Le storie postcoloniali di Mohamed Bourouissa che passano per un giardino di mimose rap al Palais de Tokyo

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Quando nel 2005, Mohamed Bourouissa, si è imposto nel panorama internazionale con la serie fotografica “Périphérique” in cui ambientava nelle banlieue parigine contemporanee scene iconiche della pittura storica francese (più spesso quella di Delacroix), nessuno immaginava che nel tempo il suo lavoro si sarebbe fatto così ramificato. Sempre in bilico tra il trauma e la cura, Bourouissa, attualmente protagonista dell’importante retrospettiva “Signal” al Palais de Tokyo di Parigi, parla di razzismo, migrazioni, confinamento e postcolonialismo, con uno spirito errante e, tutto sommato, più attento alle dinamiche interiori che a quelle sociali e politiche.

Non che a Bourouissa, nato nel ’78 a Blida (nel nord dell’Algeria) ed emigrato in Francia insieme alla madre quando aveva appena cinque anni, queste ultime non interessino. Lui nelle banlieue c’è cresciuto. Ma non è un uomo superficiale, gli piace guardare le cose da più punti di vista, come si evince dalla sua opera che si dirama in direzioni sempre diverse (senza perdere mai il centro però). E poi i sentimenti raggiungono più in fretta il nocciolo della questione, e nell’artista franco-algerino c’è anche un lato pratico, che vuole catturare lo spettatore subito, senza tergiversare.

E di certo ci riesce con “Brutal Family Roots”. Realizzata nel 2020 per la Biennale di Sidney e riproposta anche quest’anno a Parigi, un’opera che in genere presenta su un pavimento giallo dorato come i fiori della mimosa che ne è l’elemento ispiratore e il vero e proprio soggetto. Bourouissa, infatti, quando ha pensato questa installazione era appena venuto a sapere che la pianta, il cui profumo e aspetto gli richiamava alla mente lontani frammenti della sua infanzia mediorientale, era in realtà originaria dell’Australia dove gli indigeni Wiradjuri la chiamano garal. Lui che ha un debole per le piante e le storie della loro diffusione ci ha visto la prova lampante degli equilibri frantumati dal colonialismo. Tempo fa ha detto: “(…) vediamo le piante come oggetti piuttosto che come soggetti, ‘Brutal Family Roots’, esamina il modo in cui dividiamo in categorie esseri umani, piante e animali”. Così ha trovato il modo per dare voce alle mimose sdradicate dalla loro terra natia su navi inadatte a trasportarle: ha messo in musica le frequenze che emettono. Anche il rap si è spostato per il mondo, spesso mettendo radici in comunità disagiate. “Brutal Family Roots” unisce queste due storie in un mix composto dalle melodie emesse dalle piante e i testi dei rapper che parlano di vento e acqua.

Nello stesso anno, Bourouissa, si è inventato anche un’opera esclusivamente sonora: “HARa!!!!!!hAaaRAAAAA!!!!!hHAaA!!!” Uno strano grido che si ispira al termine ‘hara’ usato a Marsiglia per avvisare gli spacciatori dell’arrivo della polizia. L’opera l’ha spiegata così: “È una forma di segnale, come un allarme. Senza il contesto può significare qualcos'altro: per me questo lo rende più simile all'Urlo di Edvard Munch, ad esempio, o al primo pianto di un bambino, o al segnale di allarme quando qualcuno tenta di entrare in casa tua. È qualcosa di molto semplice, qualcosa di forte.”

Anni prima, invece, l’artista era stato in Algeria dove aveva avuto modo di conoscere, Bourlem Mohamed, paziente psichiatrico dell’ospedale di Blida del medico e filosofo politico radicale, Franz Fanon (scomparso nel ’61, tra le altre cose si interessò di psicopatologia della colonizzazione e sostenne la lotta per l’indipendenza dell’Algeria). Bourlem si occupava di un giardino che aveva creato da solo e che, secondo Bourouissa, era una proiezione della sua mente. L’artista con Bourlem Mohamed ha fatto un film (“The Whispering of Ghosts”) e ispirandosi a quanto appreso da quest’ultimo, in molte sue mostre costruisce un giardino (ce n’è uno anche a Parigi).

