce e ombre nelle sue opere fa spesso riferimento a Caravaggio), che del modernismo, oltre ai grandi nomi della pittura contemporanea. Nonostante ciò, un particolare che ha contribuito a forgiare il suo stile almeno quanto il confronto con questi giganti, viene dalla sua vita privata. Ha infatti sposato l’artista tedesca Nina Raber-Urgessa (anche lei usa la pittura e fa figurazione) specializzata in arteterapia (i due hanno tre figli e dal 2022 abitano in Etiopia). E le surreali composizioni del Signor Urgessa che metteno in scena una teatralità stralunata hanno molto a che fare con l’elaborazione di elementi onirici.

La tavolozza è terrosa e variegata nelle sfumature ma pronta a illuminarsi di colori sgargianti (e a tratti persino stilosi) quando meno ce lo si aspetti. Spesso è scura ma per qualche strana alchimia mai cupa, drammatica o tragica.

"Prejudice and Belonging" di Tesfaye Urgessa, il primo padiglione Etiopia della Biennale d’Arte di Venezia, rimarrà a Palazzo Bollani fino alla fine, ormai prossima, della manifestazione (resta meno di un mese per visitarla: fino al 24 novembre 2024)

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

La Chola Poblete, un’artista indigena e queer sulla cresta dell’onda

La Chola Poblete, 2022 Foto: Agustina Lamborizio / © La Chola Poblete

Nata a Mendoza nella parte nord-occidentale dell’Argentina (a ridosso delle Ande) come Mauricio trentacinque anni fa e cresciuta in una famiglia indigena di pochi mezzi prevalentemente femminile, La Chola Poblete, è oggi un artista in vertiginosa ascesa. La partecipazione alla Biennale d’arte di Adriano Pedrosa “Stranieri Ovunque. Foreigners Everywhere dove ha ottenuto la menzione speciale della giuria, infatti, non è venuta da sola. E, dopo aver vinto il prestigioso premio “Artist of the Year” di Deutsche Bank, il suo colorato universo dolente, animato da madonne, dee, simboli pop, erotismo e crudo umorismo, adesso è al centro della mostra “Guaymallénal” (da un dipartimento nella provincia della sua città natale) al Mudec di Milano.

Se non bastasse, a giugno, si è confrontata con il mercato iper-competitivo della fiera più famosa in assoluto (Art-Basel). E poi i segnali premonitori c’erano già tutti, quando, durante Arco Madrid, la Regina di Spagna l’aveva voluta conoscere dopo essere stata colpita dai suoi acquerelli esposti nello stand della galleria che la rappresenta. Pare che La Chola Poblete, la cui opera è in gran parte una critica delle dinamiche post-coloniali, trovandosi di fronte Letizia abbia affermato: “Come stai? Eccoci qui, cinquecentotrenta anni dopo!”, suscitando un momento d’imbarazzo prontamente superato nella sovrana.

La Chola Poblete: Virgen del Carmen de Cuyo, 2023 Watercolor, acrylic, and ink colors on paper, 200 x 152 cm © La Chola Poblete

L’argentina, che dalla ricercatrice e curatrice, María Amalia García, sul sito e sul catalogo della Biennale, viene descritta così: “è un’artista transdisciplinare che opera con performance, videoarte, fotografia, pittura e oggetti: attraverso un sofisticato immaginario queer, recupera conoscenze ancestrali dai territori sudamericani(…)”, sembra non essersi però montata la testa. In un’intervista rilasciata in occasione dell’inaugurazione al Mudec ha detto: “È un periodo intenso. Ma guardami: io non sono cambiata per niente!” E poi forse è difficile credere a un cambiamento duraturo in un mondo ondivago come quello dell’arte contemporanea.

