Toshihiko Shibuya in un’intervista mette in discussione l’idea che la sua opera sia "molto giapponese” e racconta una favola Ainu

Toshihiko Shibuya nel suo studio. All images courtesy the artist ©Toshihiko Shibuya

L’isola di Hokkaido è la più settentrionale dell’arcipelago giapponese e malgrado sia piuttosto vasta la sua popolazione è circa un terzo di quella della sola Tokio. Ci sono culture agricole, stabilimenti produttivi e città, certo, ma soprattutto foreste che coprono il 71 per cento del territorio. Una natura rigogliosa e aspra di cui si prende coscienza digitandone il nome su internet: il motore di ricerca, infatti, restituisce soprattutto immagini di alberi, boschi, coste alte su cui si infrangono le onde dell’oceano e naturalmente neve. Tanta neve.

Nato a Muroran nel 1960, l’artista Toshihiko Shibuya che fin dall’infanzia abita a Sapporo (la città più grande del Giappone del nord con quasi due milioni di abitanti, dove pure il verde è tenuto in grande considerazione) ad Hokkaido ha trascorso la vita. Non stupisce quindi che la sua opera rifletta il particolare paesaggio di questa terra posta a poche miglia nautiche dal confine russo, e anche qualche singolarità culturale (Hokkaido è l’isola degli indigeni Ainu). Tempo fa il signor Shibuya, commentando il successo della sua serie di installazioni “Snow Pallet” (la ripropone in forme e contesti diversi tutti gli inverni da oltre 15 anni), ha detto: “Mi ha stupito che così tanti giornalisti, originari di luoghi diversi nel mondo, abbiano trovato l’opera ‘molto giapponese’. Io non credo che lo sia, penso abbia profondamente a che fare con la sola Hokkaido”. Per questo legame con il territorio è stato anche premiato dal governo dell’isola.

Il signor Shibuya mi tiene informata sul suo lavoro da alcuni anni a questa parte. Ogni tanto mi manda anche delle cartoline postali con immagini delle sue opere, che mi lasciano sempre esterrefatta per la bellezza composta, drammatica e gioiosa che emanano. Una volta ne ho mostrata una ad un amico artista che usa prevalentemente la pittura, mi ha detto: “Che meraviglia: è molto bravo, la sua opera è così giapponese!

L’immagine di un edizione di “Snow Pallet”

Il Signor Shibuya invece non dipinge. Il suo lavoro, volto a cercare di sottolineare la bellezza delle nevicate o del proliferare della vita nel sottobosco interferendo il meno possibile con il reale, si compone principalmente di installazioni (la serie “Snow Pallet” e la serie “Generation” sono i pilastri della sua attività artistica), cui si aggiungono fotografie che documentano momenti effimeri di vita naturale (i semi che si staccano dai soffioni e prendono il volo; la neve accumulata sui supporti che formano “Snow Pallet” ecc.), ma anche teche in cui conserva reperti del paesaggio cui allude costantemente (come rocce o semi). Tuttavia questo è il risultato di una lunga carriera, di come è cominciata e di tante altre cose abbiamo parlato in un’intervista che Toshihiko Shibuya ha rilasciato ad Artbooms in occasione di un periodo di attività espositiva piuttosto intensa.

Shibuya colloca le piattaforme che compongono la sua famosa installazione scultorea invernale

Cosa facevano i tuoi genitori?

Mio padre era ferroviere e mia madre lavorava per un giornale locale a Muroran.

Sei nato a Mururan: sono quei paesaggi che ritornano nei tuoi ricordi d’infanzia?

Muroran non è più la stessa dopo la riduzione delle dimensioni dei suoi due principali stabilimenti siderurgici e dopo che il suo ruolo di porto per il trasporto del carbone è stato drasticamente ridimensionato. Ma Muroran è pur sempre una ‘città d'acciaio’. Quando sono nato negli anni '60, era al suo apice. Di quella vitalità, ora non rimane quasi traccia. In futuro però, la città passerà alla ‘neutralità carbonica’, quindi produrrà energia eolica offshore e svilupperà quella a idrogeno: un nuovo inizio, insomma, che potrebbe farla rinascere.

Ma ciò che mi affascina è la bellezza della topografia di questa penisola. Il porto di Muroran si è sviluppato come un buon porto perché il territorio era adatto allo scopo. Il litorale della costa esterna della penisola, Pirokanoka Etomo, fino alla spiaggia Tokkarisho, è affascinante. Questi punti di vista non sono cambiati e sono vividi nei miei ricordi d'infanzia. La mia famiglia, mio padre, mia madre e io, ricordiamo che ogni fine settimana salivamo in cima al monte Sokuryo-zan e pranzavamo lì. La vista a 180 gradi dell'orizzonte da Capo Chikyu non è cambiata dai tempi antichi. Nomi di luoghi come Pirokanoka, Tokkarisho, Chikyu, Muroran e Sapporo" derivano tutti dalla lingua dagli Ainu, la popolazione indigena di Hokkaido.

La cultura Ainu ha influenzato il tuo lavoro?

La popolazione indigena Ainu viveva nella parte settentrionale dell'arcipelago giapponese, principalmente nella zona di Hokkaido. Si dice che gli Ainu sia siano stabiliti sull’isola già tra il IX e il XIII secolo. Sono un popolo con una lunga storia e cultura. Gli Ainu hanno un sistema linguistico diverso dal giapponese e hanno credenze e una cultura spirituale proprie e uniche, ad esempio, la venerazione di varie creature e fenomeni che circondano gli esseri umani, come ‘Kamuy/Dei’. Però non hanno una lingua scritta e hanno tramandato la loro storia oralmente. Ma ho fatto delle ricerche sul loro folklore, mi interessavano il tema dell'inverno e della neve e alla fine ho trovato una storia. Il titolo è ‘Spalare la neve sopra le nuvole’. La favola è questa: "Un vecchio dai capelli bianchi, seduto su una nuvola, rovesciò la neve a terra con una pala, distruggendo le case del popolo Ainu. Era felice di vedere le persone soffrire da sopra le nuvole. Poi, all'improvviso, un giovane apparve e gli disse: ‘Penso che tu sia stanco, quindi dammi la tua pala. Spalerò io la neve per te.’ Fece finta di spalare la neve con la pala che gli era stata data, ma finì per uccidere il vecchio con essa. Il vecchio morente pensò: ‘Sarò punito per aver causato problemi alla gente facendo nevicare abbondantemente’. Questa è la storia. Sebbene il mio ‘Snow Pallet’ non rifletta direttamente il folklore Ainu, come mostrano i dati annuali, le nevicate sono sempre più irregolari. Questo ci fa capire che le condizioni meteorologiche anomale che si stanno verificando in questo momento in tutto il mondo non sono frutto dell'inganno di un vecchio dai capelli grigi su una nuvola, ma un disastro provocato da noi stessi.

Qualche anno fa Toshihiko Shibuya mentre parla del suo lavoro in pubblico

Quando ti sei trasferito a Sapporo?

Mi sono trasferito a Sapporo prima di iniziare la scuola elementare, ma conservo ancora vividi ricordi del paesaggio di Muroran.

Recentemente hai anche fatto una mostra lì

Si, all'ex scuola elementare Etomo, che negli anni passati ha visto un continuo calo del numero di studenti. Alla fine il 31 marzo 2015 ha chiuso dopo 122 anni di storia. Dopo di che, come politica della città di Muroran, l'’edificio delle aule’ dei due edifici scolastici circolari è stato preservato. Ma non era lo stesso per l'’edificio della palestra’, che presentava problemi di resistenza antisismica, e doveva essere demolito. Nel settembre 2019, il consiglio comunale aveva anche approvato i costi della demolizione. Il grande valore dell'ex scuola elementare Etomo è che i due edifici che la compongono formano una coppia, in Giappone esistono solo due scuole di questo tipo. Nella speranza di salvare entrambi gli edifici, dei gruppi di cittadini hanno cominciato a mobilitarsi ed a raccogliere firme. Nel novembre 2019 sono stati raccolti più di 10 milioni di yen tramite crowdfunding per il progetto di utilizzo dell'ex scuola elementare Etomo. La città di Muroran ha ritirato il piano di demolizione e nel gennaio 2020 ha deciso di vendere l'edificio alla Muroran 100th Anniversary Building Preservation and Utilization Association. Sono stati eseguiti dei lavori di restauro, poi, nell'aprile 2022, i due edifici sono stati aperti al pubblico, insieme a una mostra sul periodo Jomon al primo piano dell'edificio scolastico. Per questa mostra gli organizzatori mi hanno messo a disposizione l'aula di musica, una delle aule circolari. Sovrapponendo la forma del pavimento del locale ad una mappa del distretto ovest di Muroran, ho immaginato l'installazione come un monte chiamato ‘Sokuryozan’ con le sei torri televisive che si ergono sulla cima, i luoghi caratteristici della penisola, le stazioni e gli altri nodi cittadini attraverso una disposizione di oggetti astratti. L’idea era quella di creare un’opera che immaginasse e propiziasse il futuro della città. Desidero fortemente che la città torni a splendere in futuro.

Quando ti sei innamorato dell'arte? E a quando risalgono i tuoi primi esperimenti?

Quando ero alle elementari volevo diventare architetto.

Hai studiato arte?

Ho iniziato a studiare disegno presso un istituto d'arte al terzo anno di liceo. Dopo il diploma di scuola superiore, ho studiato le basi dell'arte e del design in un istituto d'arte per due anni, e poi sono entrato in un'università d'arte a Tokyo. Tuttavia, non riuscivo a decidere cosa volevo creare e con quali materiali, tra pittura a olio, pittura giapponese, scultura, ecc., quindi ho continuato con la specializzazione in design, dove potevo imparare una varietà di cose con una mente libera.

Hai insegnato design: quanto pensi che questo abbia influenzato il tuo lavoro?

Per coincidenza, il mio professore all'università era un artista contemporaneo. La sua influenza mi ha portato a esplorare la libertà espressiva oltre ai materiali più vari. Dopo la laurea ho lavorato nel settore della moda ,sia nel design dei modelli che nei display spaziali utilizzando tessuti. Ho poi iniziato la mia carriera di artista mentre lavoravo come docente presso un istituto di ricerca artistica. Ho tenuto la mia prima mostra personale a Tokyo, con installazioni di rilievi murali. Ho poi continuato a creare stampe originali per oltre 10 anni. Ho continuato a sperimentare e ad allontanarmi dai media bidimensionali, ed è così che sono arrivato dove sono oggi. Scelgo vari materiali in base alle mie esigenze. Attualmente sono preside di una scuola d'arte. L'anno prossimo festeggerò 40 anni di attività come artista.

un’immagine dei black box della white collection

Quali sono gli artisti o i movimenti che sono stati fonte d’ispirazione per te?

Tra gli artisti contemporanei che hanno modellato la loro opera sulla base della storia dell’arte europea e americana amo Dani Caravan, Mark Rothko, Christo e Jeanne-Claude, oltre ai due architetti agli antipodi Frank Gehry e Tadao Ando. Ma non mi piacciono di meno anche lo scultore di pietra Isamu Noguchi (americano di origine giapponese), lo scultore del ferro Richard Serra. E poi: Lee U-fan (coreano residente in Giappone), Shigemori Mirei (giardiniere paesaggista giapponese); gli artisti Rinpa giapponesi (periodo Azuchi-Momoyama-Edo) come Tawaraya Sotatsu, Ogata Korin, Sakai Hoitsu, Suzuki Kiitsu, e i pittori della scuola Kano (giapponese). Poi guardo all’Arte gotica medievale europea, all’arte religiosa (prima del Rinascimento), ecc. Sebbene la gamma sia ampia, ognuna di esse è spirituale o decorativa, al contrario la cultura tradizionale giapponese valorizza la forma e la spiritualità contemporaneamente (santuari e templi, sculture buddiste, cerimonia del tè, ecc.). Tuttavia, mi piace anche la Pop Art di Andy Warhol.

So che hai visitato l’Italia: cosa ti ha colpito di più?

Ho viaggiato in Italia nel 2011. Quando gli italiani hanno scoperto che sono giapponese, mi hanno espresso il loro dolore per le numerose persone che hanno perso la vita nel terribile terremoto e nello tsunami di Tōhoku. Hanno anche pregato per una completa guarigione del mio Paese. Ma il mio ricordo migliore è la storia culturale che ho avuto occasione d’ammirare. Visitare la Galleria degli Uffizi è stato particolarmente memorabile. È stata un'esperienza preziosa poter ammirare dal vivo numerose opere d'arte. Ho visitato Roma, il Vaticano, Firenze, Venezia e Milano. Sono rimasto sopraffatto dagli antichi edifici in pietra. Ogni città aveva una personalità distinta, e io sentivo la loro identità come città-stato. Vorrei soprattutto visitare di nuovo Firenze.

Trovo che ultimamente il tuo lavoro cerchi una connessione più stretta con la cultura tradizionale giapponese. Pensi che io abbia ragione?

“Snow Pallet” ha il suo cuore ad Hokkaido, la terra settentrionale del Giappone, un'isola innevata che è stata sviluppata tardivamente (500 anni di storia dello sviluppo). Quando ho associato le problematiche ambientali all'arte, ho capito che era necessaria una nuova forma espressiva che avesse come spina dorsale la cultura tradizionale giapponese.

Forse le possibilità dell'arte digitale sono infinite, non è vero? Penso che tutta l'arte analogica immaginabile fino ad oggi invece sia stata esaurita. Con questo in mente mi concentro sulla creazione di un'atmosfera che può essere percepita solo in un determinato luogo, eliminando il più possibile gli sprechi e collocando in modo raffinato sculture fatte per essere assorbite dall’ambiente circostante (sia all'interno che all'esterno). Penso che in futuro non sarò più in grado di creare opere d'arte di grandi dimensioni, ma mi piacerebbe continuare a fare lavori originali come artista ambientale.

Mi stai dicendo che intendi provare a cimentarti con l’arte digitale?

No! Avevo previsto che l'arte digitale si sarebbe sviluppata insieme alla tecnologia, ma questo non rientra nel mio ambito espressivo. Saranno gli artisti delle generazioni più giovani a usarla. E poi credo che attualmente esista molta arte digitale di grande impatto specificatamente legata a questa tecnologia, ma ritengo anche che siano pochissime le opere di alto livello che combinano la spiritualità all’innovazione scientifica.

la neve si scioglie su uno dei supporti di Snow Pallet

Una delicata installazione in mezzo alla natura del sottobosco rigoglioso della seriee “Generation”

La mostra a Muroran nell’aula di musica dell’ex-scuola elementare Etomo

Di nuovo uno Black Box della White Collection

Un’installazione di Shibuya nella metropolitana di Tokio

La Chola Poblete, un’artista indigena e queer sulla cresta dell’onda

La Chola Poblete, 2022 Foto: Agustina Lamborizio / © La Chola Poblete

Nata a Mendoza nella parte nord-occidentale dell’Argentina (a ridosso delle Ande) come Mauricio trentacinque anni fa e cresciuta in una famiglia indigena di pochi mezzi prevalentemente femminile, La Chola Poblete, è oggi un artista in vertiginosa ascesa. La partecipazione alla Biennale d’arte di Adriano Pedrosa “Stranieri Ovunque. Foreigners Everywhere dove ha ottenuto la menzione speciale della giuria, infatti, non è venuta da sola. E, dopo aver vinto il prestigioso premio “Artist of the Year” di Deutsche Bank, il suo colorato universo dolente, animato da madonne, dee, simboli pop, erotismo e crudo umorismo, adesso è al centro della mostra “Guaymallénal” (da un dipartimento nella provincia della sua città natale) al Mudec di Milano.

Se non bastasse, a giugno, si è confrontata con il mercato iper-competitivo della fiera più famosa in assoluto (Art-Basel). E poi i segnali premonitori c’erano già tutti, quando, durante Arco Madrid, la Regina di Spagna l’aveva voluta conoscere dopo essere stata colpita dai suoi acquerelli esposti nello stand della galleria che la rappresenta. Pare che La Chola Poblete, la cui opera è in gran parte una critica delle dinamiche post-coloniali, trovandosi di fronte Letizia abbia affermato: “Come stai? Eccoci qui, cinquecentotrenta anni dopo!”, suscitando un momento d’imbarazzo prontamente superato nella sovrana.

La Chola Poblete: Virgen del Carmen de Cuyo, 2023 Watercolor, acrylic, and ink colors on paper, 200 x 152 cm © La Chola Poblete

L’argentina, che dalla ricercatrice e curatrice, María Amalia García, sul sito e sul catalogo della Biennale, viene descritta così: “è un’artista transdisciplinare che opera con performance, videoarte, fotografia, pittura e oggetti: attraverso un sofisticato immaginario queer, recupera conoscenze ancestrali dai territori sudamericani(…)”, sembra non essersi però montata la testa. In un’intervista rilasciata in occasione dell’inaugurazione al Mudec ha detto: “È un periodo intenso. Ma guardami: io non sono cambiata per niente!” E poi forse è difficile credere a un cambiamento duraturo in un mondo ondivago come quello dell’arte contemporanea.

La Chola Poblete, che a Venezia è arrivata accompagnata dalla madre e dalla sorella al loro primo viaggio al di fuori del Paese, abita da anni a Buenos Aires dove da poco occupa uno studio in un’immobile prestigioso arredato con opere di alcuni dei più famosi artisti contemporanei come Leandro Erlich ed ha perfino un assistente. Ma non è sempre stato facile per lei: quando, fresca di laurea in Arti Visive a Mendoza, è arrivata nella capitale argentina, ha dovuto adattarsi a lavorare in un collettivo. Poi è arrivata qualche vendita e, pian-piano le cose hanno cominciato a marciare.

La Chola Poblete: Virgen de la Carrodilla, 2023 Watercolor, acrylic, and ink colors on paper, 200 x 152 cm © La Chola Poblete

Attualmente opera con vari medium che usa per parlare della propria identità. Si concentra sul suo essere queer e indigena ma non mancano simboli riferiti alla quotidianità pura e semplice (il condor ad esempio, perché volteggia sulle Ande) e alla banalità stereotipata di un immaginario globalizzato (i manga, etichette di prodotti di consumo ecc.). Ma anche alla storia (il barocco andino) e all’attualità dell’arte (“Comedian”, la banana che Maurizio Cattelan ha appeso a un muro, che compare in più di un’opera). Negli acquerelli, spesso eseguiti su larga scala, alla precisione calligrafica di alcuni elementi se ne contrappongono altri appena abbozzati, oltre a scritte e motivi decorativi, in un turbinio concitato e apparentemente spontaneo. Mentre il colore, vivo, a momenti accostato per toni contrapposti, tra eleganti chiaroscuri e colature drammatiche lotta per prendere il sopravvento sulla narrazione e sul bianco del supporto.

All’interno di questi pezzi ci sono i simboli prediletti da La Chola Poblete come: la madonna, le patate e il pane. In merito alla prima (che nelle sue opere appare idealizzata ma anche leggermente rivisitata, e sovrappone alla Vergine Maria la divinità latinoamericana della Pachamama) lei ha raccontato in un’altra intervista: “(…) Mio nonno è morto a 33 anni. Si raccontava che da ragazzo, in Bolivia, avesse trovato sepolta sotto terra la figura di una vergine. La prese e gli dissero che avrebbe dovuto adorarla: se trovi una piccola vergine devi adorarla sempre. Non l'ha fatto. Era uno stronzo, l'ha lanciata e si è rotta. Poi gli dissero che una maledizione lo avrebbe seguito. Ed è cresciuto con quell'idea. Morì fulminato, all’età di Cristo, e in punto di morte disse: ‘Questo è per la Vergine’. Quindi, sono cresciuta con rispetto per la Vergine a causa di questo mito familiare su quanto potente potesse essere questa figura (…)” Aggiungendo poi: “(…) Un giorno ho comprato un rotolo per realizzare grandi acquerelli. Stavo per compiere 33 anni e cominciavo ad avere paura di questo karma. Ho pensato che fosse ora di rompere con tutto ciò. Allora decisi di fare trentatré vergini, affinché mio nonno potesse riposarsi. È da lì che ho iniziato con la serie (…)”.

La Chola Poblete lavora alle opere di pane per la mostra al Mudec al panificio Davide Longoni di Milano

Le patate invece, che spesso usa sotto forma di snack prelevandole semplicemente dai sacchetti della multinazionale Lay’s, simboleggiano soprattutto la deprivazione del suolo latino-americano da parte dei colonizzatori (questi ultimi, ha spesso raccontato, le credevano frutti infernali perché crescevano sottoterra e volevano spingere gli indigeni a smettere di mangiarle).

Mentre il pane, con cui fa anche delle sculture (al Mudec ne sono esposte diverse realizzate per l’occasione), ricorda la fertilità della terra, l’originarietà e il nutrimento ma l’artista argentina lo ha anche paragonato all’acquerello: “Quando realizzo una maschera di pane o lavoro con l'acquerello fuso, entrambi seguono un percorso irreversibile. Da un lato, la pasta assume diverse sfumature di colore a seconda di quanto tempo rimane nel forno, cambiando forma, lievitando, crepando e bruciando. Allo stesso modo, l'acquerello distorce il disegno, si mescola con altre macchie e crea nuove forme. Ho la sensazione che questi materiali abbiano una qualità performativa, incarnando la mutevolezza e il flusso”. Senza contare che è un materiale deperibile.

Alcune opere de La Chola Poblete si possono ammirare alla Biennale di Venezia 2024 (fino al 24 novembre). Molte di più rimarranno invece al Mudec di Milano per tutta la durata della mostra a lei dedicata (fino al 20 ottobre soltanto). La personale “Guaymallénal” è a ingresso gratuito.

La Chola Poblete: Virgen de la leche, 2023 Photograph, 152 x 160 cm © La Chola Poblete

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

Le storie postcoloniali di Mohamed Bourouissa che passano per un giardino di mimose rap al Palais de Tokyo

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Quando nel 2005, Mohamed Bourouissa, si è imposto nel panorama internazionale con la serie fotografica “Périphérique” in cui ambientava nelle banlieue parigine contemporanee scene iconiche della pittura storica francese (più spesso quella di Delacroix), nessuno immaginava che nel tempo il suo lavoro si sarebbe fatto così ramificato. Sempre in bilico tra il trauma e la cura, Bourouissa, attualmente protagonista dell’importante retrospettiva “Signal” al Palais de Tokyo di Parigi, parla di razzismo, migrazioni, confinamento e postcolonialismo, con uno spirito errante e, tutto sommato, più attento alle dinamiche interiori che a quelle sociali e politiche.

Non che a Bourouissa, nato nel ’78 a Blida (nel nord dell’Algeria) ed emigrato in Francia insieme alla madre quando aveva appena cinque anni, queste ultime non interessino. Lui nelle banlieue c’è cresciuto. Ma non è un uomo superficiale, gli piace guardare le cose da più punti di vista, come si evince dalla sua opera che si dirama in direzioni sempre diverse (senza perdere mai il centro però). E poi i sentimenti raggiungono più in fretta il nocciolo della questione, e nell’artista franco-algerino c’è anche un lato pratico, che vuole catturare lo spettatore subito, senza tergiversare.

E di certo ci riesce con “Brutal Family Roots”. Realizzata nel 2020 per la Biennale di Sidney e riproposta anche quest’anno a Parigi, un’opera che in genere presenta su un pavimento giallo dorato come i fiori della mimosa che ne è l’elemento ispiratore e il vero e proprio soggetto. Bourouissa, infatti, quando ha pensato questa installazione era appena venuto a sapere che la pianta, il cui profumo e aspetto gli richiamava alla mente lontani frammenti della sua infanzia mediorientale, era in realtà originaria dell’Australia dove gli indigeni Wiradjuri la chiamano garal. Lui che ha un debole per le piante e le storie della loro diffusione ci ha visto la prova lampante degli equilibri frantumati dal colonialismo. Tempo fa ha detto: “(…) vediamo le piante come oggetti piuttosto che come soggetti, ‘Brutal Family Roots’, esamina il modo in cui dividiamo in categorie esseri umani, piante e animali”. Così ha trovato il modo per dare voce alle mimose sdradicate dalla loro terra natia su navi inadatte a trasportarle: ha messo in musica le frequenze che emettono. Anche il rap si è spostato per il mondo, spesso mettendo radici in comunità disagiate. “Brutal Family Roots” unisce queste due storie in un mix composto dalle melodie emesse dalle piante e i testi dei rapper che parlano di vento e acqua.

Nello stesso anno, Bourouissa, si è inventato anche un’opera esclusivamente sonora: “HARa!!!!!!hAaaRAAAAA!!!!!hHAaA!!!” Uno strano grido che si ispira al termine ‘hara’ usato a Marsiglia per avvisare gli spacciatori dell’arrivo della polizia. L’opera l’ha spiegata così: “È una forma di segnale, come un allarme. Senza il contesto può significare qualcos'altro: per me questo lo rende più simile all'Urlo di Edvard Munch, ad esempio, o al primo pianto di un bambino, o al segnale di allarme quando qualcuno tenta di entrare in casa tua. È qualcosa di molto semplice, qualcosa di forte.”

Anni prima, invece, l’artista era stato in Algeria dove aveva avuto modo di conoscere, Bourlem Mohamed, paziente psichiatrico dell’ospedale di Blida del medico e filosofo politico radicale, Franz Fanon (scomparso nel ’61, tra le altre cose si interessò di psicopatologia della colonizzazione e sostenne la lotta per l’indipendenza dell’Algeria). Bourlem si occupava di un giardino che aveva creato da solo e che, secondo Bourouissa, era una proiezione della sua mente. L’artista con Bourlem Mohamed ha fatto un film (“The Whispering of Ghosts”) e ispirandosi a quanto appreso da quest’ultimo, in molte sue mostre costruisce un giardino (ce n’è uno anche a Parigi).

Ma Mohamed Bourouissa è anche scultore (per esempio, ha ideato una serie che ritrae solo il tocco di un corpo da parte di una mano, facendo riferimento alle dinamiche dell’arresto e della prevaricazione), acquarellista (dipinge carte coloratissime e crede siano un modo per esprimere pensieri inconsci), oltre che esperto fotografo e regista (anche teatrale).

Un’altra sua opera che non si può non citare è il progetto “Horse Day”. Quando è rimasto un anno a Filadelfia, per far emergere e raccontare le antiche radici della cultura ippica di una comunità afroamericana del luogo.

Tutti questi lavori sono parte di “Signal”, mostra pensata non in modo cronologico, ma come un paesaggio da attraversare.

La retrospettiva di Mohamed Bourouissa rimarrà al Palais de Tokyo di Parigi fino al 30 giugno 2024.

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

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Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024