Ma Mohamed Bourouissa è anche scultore (per esempio, ha ideato una serie che ritrae solo il tocco di un corpo da parte di una mano, facendo riferimento alle dinamiche dell’arresto e della prevaricazione), acquarellista (dipinge carte coloratissime e crede siano un modo per esprimere pensieri inconsci), oltre che esperto fotografo e regista (anche teatrale).

Un’altra sua opera che non si può non citare è il progetto “Horse Day”. Quando è rimasto un anno a Filadelfia, per far emergere e raccontare le antiche radici della cultura ippica di una comunità afroamericana del luogo.

Tutti questi lavori sono parte di “Signal”, mostra pensata non in modo cronologico, ma come un paesaggio da attraversare.

La retrospettiva di Mohamed Bourouissa rimarrà al Palais de Tokyo di Parigi fino al 30 giugno 2024.

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Biennale di Venezia| L’acqua è il filo conduttore del poetico Padiglione Gran Bretagna di Sir John Akomfrah RA

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

Poetico, monumentale ed epico al tempo stesso. Il Padiglione Gran Bretagna, “Listening All Night To The Rain” di Sir John Akomfrah RA per la a 60esima Esposizione Internazionale d'Arte - La Biennale di Venezia, in un certo senso è inafferrabile. Tante sono le storie, le immagini e i suoni che lo compongono. Si tratta di video ma anche di rumori, melodie, parole. C’è, ad esempio, la morte di David Oluwale , un britannico-nigeriano, annegato in un fiume dello Yorkshire (“lo Yorkshire-scrivono gli organizzatori- insieme alle Highlands scozzesi, sono luoghi cardine di tutta l'opera e fungono da dimora mitica per i vari personaggi”) dopo essere stato picchiato dalla polizia nel 1969, l’insetticida fumigato su un quartiere povero in anni non lontani, il botanico ed ecologista britannico, David Bellamy, che negli anni ’70 spiegava il riscaldamento globale in spezzoni di vecchi filmati, lavoratori di colore in una fabbrica di biciclette e poi l’acqua di un ruscello che scorre su fiori, perle e fotografie; il mare, la pioggia che cade, scene da un’alluvione in terre lontane, da un temporale e poi acqua, altre storie, filmati e ancora acqua. Un fiume di racconti e suggestioni talmente vasto da non poterlo interamente abbracciare con lo sguardo, l’udito, e persino con il pensiero.

D’altra parte all’artista britannico di origini ghanesi e ai suoi collaboratori hanno impiegato decenni nella ricerca di documenti storici per “contestualizzare la nostra esperienza del presente” e costruire questa mostra.

Commissionato dal British Council, “Listening All Night To The Rain”, è un’installazione video multicanale formata da otto diverse opere multimediali e sonore che “si intersecano e si sovrappongono” a partire dalla facciata del padiglione fino a ognuna delle diverse stanze a cui si accede dall’ingresso posteriore dell’edificio. Il titolo della mostra è quello di una poesia dello scrittore e artista cinese dell'XI secolo Su Dongpo, in cui l’autore esplorava la natura transitoria della vita durante un periodo di esilio politico. Si tratta di un componimento breve e toccante che recita: “Sono come una barchetta/ Che percepisce una distesa/ Di acqua infinita/ Qui sotto boschetti di alberi/ Faccia a faccia in camera da letto/ Ascoltando tutta la notte la pioggia.” Già perché l’acqua, nel padiglione di Akomfrah, è un elemento portante, un tema ricorrente e un filo conduttore. L’artista ha detto che "Se l'acqua non ha memoria, certamente può essere sequestrata per parlare poeticamente di questioni di memoria." Senza contare che l’acqua (spesso utilizzata da Akomfrah nel suo lavoro per via delle tratte degli schiavi e delle rotte migratorie) in Biennale simboleggia anche Venezia con la sua laguna, il mare, i commerci del passato, il fragile ecosistema del presente. Oltre allo scorrere della Storia.

E poi, quale elemento migliore per legare post-colonialismo e crisi ambientale? Temi di cui l’artista parla diffusamente, risalendo alle loro radici storiche, in quelli che lui stesso ha definito collage-visivi.

Listening All Night To The Rain” si sofferma anche sul potere evocativo della storia dell’arte, al di fuori di fotografia e riprese cinematografiche. Prima di tutto la pittura religiosa chiamata in causa dall’installazione degli schermi ed ispirata alle pale d’altare, per suscitare nel pubblico un “senso di contemplazione e fantasticheria”. Poi c’è la scelta dei colori di cui sono state dipinte le pareti del padiglione (rosso, giallo senape, blu oltremare, blu profondo), che prende a modello la tavolozza dello statunitense Mark Rothko, per “evidenziare i modi in cui l'astrazione può rappresentare la natura fondamentale del dramma umano”. Per finire, in mostra c’è un’installazione in cui vecchi strumenti tecnologici audio, appesi e lasciati fluttuare come una nuvola nostalgica, richiamano alla mente una lunga fila di scultori che hanno affidato la loro opera agli oggetti trovati.

La mostra è composta, come già detto, da otto lavori multimediali che l’artista ha chiamato “Cantos”, facendo riferimento al poema incompiuto dello scrittore statunitense Ezra Pound ma anche alla radice latina della parola canzone. I suoni, infatti, qui sono fondamentali: voci canzoni, musiche, rumori, c’è di tutto. Perché come ha detto lo stesso Akomfrah in un’intervista: “L’atto di ascoltare presuppone sempre un altrove. Il suono chiama da un aldilà.”

Nato ad Accra nel ’57, John Akomfrah, vive in Gran Bretagna fin dall’infanzia e si sente sinceramente inglese. Figlio di un politico che lavorava nel gabinetto di Kwame Nkrumah, primo Primo Ministro dopo la liberazione del Ghana dal giogo coloniale, sembrava destinato a un futuro radioso in patria, ma le cose presero presto una brutta piega. Il padre venne assassinato nel periodo immediatamente precedente al colpo di stato del ’66, così lui (che allora aveva otto anni) e la madre fuggirono prima negli Stati Uniti poi in Gran Bretagna. Ha studiato con risultati eccellenti in Inghilterra, dove si e fatto notare già nell’86 con il film “Handsworth Songs”. L’opera di cui era regista, parlava delle conseguenze delle rivolte di Handsworth (un quartiere vicino a Brixton, che fu a sua volta coinvolto nelle sommosse, per questo da noi l’evento è ricordato come Rivolta di Brixton dell’81) ed era radicale sia nella forma che nella sostanza. Handsworth Songs si aggiudicò un premio e da quel momento la fama di John Akomfrah non fece che crescere.

Gli argomenti di cui si occupa l’artista però non sono mai cambiati (razzismo, problemi post-coloniali, migrazioni) a modificarsi è stato l’atteggiamento dell’autore verso la sua patria d’adozione che nel tempo si è fatto più maturo e riflessivo, mentre la sua opera assumeva sfumature via via più poetiche; a tratti oniriche. Nel frattempo Akomfrah è stato nominato Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico e, tra le altre cose, gli è stato assegnato il premio Principessa Margaret (in ricordo della sorella della scomparsa regina). Adesso si chiama Sir John Akomfrah RA.

Per concludere il padiglione britannico di John Akomfrah, “Listening All Night To The Rain”, curato da Tarini Malik, è sicuramente molto bello. Ma quando lo si visita bisogna tenere presente che i video e gli audio-collages, non sono fatti per essere visti o ascoltati dall’inizio alla fine, perchè sono lunghissimi (il film al piano superiore, per esempio, dura diverse ore da solo) e strutturati in modo ondivago. Come gli altri resterà aperto per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024.

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah,  Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council. All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

John Akomfrah, Canto I, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah,  Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council. All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

John Akomfrah, Canto III, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah,  Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council. All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

John Akomfrah, Canto IV, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

John Akomfrah, Canto VII, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

John Akomfrah, Canto VIII, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

John Akomfrah and Tarini Malik. British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

Biennale di Venezia| Il Padiglione Italia di Massimo Bartolini un po’ fuori posto nella biennale della decolonizzazione ma bello

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

A Due qui / To Hear”, il Padiglione Italia di Massimo Bartolini per la 60esima Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, si può accedere da due ingressi. L’artista originario di Cecina (provincia di Livorno) insieme al curatore milanese, Luca, Cerizza, hanno voluto così alludere alla circolarità (del pensiero, dell’esistenza, della storia ecc.) e permettere ai visitatori che arrivano dal giardino di pertinenza dell’edificio (quest’anno trattato come una sala) così come a chi viene dall’ingresso interno all’Arsenale, di incrociarsi nella stanza più grande, quella che ne costituisce il fulcro. Quest’ultima interamente occupata dall’installazione sonora e scultorea, “Due qui” (fatta di ponteggi tramutati in canne d’organo, piante di antichi giardini riadattati in percorsi verso la scoperta di sé) e dalla fontana, “Conveyance” (in cui un’onda conica non smette mai di alzarsi al centro di un cerchio di marmo) è davvero bella. L’intero padiglione lo è.

Magari è firmato da un uomo bianco occidentale, che lavora con un linguaggio tipicamente maschile e tipicamente occidentale come il minimalismo (la cui durezza è appena smussata dal buddismo e dalle filosofie orientali), che nel cuore della biennale della decolonizzazione può apparire un po’ fuori posto, ma è sicuramente un bellissimo padiglione. Uno dei più riusciti delle ultime edizioni.

Anche il carattere del temaStranieri Ovunque”, scelto dal curatore della manifestazione lagunare Adriano Pedrosa (da intendersi in più modi fino al sentirsi “stranieri a sé stessi”), è qui interpretato in maniera diversa: “(…) proponendo- hanno scritto gli organizzatori- un’ulteriore declinazione per la quale il non essere straniero deve iniziare con il non essere stranieri a se stessi”. Il titolo, infatti, partendo dalla traduzione apparentemente sbagliata, “Two here” (due qui) e To hear (sentire/udire), suggerisce come l’ascoltare, il “tendere l’orecchio”, sia già una forma di azione verso l’altro. E come le incomprensioni possano essere occasione di scoperta.

Di certo le polemiche che hanno accolto l’inaugurazione della mostra di Bartolini non lo sono.

L’Italia quest’anno viene rappresentata da un solo artista, è la seconda volta nella storia della Biennale che succede (la prima in assoluto è stata nella scorsa edizione) e a qualcuno la cosa non è piaciuta. Le altre nazioni, occidentali e non (sia che dispongano di padiglioni grandi, o che si adattino a spazi angusti), vengono rappresentate da un solista da decenni, perché è una formula vincente (chi espone è valorizzato, il pubblico capisce meglio, la stampa è più propensa a parlare dell’evento). L’unico Paese che non lo fa è la Repubblica Popolare Cinese (anche lei ha un padiglione che in genere, per quanto riguarda le arti visive, fa poco parlare di sé). Per esempio, alla 60esima Esposizione Internazionale d’Arte, nei Giardini (dove ci sono tutti i padiglioni più antichi e visitati), solo la Germania ha scelto di non veicolare il proprio messaggio attraverso una sola voce (ma due, non quattro o quaranta, a cui sono state comunque allestite mostre separate). Nelle edizioni precedenti però, pure quest’ultima, ha preferito delle personali. Insomma, questo non è un argomento che lascia spazio a pareri divergenti, come dimostrano le scelte adottate dagli altri Paesi.

Due qui / To Hear” era inoltre inadatta a queste critiche. Infatti, sebbene la firma del progetto sia quella di Bartolini, all’opera hanno partecipato anche le musiciste: Caterina Barbieri (italiana, classe 1990) e Kali Malone (statunitense, nata nel ‘94). Oltre al famoso compositore inglese, Gavin Bryars (del ’43) insieme al figlio, Yuri Bryars (nato nel ’99). Ci sono poi due testi commissionati appositamente per il progetto alla scrittrice e illustratrice per l’infanzia Nicoletta Costa (italiana, del ‘53) e al romanziere e poeta Tiziano Scarpa (italiano a sua volta ma del ‘63).

Se si accede dall’Arsenale, il Padiglione Italia, accoglie i visitatori con un minimalismo disarmante. Nella stanza c’è solo una piccola statua in bronzo di un Pensive Bodhisattva (una rappresentazione classica del Buddha, in cui il principe appare assorto e distaccato) collocata all’estremità di un lungo parallelepipedo bianco. Quest’ultimo elemento, che può alludere alla strada compiuta da Siddharta per raggiungere l’illuminazione, è in realtà una canna d’organo che attraverso un ventilatore è in grado di produrre un suono prolungato e continuo. I visitatori, però, se ne accorgono solo passandogli accanto e credono di percepire anche vibrazioni che li disorientano. Le pareti circostanti sono dipinte di verde e viola; i colori, secondo un’antica usanza, invece di costituire un abbellimento, indicano delle note musicali (in questo caso La e La bemolle)

Lo stesso tempo sospeso- ha scritto a proposito dell’opera il curatore, Luca Cerizza- suggerito dal Bodhisattva è rafforzato da questo suono prolungato, che rimanda a un tempo circolare”.

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Ma è la seconda stanza (quella centrale considerando anche il giardino) a lasciare stupiti: di fronte a sé un labirinto di pali per ponteggio in metallo che evoca una cattedrale effimera e luccicante da attraversare percorrendo stretti viottoli. I tubi però sono stati modificati uno ad uno per trasformarsi in canne d’organo (“grazie alla collaborazione di organari e tecnici specializzati”) e suonano al passaggio del pubblico, mentre le melodie composte dalle musiciste Barbieri e Malone, vengono diffuse in loop da due rulli a motorie, che funzionano come grandi carrilon. La pianta dell’installazione, in questa sala, rimanda ai giardini italiani barocchi, mentre i visitatori sono chiamati ad attivare l’opera in maniere potenzialmente infinite: “il suono di questa macchina musicale- continua Cerizza- è percepibile in modi sempre diversi a seconda dei tempi e direzioni di percorrenza dello spettatore. È il nostro movimento a ‘comporre’ parzialmente una musica sempre nuova”.

Al centro della stanza c’è una fontana in marmo (“Conveyance”). Inutile dire che si tratta di un’opera strettamente minimalista, composta da due cerchi concentrici (la vasca e la seduta da cui i visitatori possono contemplarla). L’acqua qui non si perde in giochi, si limita a un’onda conica: “Chiamata in termini scientifici ‘solitone’, è un’onda simile a quella che genera uno ‘tsunami’ ma replicata di continuo come in un esperimento di laboratorio.” A differenza di quanto si potrebbe pensare la fontana è silenziosa (è anzi il punto più propizio per ascoltare le melodie che si alzano dalla foresta di tubi) e se guardata abbastanza a lungo dovrebbe predisporre alla meditazione.

Massimo Bartolini, Due qui, 2024 12×6×50 m 50 minutes of music / 10 minutes of silence iron, cast iron, motors, electronics Music composed by: Caterina Barbieri, Kali Malone Metalwork and engineering: Yari Andrea Mazza Detailed design: Riccardo Rossi Organ builders: Massimo Drovandi, Samuele Frangioni, Samuele Maffucci Electronics: Valerio Marrucci Scaffolding assembly: Euroedile, Postioma (TV) (Alessandro Ballan, Denis Daullja, Fabiano Gregolin, Nicola Lazzari, Vasyl Ozhibko, Rinor Krasniqi, Vitali Serbin) Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Usciti da questa stanza ci si trova nel giardino. In alcuni punti del quale si attivano le melodie dei Bryars ma il pubblico può anche fermarsi ad osservare un cerchio di persone coi piedi sotterranti che cingono un albero (“Lo proteggono e lo contemplano allo stesso tempo, diventando un pubblico che custodisce”). La performance non c’è sempre ma l’installazione sonora si, e accompagna con grazia il passaggio delle persone in mezzo agli alberi secolari.

Nato nel ’62, Massimo Bartolini, che stranamente continua a vivere e lavorare a Cecina, ha una carriera di tutto rispetto alle spalle. Prima di quest’anno ha già partecipato tre volte alla Biennale di Venezia (ma mai da solista). Nel 2012, invece, è stato ospite a Documenta di Kassel. E’ anche insegnate (alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e all’Accademia di Belle Arti di Bologna).

Per concludere,Due qui / To Hear”, il Padiglione Italia di Massimo Bartolini va assolutamente visitato. Per quanto non sia la partecipazione nazionale più inerente al tema della la 60esima Esposizione Internazionale d’Arte (anzi tra i Paesi occidentali forse è una delle meno consonanti sia stilisticamente che concettualmente), è di certo una gran bella mostra. Inoltre, l’idea di permettere ai visitatori l’ingresso anche dal giardino di pertinenza dell’edificio, potrebbe permettere a qualcuno di sveltire i tempi di attesa per accedere a questa parte della Biennale di Venezia 2024.

Massimo Bartolini, Pensive Bodhisattva on A Flat, 2024 2500×32×32 cm, statue 40×9×9 cm 50 minutes of music / 10 minutes of silence wood, motor, bronze Organ builders: Massimo Drovandi, Samuele Frangioni, Samuele Maffucci Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Massimo Bartolini, Due qui, 2024 12×6×50 m 50 minutes of music / 10 minutes of silence iron, cast iron, motors, electronics Music composed by: Caterina Barbieri, Kali Malone Metalwork and engineering: Yari Andrea Mazza Detailed design: Riccardo Rossi Organ builders: Massimo Drovandi, Samuele Frangioni, Samuele Maffucci Electronics: Valerio Marrucci Scaffolding assembly: Euroedile, Postioma (TV) (Alessandro Ballan, Denis Daullja, Fabiano Gregolin, Nicola Lazzari, Vasyl Ozhibko, Rinor Krasniqi, Vitali Serbin) Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Massimo Bartolini, Due qui, 2024 12×6×50 m 50 minutes of music / 10 minutes of silence iron, cast iron, motors, electronics Music composed by: Caterina Barbieri, Kali Malone Metalwork and engineering: Yari Andrea Mazza Detailed design: Riccardo Rossi Organ builders: Massimo Drovandi, Samuele Frangioni, Samuele Maffucci Electronics: Valerio Marrucci Scaffolding assembly: Euroedile, Postioma (TV) (Alessandro Ballan, Denis Daullja, Fabiano Gregolin, Nicola Lazzari, Vasyl Ozhibko, Rinor Krasniqi, Vitali Serbin) Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Massimo Bartolini, A veces ya no puedo moverme, 2024 variable dimensions 6 boomboxes, mixer Music composed by: Gavin and Yuri Bryars Percussions: Gavin and Yuri Bryars Voices: Alessandra Fiori, Francesca Santi, Silvia Testoni Sound engineering: Louis McGuire Production assistant: Emanuele Wiltsch Barberio La Biennale di Venezia team: Paolo Zanin, Michele Braga, Dario Sevieri, Enrico Wiltsch Recorded at Cosmogram, Giudecca, Venice, February 24 and 25, 2024 Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery, and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Massimo Bartolini con l’opera Pensive Bodhisattva on A Flat (Bodhisattva pensieroso su La bemolle), 2024, all’interno del Padiglione Italia – Biennale Arte 2024 Foto © Agostino Osio per AltoPiano