La Chola Poblete, che a Venezia è arrivata accompagnata dalla madre e dalla sorella al loro primo viaggio al di fuori del Paese, abita da anni a Buenos Aires dove da poco occupa uno studio in un’immobile prestigioso arredato con opere di alcuni dei più famosi artisti contemporanei come Leandro Erlich ed ha perfino un assistente. Ma non è sempre stato facile per lei: quando, fresca di laurea in Arti Visive a Mendoza, è arrivata nella capitale argentina, ha dovuto adattarsi a lavorare in un collettivo. Poi è arrivata qualche vendita e, pian-piano le cose hanno cominciato a marciare.

La Chola Poblete: Virgen de la Carrodilla, 2023 Watercolor, acrylic, and ink colors on paper, 200 x 152 cm © La Chola Poblete

Attualmente opera con vari medium che usa per parlare della propria identità. Si concentra sul suo essere queer e indigena ma non mancano simboli riferiti alla quotidianità pura e semplice (il condor ad esempio, perché volteggia sulle Ande) e alla banalità stereotipata di un immaginario globalizzato (i manga, etichette di prodotti di consumo ecc.). Ma anche alla storia (il barocco andino) e all’attualità dell’arte (“Comedian”, la banana che Maurizio Cattelan ha appeso a un muro, che compare in più di un’opera). Negli acquerelli, spesso eseguiti su larga scala, alla precisione calligrafica di alcuni elementi se ne contrappongono altri appena abbozzati, oltre a scritte e motivi decorativi, in un turbinio concitato e apparentemente spontaneo. Mentre il colore, vivo, a momenti accostato per toni contrapposti, tra eleganti chiaroscuri e colature drammatiche lotta per prendere il sopravvento sulla narrazione e sul bianco del supporto.

All’interno di questi pezzi ci sono i simboli prediletti da La Chola Poblete come: la madonna, le patate e il pane. In merito alla prima (che nelle sue opere appare idealizzata ma anche leggermente rivisitata, e sovrappone alla Vergine Maria la divinità latinoamericana della Pachamama) lei ha raccontato in un’altra intervista: “(…) Mio nonno è morto a 33 anni. Si raccontava che da ragazzo, in Bolivia, avesse trovato sepolta sotto terra la figura di una vergine. La prese e gli dissero che avrebbe dovuto adorarla: se trovi una piccola vergine devi adorarla sempre. Non l'ha fatto. Era uno stronzo, l'ha lanciata e si è rotta. Poi gli dissero che una maledizione lo avrebbe seguito. Ed è cresciuto con quell'idea. Morì fulminato, all’età di Cristo, e in punto di morte disse: ‘Questo è per la Vergine’. Quindi, sono cresciuta con rispetto per la Vergine a causa di questo mito familiare su quanto potente potesse essere questa figura (…)” Aggiungendo poi: “(…) Un giorno ho comprato un rotolo per realizzare grandi acquerelli. Stavo per compiere 33 anni e cominciavo ad avere paura di questo karma. Ho pensato che fosse ora di rompere con tutto ciò. Allora decisi di fare trentatré vergini, affinché mio nonno potesse riposarsi. È da lì che ho iniziato con la serie (…)”.

La Chola Poblete lavora alle opere di pane per la mostra al Mudec al panificio Davide Longoni di Milano

Le patate invece, che spesso usa sotto forma di snack prelevandole semplicemente dai sacchetti della multinazionale Lay’s, simboleggiano soprattutto la deprivazione del suolo latino-americano da parte dei colonizzatori (questi ultimi, ha spesso raccontato, le credevano frutti infernali perché crescevano sottoterra e volevano spingere gli indigeni a smettere di mangiarle).

Mentre il pane, con cui fa anche delle sculture (al Mudec ne sono esposte diverse realizzate per l’occasione), ricorda la fertilità della terra, l’originarietà e il nutrimento ma l’artista argentina lo ha anche paragonato all’acquerello: “Quando realizzo una maschera di pane o lavoro con l'acquerello fuso, entrambi seguono un percorso irreversibile. Da un lato, la pasta assume diverse sfumature di colore a seconda di quanto tempo rimane nel forno, cambiando forma, lievitando, crepando e bruciando. Allo stesso modo, l'acquerello distorce il disegno, si mescola con altre macchie e crea nuove forme. Ho la sensazione che questi materiali abbiano una qualità performativa, incarnando la mutevolezza e il flusso”. Senza contare che è un materiale deperibile.

Alcune opere de La Chola Poblete si possono ammirare alla Biennale di Venezia 2024 (fino al 24 novembre). Molte di più rimarranno invece al Mudec di Milano per tutta la durata della mostra a lei dedicata (fino al 20 ottobre soltanto). La personale “Guaymallénal” è a ingresso gratuito.

La Chola Poblete: Virgen de la leche, 2023 Photograph, 152 x 160 cm © La Chola Poblete

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

Biennale di Venezia| L’acqua è il filo conduttore del poetico Padiglione Gran Bretagna di Sir John Akomfrah RA

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

Poetico, monumentale ed epico al tempo stesso. Il Padiglione Gran Bretagna, “Listening All Night To The Rain” di Sir John Akomfrah RA per la a 60esima Esposizione Internazionale d'Arte - La Biennale di Venezia, in un certo senso è inafferrabile. Tante sono le storie, le immagini e i suoni che lo compongono. Si tratta di video ma anche di rumori, melodie, parole. C’è, ad esempio, la morte di David Oluwale , un britannico-nigeriano, annegato in un fiume dello Yorkshire (“lo Yorkshire-scrivono gli organizzatori- insieme alle Highlands scozzesi, sono luoghi cardine di tutta l'opera e fungono da dimora mitica per i vari personaggi”) dopo essere stato picchiato dalla polizia nel 1969, l’insetticida fumigato su un quartiere povero in anni non lontani, il botanico ed ecologista britannico, David Bellamy, che negli anni ’70 spiegava il riscaldamento globale in spezzoni di vecchi filmati, lavoratori di colore in una fabbrica di biciclette e poi l’acqua di un ruscello che scorre su fiori, perle e fotografie; il mare, la pioggia che cade, scene da un’alluvione in terre lontane, da un temporale e poi acqua, altre storie, filmati e ancora acqua. Un fiume di racconti e suggestioni talmente vasto da non poterlo interamente abbracciare con lo sguardo, l’udito, e persino con il pensiero.

D’altra parte all’artista britannico di origini ghanesi e ai suoi collaboratori hanno impiegato decenni nella ricerca di documenti storici per “contestualizzare la nostra esperienza del presente” e costruire questa mostra.

Commissionato dal British Council, “Listening All Night To The Rain”, è un’installazione video multicanale formata da otto diverse opere multimediali e sonore che “si intersecano e si sovrappongono” a partire dalla facciata del padiglione fino a ognuna delle diverse stanze a cui si accede dall’ingresso posteriore dell’edificio. Il titolo della mostra è quello di una poesia dello scrittore e artista cinese dell'XI secolo Su Dongpo, in cui l’autore esplorava la natura transitoria della vita durante un periodo di esilio politico. Si tratta di un componimento breve e toccante che recita: “Sono come una barchetta/ Che percepisce una distesa/ Di acqua infinita/ Qui sotto boschetti di alberi/ Faccia a faccia in camera da letto/ Ascoltando tutta la notte la pioggia.” Già perché l’acqua, nel padiglione di Akomfrah, è un elemento portante, un tema ricorrente e un filo conduttore. L’artista ha detto che "Se l'acqua non ha memoria, certamente può essere sequestrata per parlare poeticamente di questioni di memoria." Senza contare che l’acqua (spesso utilizzata da Akomfrah nel suo lavoro per via delle tratte degli schiavi e delle rotte migratorie) in Biennale simboleggia anche Venezia con la sua laguna, il mare, i commerci del passato, il fragile ecosistema del presente. Oltre allo scorrere della Storia.

E poi, quale elemento migliore per legare post-colonialismo e crisi ambientale? Temi di cui l’artista parla diffusamente, risalendo alle loro radici storiche, in quelli che lui stesso ha definito collage-visivi.

Listening All Night To The Rain” si sofferma anche sul potere evocativo della storia dell’arte, al di fuori di fotografia e riprese cinematografiche. Prima di tutto la pittura religiosa chiamata in causa dall’installazione degli schermi ed ispirata alle pale d’altare, per suscitare nel pubblico un “senso di contemplazione e fantasticheria”. Poi c’è la scelta dei colori di cui sono state dipinte le pareti del padiglione (rosso, giallo senape, blu oltremare, blu profondo), che prende a modello la tavolozza dello statunitense Mark Rothko, per “evidenziare i modi in cui l'astrazione può rappresentare la natura fondamentale del dramma umano”. Per finire, in mostra c’è un’installazione in cui vecchi strumenti tecnologici audio, appesi e lasciati fluttuare come una nuvola nostalgica, richiamano alla mente una lunga fila di scultori che hanno affidato la loro opera agli oggetti trovati.

La mostra è composta, come già detto, da otto lavori multimediali che l’artista ha chiamato “Cantos”, facendo riferimento al poema incompiuto dello scrittore statunitense Ezra Pound ma anche alla radice latina della parola canzone. I suoni, infatti, qui sono fondamentali: voci canzoni, musiche, rumori, c’è di tutto. Perché come ha detto lo stesso Akomfrah in un’intervista: “L’atto di ascoltare presuppone sempre un altrove. Il suono chiama da un aldilà.”

Nato ad Accra nel ’57, John Akomfrah, vive in Gran Bretagna fin dall’infanzia e si sente sinceramente inglese. Figlio di un politico che lavorava nel gabinetto di Kwame Nkrumah, primo Primo Ministro dopo la liberazione del Ghana dal giogo coloniale, sembrava destinato a un futuro radioso in patria, ma le cose presero presto una brutta piega. Il padre venne assassinato nel periodo immediatamente precedente al colpo di stato del ’66, così lui (che allora aveva otto anni) e la madre fuggirono prima negli Stati Uniti poi in Gran Bretagna. Ha studiato con risultati eccellenti in Inghilterra, dove si e fatto notare già nell’86 con il film “Handsworth Songs”. L’opera di cui era regista, parlava delle conseguenze delle rivolte di Handsworth (un quartiere vicino a Brixton, che fu a sua volta coinvolto nelle sommosse, per questo da noi l’evento è ricordato come Rivolta di Brixton dell’81) ed era radicale sia nella forma che nella sostanza. Handsworth Songs si aggiudicò un premio e da quel momento la fama di John Akomfrah non fece che crescere.

Gli argomenti di cui si occupa l’artista però non sono mai cambiati (razzismo, problemi post-coloniali, migrazioni) a modificarsi è stato l’atteggiamento dell’autore verso la sua patria d’adozione che nel tempo si è fatto più maturo e riflessivo, mentre la sua opera assumeva sfumature via via più poetiche; a tratti oniriche. Nel frattempo Akomfrah è stato nominato Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico e, tra le altre cose, gli è stato assegnato il premio Principessa Margaret (in ricordo della sorella della scomparsa regina). Adesso si chiama Sir John Akomfrah RA.

Per concludere il padiglione britannico di John Akomfrah, “Listening All Night To The Rain”, curato da Tarini Malik, è sicuramente molto bello. Ma quando lo si visita bisogna tenere presente che i video e gli audio-collages, non sono fatti per essere visti o ascoltati dall’inizio alla fine, perchè sono lunghissimi (il film al piano superiore, per esempio, dura diverse ore da solo) e strutturati in modo ondivago. Come gli altri resterà aperto per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024.

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah,  Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council. All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

John Akomfrah, Canto I, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah,  Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council. All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

John Akomfrah, Canto III, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah,  Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council. All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

John Akomfrah, Canto IV, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

John Akomfrah, Canto VII, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

John Akomfrah, Canto VIII, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

John Akomfrah and Tarini Malik. British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems