Sir Michael Craig-Martin, il maestro di Damien Hirst e tutta la banda degli YBA, tra colori allegri e critiche feroci

Michael Craig-Martin, Common History: Conference, 1999. Acrylic on aluminium, 274 x 508 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Image courtesy of Gagosian

Adesso che ha 83 anni l’origine irlandese di Michael Craig-Martin, appare molto più chiara nei suoi tratti di quando frequentava la scuola d’arte negli Stati Unit; a testimonianza di quegli anni oltre oceano invece, pare conservi un accento americano che non riesce a cancellare nonostante abiti a Londra dal ’66. Ed è strano visto che il signor Craig-Martin dichiara di amare la città in cui vive. Senza contare che in Inghilterra, le sue gioiose e coloratissime immagini che effigiano oggetti della vita quotidiana hanno da tempo sfondato i muri delle gallerie d’arte per raggiungere il grande pubblico sotto forma di francobolli della Royal Mail, o borse della spesa della catena di supermercati Sainsbury's e lui è famosissimo per essere stato l’insegnate di Damien Hirst, Sarah Lucas, Gary Hume, Michael Landy e altri (cioè l’intero gruppo degli YBA, gli Young British Artists). Sull’onda del successo di quell’esperienza ha anche scritto un libro utile ad aiutare i giovani artisti a trovare la loro strada (“On Being an Artist”).

Tuttavia il suo nome non è conosciuto quanto quello di molti dei suoi ex-studenti. E questo nonostante Michael Craig-Martin sia stato nominato Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico nel 2001 e la sua attività espositiva si sia fatta più intensa e prestigiosa già da alcuni anni a questa parte. Adesso la Royal Academy of Arts gli dedica una retrospettiva che copre sessant’anni della sua carriera e dovrebbe consegnarlo alla storia dell’arte. Con 120 importanti opere ideate dagli anni'60 a oggi, tra cui sculture, installazioni, dipinti e disegni, comprende anche dei nuovi lavori concepiti per l’occasione.

In merito il signor Craig-Martin ha detto in un’intervista: “Pensavo che la possibilità di fare una mostra retrospettiva di questa portata nel Regno Unito fosse andata perduta, ma eccola qui. Difficilmente potrebbe essere più tardi, ma, in un altro modo, sta accadendo esattamente al momento giusto".

Michael Craig-Martin, An Oak Tree, 1973. Glass, water, metal and printed text on paper, 15 x 46 x 14 cm. Artist’s proof, shown with permission of the National Gallery of Australia. © Michael Craig-Martin. Image courtesy of Gagosian 

La mostra comincia dal periodo concettuale dell’artista irlandese in cui spicca “An Oak Tree” (“Una Quercia”) del 1973. Un’opera unanimamente apprezzata dalla critica e di cui, chiunque si sia interessato della storia dell’arte più recente, ha sentito parlare almeno una volta. Composta da un bicchiere d’acqua appoggiato su una mensola a parete, a cui è affiancato un testo che spiega in che modo tutto ciò è in realtà un albero (“Quello che ho fatto è trasformare un bicchiere d'acqua in una quercia adulta senza alterare gli accidenti del bicchiere d'acqua”), l’opera è stata definita dal critico britannico Jonathan Jones (che non ha l’abitudine di essere particolarmente clemente con gli artisti cui dedica una recensione): “Un incontro tra Tommaso d'Aquino e Monty Python”. Secondo lui, infatti, la questione avrebbe a che fare con la religione cattolica del signor Craig- Martin e con l’eucarestia, per spiegare la quale d’Aquino avrebbe fatto ricorso alla filosofia di Aristotele (“mentre gli ‘accidenti’- le apparenze superficiali- del pane e del vino sono immutati, l'’essenza’ si trasforma nella santa presenza del corpo di Cristo”). C’entrano poi i ready made (oggetti prelevati tali e quali dalla vita quotidiana e collocati nel museo) di Marcel Duchamp e il dipinto che rappresenta una pipa di René Magritte e che si intitola “Questa non è una pipa”. Il risultato è un lavoro affasciante, frizzante d’ironia, ma che pone questioni serie. Talmente serie che, quando “An Oak Tree” volò in Australia per una mostra al museo di Auckland, venne fermato dal dipartimento agricolo della dogana, ben deciso a non permettere a una specie vegetale non autoctona di entrare nel Paese. Qui il signor Craig-Martin fu costretto ad ammettere che, com’era evidente a tutti, il bicchiere d’acqua non era una quercia ma un bicchiere d’acqua.

Michael Craig-Martin, Untitled (corkscrew), 2014. Acrylic on aluminium, 122 x 122 cm. Private col-lection. © Michael Craig-Martin. Photo: Mike Bruce. Image courtesy of Gagosian

Non sarà su questa giovanile passione per il linguaggio concettuale, tuttavia, che si concentrerà la carriera di Michael Craig-Martin ma sorprendentemente sulla pittura: acrilici su alluminio declinati in una tavolozza splendente di gioiosi toni accesi e murales. La sua opera, infatti, effigia oggetti della vita quotidiana il più possibile attuali e duraturi (un biberon, una spilla da balia, un bicchiere take-away ecc.), disegnati con un tratto semplificato e lineare, per creare un vocabolario rassicurante di immagini onnipresenti e sottovalutate: “Pensavo- ha detto- che gli oggetti a cui diamo meno valore perché sono onnipresenti fossero in realtà i più straordinari”. Ma soprattutto per riflettere sullo spazio che separa la rappresentazione dal soggetto: “Il mio soggetto- ha spiegato- è ovvio: oggetti creati dall'uomo, cose utili. Ma non è questo il mio lavoro. Si tratta di un'esplorazione del miracolo delle immagini bidimensionali”.

Michael Craig-Martin, Untitled (painting), 2010. Acrylic on aluminium, 200 x 350 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Photo: Dave Morgan. Image courtesy of Gagosian

Nato nel 1941 a Dublino, Michael Craig-Martin, si è trasferito ancora bambino a Washington DC. Di quel periodo ha raccontato:” Sono cresciuto nell'America degli anni '50. Era l'età dell'oro dell'auto americana, con pinne e verniciatura bicolore, così glamour”. Ma il suo immaginario visivo infantile è stato segnato anche da suggestioni più antiche: "Sono cresciuto come cattolico in un mondo di immagini. In chiesa c'erano vetrate colorate e i preti indossavano abiti elaborati per la messa; c'erano accessori decorativi di ogni tipo. Era un ambiente molto visivo e mi ha incantato fin da piccolo”. In effetti i colori vivi e il cloisonne netto che separa le campiture nelle vetrate nelle chiese, restano riferimenti moto evidenti in tutta la sua opera.

Frequenta una scuola elementare cattolica gestita da suore e una scuola benedettina inglese (un sacerdote era un’artista e anche lui comincia ad interessarsi all’arte; in quel periodo in oltre vede i dipinti di MarK Rotko). Poi il padre, che era un economista della Banca Mondiale, viene trasferito in Colombia e il giovane Michael inizia il Lycée Français di Bogotà dove segue le lezioni di disegno dell’artista colombiano Antonio Roda (pure lui un riferimento importante per la sua formazione). Nel ’59 è di nuovo negli Stati Uniti e si iscrive alla Fordham University di New York, comincia a dipingere e l’estate del ’61 la trascorre alla Académie de la Grande Chaumière di Parigi (come tutti gli aspiranti artisti dell’epoca). Nell’autunno dello stesso anno, Craig-Martin, frequenterà il corso di pittura della prestigiosa Yale University, insieme a lui Richard Serra e altri giovani che si sarebbero affermati negli anni immediatamente successivi. Lui dovrà aspettare più a lungo.

Nel frattempo le teorie minimaliste e processuali di uno degli insegnanti, Josef Albers (uno dei nomi più noti del movimento Bauhaus) lasciano il segno (a dire il vero non solo su di lui: il cambiamento culturale era già in atto, la pittura cominciava a sembrare obsoleta).

Pur avendo sempre trovato Washington provinciale, il Signor Craig Martin sarebbe rimasto oltre oceano se avesse visto la possibilità di fare qualcosa di ben remunerato negli Stati Uniti, ma non crede ci siano chance e si trasferisce a Londra (lì insegnerà fino all’88). Durante il periodo di Yale si era sposato e aveva avuto una figlia ma nel ’76 si dichiara apertamente gay. Il suo lavoro, tuttavia, non viene influenzato più di tanto da questi scombussolamenti della vita privata.

Michael Craig-Martin, Untitled (papercup), 2014. Acrylic on aluminium, 122 x 122 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Photo: Mike Bruce. Image courtesy of Gagosian

Passato il periodo concettuale l’artista irlandese comincia a riprodurre oggetti della quotidianità, più spesso sui muri, ma con il nastro adesivo e senza nessun colore. Per vedere il suo stile definitivo dovremo aspettare gli anni 90 quando lui era intorno alla cinquantina d’anni. Da allora grandi formati, linee nere che delimitano in maniera semplice e lineare i disegni, grandi campiture di colori accesi che non hanno niente a che vedere con quelli del soggetto originale (dice di usarli per suggerire la consistenza delle varie parti). Fa ancora enormi opere murarie ma più spesso dipinge con rulli intrisi di vernici industriali su alluminio. Nel tempo, tuttavia, il suo vocabolario di oggetti d’uso quotidiano si è modificato, e le forme costose ma onnipresenti degli smartphone o dei computer portatili meno ingombranti, hanno fatto la loro comparsa.

Oggi la sua opera è considerata un momento di sintesi tra Pop Art, Minimalismo e Arte Concettuale (anche se a lui, per qualche motivo, non piace chiamarla così). Ed è piacevole, davvero piacevole da vedere. Ma questo non lo ha protetto dalle recensioni feroci (anche in occasione di quest’ultima importate mostra i critici inglesi si sono sbizzarriti), tanto che una volta il curatore britannico Brian Sewell si è spinto a dire: “Come artista Craig-Martin merita solo derisione”. Il signor Craig-Martin ha così commentato la questione in un’intervista: “Quando una persona molto istruita si imbatte in un'arte che le sfugge, ne è così sconvolta che deve liquidarla come fraudolenta o falsa”.

La retrospettiva di Michael Craig-Martin alla Royal Academy of Arts di Londra, curata dal segretario e amministratore delegato del museo Axel Rüger, con le curatrici assistenti Sylvie Broussine e e Colm Guo-Lin Peare, si chiuderà il 10 dicembre 2024.

Michael Craig-Martin, Eye of the Storm, 2003. Acrylic on canvas, 335.3 x 279.4 cm. Collection Irish Museum of Modern Art, Purchase, 2005. © Michael Craig-Martin. Photo: Prudence Cuming Associates Ltd. Image courtesy of Gagosian

Michael Craig Martin, Untitled (four laptops blue), 2024. Acrylic on aluminium, 250 x 240, Gagosian, London. © Michael Craig-Martin. Photo: Lucy Dawkins. Image courtesy of Gagosian

Michael Craig Martin, Sea Food, 1984. Steel rod and oil paint on aluminium, 228.6 x 172.7, Waddington Custot, London. © Michael Craig-Martin

Biennale di Venezia| Con 7 milioni di perline Kapwani Kiwanga ha trasformato il Padiglione Canada

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Non è necessario tardare più di tanto per trovare la fila davanti a “Trinket” (cioè “Paccottiglia”) la mostra della franco- canadese Kapwani Kiwanga che quest’anno rappresenta il suo paese natale (il Canada) alla 60esima Esposizione Internazionale d’Arte. Di solito sono le video installazioni a rallentare il flusso di visitatori alla Biennale di Venezia ma il padiglione canadese è luminoso e silenziosissimo, di film nemmeno l’ombra. Se ci si avvicina abbastanza tuttavia, si può cogliere un lieve rumore, simile a un tintinnio che si perde immediatamente nel canto degli uccelli, tra le chiacchiere e i passi sulla ghiaia dei visitatori, nel movimento delle fronde degli alberi dei Giardini. Sono perline, migliaia e migliaia di perline di vetro, infilate a mano, una ad una, ed appese a comporre monumentali tendaggi sia all’interno che all’esterno del padiglione. Per questo possono entrare solo poche persone alla volta: per non fare danni. Certo però che è bello il Padiglione Canada, simile a una scultura e così diverso dal solito, rivestito com’è di colori intensi e cangianti allo stesso tempo, che tremolano nella luce intensa dell’estate. E che invece, quando osservati da certi punti di vista, scompaiono all’improvviso.

Kiwanga, nata ad Hamilton nel ’78 e cresciuta nella vicina Brantford (entrambe le città sono in Ontario) dove ha studiato antropologia e religione comparata, ha origini tanzaniane e adesso vive a Parigi (qui si è anche laureata in Storia dell’Arte). In seguito ha vinto numerosi premi tra cui il prestigioso Prix Marcel Duchamp (è un riconoscimento francese, che le ha fruttato 35mila euro per l’installazione “Flowers of Africa” al Centre Pompidou di Parigi). Con grazia e logica ineccepibile, parla spesso di questioni legate al colonialismo e in passato ha affermato di aver maturato la prospettiva sull’argomento nel suo periodo a Brantford (la città si trova nell'Haldimand Tract nei territori tradizionali dei popoli indigeni Anishinaabe e Haudenosaunee) in un mix di consapevolezza afro-canadese e di vicinanza alla gente delle Prime Nazioni. Ma sull’opera di Kiwanga ha influito soprattutto il punto di vista dell’antropologa oltre a una propensione del tutto personale per i particolari estetici minuscoli e per le storie trascurate.

Kapwani Kiwanga: Trinket” parla del confine spesso labile che separa il valore di un oggetto dal suo costo, di come cambi a seconda del luogo in cui si svolge la transazione, del periodo storico, delle mode e di una marea di altri micro-fattori. Ma soprattutto degli effetti imprevedibili che uno scambio apparentemente innocuo può avere sui popoli nel lungo periodo, del sistema di potere che può contribuire ad instaurare e di come il significato dell’oggetto possa cambiare radicalmente passando di mano in mano. Un progetto che mette in gioco le competenze scientifiche di Kiwanga (storia, antropologia, economia), in aggiunta alla sua abilità artistica.

Al centro dell’opera ci sono le perline di conteria o margheritine o più spesso, semplicemente, perline veneziane, che dalla Serenissima si diffusero in tutto il mondo tra il 1400 e la prima metà del ‘900. Le minuscole perle erano uno dei pochi prodotti derivati dalla lavorazione del vetro a non venire esclusivamente dall’isola di Murano (dove per decreto già dal 1291 si concentrava l’industria dell’epoca) ma dalla città di Venezia in generale, dove le piccole fornaci necessarie per la fusione non arrecavano danno. Di lì erano poi esportate nelle Americhe, nell’Africa occidentale e in India (nel 2005 in Alaska sono stati persino ritrovati i resti di un paio di orecchini di perline, risalenti a qualche decennio prima della scoperta dell’America).

Il valore di queste sfere lucenti cambiava drasticamente a seconda della provenienza degli attori (gli europei attribuivano loro scarsa considerazione, mentre, ad esempio, gli africani per cui nel tempo sono diventate irrinunciabili, avevano valore scaramantico) e, è inutile dire, che gli affari che si fecero in quel periodo furono tutt’altro che etici. All’inizio furono i veneziani ad arricchirsi, mentre tra l’800 e la prima metà dell’900 a vendere le perline alle colonie furono soprattutto compagnie straniere con uffici in laguna. In Africa, il loro impatto fu inimmaginabile: si creò una vera e propria interdipendenza verso chi le produceva e vendeva, tanto piacevano i colori vivaci del tutto assenti nei monili tradizionali da diventare parte della dote delle spose. Si indossavano poi nelle feste della comunità, nei matrimoni e nei funerali (in ogni occasione delle perline diverse) e le più ricercate (quelle multicolore, le rosetta) potevano essere portate solo dalle massime autorità. Con queste ultime si potevano comprare schiavi, attraversare territori proibiti e godere di molti altri benefici. Del resto nei paesi africani, fino a poche decine di anni fa, le perline avevano il valore di una moneta ufficiale.

Questa storia, suggerita dalla cangiante bellezza dei drappi di perline che modificano quasi radicalmente la struttura architettonica del poco esteso padiglione (il Canada è il più piccolo ai Giardini), Kiwanga ce la racconta completamente all’interno, dove altri tendaggi colorati e tintinnanti nascondono le pareti e incontrano sculture fatte coi materiali con cui le sferette di vetro venivano scambiate (oltre all’oro anche rame, pigmenti del legno brasiliano di Pernambuco e olio di palma ricercatissimo e usato per lubrificare i macchinari durante la rivoluzione industriale), che e, a loro volta, incorporano complessi motivi di perline realizzati da artigiani dello Zimbabwe e canadesi.

"A volte- ha detto in un’intervista- faccio riferimento alla storia e all'importanza socio-politica di un particolare materiale. E poi quello che cerco di fare è riassemblarlo o ricontestualizzarlo in modo che lo sperimentiamo in un modo diverso".

Kiwanga, che nella sua pratica affianca minimalismo e colore, qui tratta lo spazio architettonico come parte integrante dell’installazione: a pieno titolo scultura tra le sculture. Per rendere più morbido lo spazio e omogeneo il rapporto tra le sculture, i drappi e le pareti l’artista ha sostituito il pavimento del padiglione. La nuova pavimentazione per la maggior parte è in semplice resina bianca, interrotta da forme ondulate, colorate con la tinta bruno-rossastra del legno di Pernambuco, foglia d'oro e metallo scintillante che a momenti sale fin in cima alle pareti. La luce che filtra dalle ampie vetrate gioca con gli elementi che compongono l’opera, rendendola quasi un organismo vivente.

Tra le perline più ricercate c’erano quelle blu cobalto che formano il tendaggio esterno. L’opera si chiama “Impiraresse (Blu)” dal nome con cui venivano chiamate le donne che le infilavano, cui rende omaggio. Perché per quanto il commercio delle perline fosse esclusivamente maschile, alle donne veniva affidato questo alienante e poco redditizio compito.

Kiwanga ha preso parte anche alla Biennale di Venezia 2022, invitata da Cecilia Alemani a esporre a “Il Latte dei Sogni”. In quell’occasione ha creato un ambiente riscaldato dai colori del deserto al tramonto, circoscritto da grandi dipinti semitrasparenti, che al centro poneva sculture in vetro riempite di sabbia (per quanto quest’ultima sia un materiale organico è infatti utilizzata in Texas nel fracking, cioè nell’estrazione di petrolio e gas). Ha poi spesso scelto colori utilizzati per controllare lo stato d’animo e il movimento delle persone negli uffici, nei reparti psichiatrici e nelle prigioni (qui, ad esempio, si sceglieva un tono di rosa sperando di rendere più mansueti i detenuti).

La sua pratica- ha detto la curatrice della mostra, Gaëtane Verna- si basa sulla ricerca approfondita di ciò che a prima vista potrebbe sembrare un insieme di semplici questioni di narrative storiche, ma che vengono poi abilmente utilizzate per esaminare il modo in cui le nostre società sono state costruite tramite un’architettura sociale e culturale, l’imposizione di leggi, il commercio e altre forme di scambio. Per Kiwanga, i materiali sono le tracce di incontri umani che portano alla creazione di nuove opere”.

Kapwani Kiwanga: Trinket” il Padiglione Canada, con la National Gallery of Canada (NGC) come commissario e curato da Gaëtane Verna, si potrà visitare per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024 (fino al 24 novembre). Kapwani Kiwanga è la prima artista donna nera a rappresentare il paese alla manifestazione lagunare.

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Impiraresse (Blue), 2024 cobalt glass beads, nylon-coated metal wire, metal components dimensions variable Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer II (Metal, breath, beads) and Transfer IV (Metal, wood, breath, beads), 2024 bronze, blown glass, glass beads; bronze, palladium leaf, wood, blown glass, glass beads 160 × 120 × 32 cm; 164 × 100 × 70 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer III (Metal, wood, beads), 2024 wood, Pernambuco pigment, copper, glass beads 160 × 100 × 66 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer II (Metal, breath, beads), 2024 bronze, blown glass, glass beads 160 × 120 × 32 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Impiraresse (Blue), 2024 cobalt glass beads, nylon-coated metal wire, metal components dimensions variable Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Portrait of Kapwani Kiwanga, 2024  Photo: Angela Scamarcio

Le storie postcoloniali di Mohamed Bourouissa che passano per un giardino di mimose rap al Palais de Tokyo

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Quando nel 2005, Mohamed Bourouissa, si è imposto nel panorama internazionale con la serie fotografica “Périphérique” in cui ambientava nelle banlieue parigine contemporanee scene iconiche della pittura storica francese (più spesso quella di Delacroix), nessuno immaginava che nel tempo il suo lavoro si sarebbe fatto così ramificato. Sempre in bilico tra il trauma e la cura, Bourouissa, attualmente protagonista dell’importante retrospettiva “Signal” al Palais de Tokyo di Parigi, parla di razzismo, migrazioni, confinamento e postcolonialismo, con uno spirito errante e, tutto sommato, più attento alle dinamiche interiori che a quelle sociali e politiche.

Non che a Bourouissa, nato nel ’78 a Blida (nel nord dell’Algeria) ed emigrato in Francia insieme alla madre quando aveva appena cinque anni, queste ultime non interessino. Lui nelle banlieue c’è cresciuto. Ma non è un uomo superficiale, gli piace guardare le cose da più punti di vista, come si evince dalla sua opera che si dirama in direzioni sempre diverse (senza perdere mai il centro però). E poi i sentimenti raggiungono più in fretta il nocciolo della questione, e nell’artista franco-algerino c’è anche un lato pratico, che vuole catturare lo spettatore subito, senza tergiversare.

E di certo ci riesce con “Brutal Family Roots”. Realizzata nel 2020 per la Biennale di Sidney e riproposta anche quest’anno a Parigi, un’opera che in genere presenta su un pavimento giallo dorato come i fiori della mimosa che ne è l’elemento ispiratore e il vero e proprio soggetto. Bourouissa, infatti, quando ha pensato questa installazione era appena venuto a sapere che la pianta, il cui profumo e aspetto gli richiamava alla mente lontani frammenti della sua infanzia mediorientale, era in realtà originaria dell’Australia dove gli indigeni Wiradjuri la chiamano garal. Lui che ha un debole per le piante e le storie della loro diffusione ci ha visto la prova lampante degli equilibri frantumati dal colonialismo. Tempo fa ha detto: “(…) vediamo le piante come oggetti piuttosto che come soggetti, ‘Brutal Family Roots’, esamina il modo in cui dividiamo in categorie esseri umani, piante e animali”. Così ha trovato il modo per dare voce alle mimose sdradicate dalla loro terra natia su navi inadatte a trasportarle: ha messo in musica le frequenze che emettono. Anche il rap si è spostato per il mondo, spesso mettendo radici in comunità disagiate. “Brutal Family Roots” unisce queste due storie in un mix composto dalle melodie emesse dalle piante e i testi dei rapper che parlano di vento e acqua.

Nello stesso anno, Bourouissa, si è inventato anche un’opera esclusivamente sonora: “HARa!!!!!!hAaaRAAAAA!!!!!hHAaA!!!” Uno strano grido che si ispira al termine ‘hara’ usato a Marsiglia per avvisare gli spacciatori dell’arrivo della polizia. L’opera l’ha spiegata così: “È una forma di segnale, come un allarme. Senza il contesto può significare qualcos'altro: per me questo lo rende più simile all'Urlo di Edvard Munch, ad esempio, o al primo pianto di un bambino, o al segnale di allarme quando qualcuno tenta di entrare in casa tua. È qualcosa di molto semplice, qualcosa di forte.”

Anni prima, invece, l’artista era stato in Algeria dove aveva avuto modo di conoscere, Bourlem Mohamed, paziente psichiatrico dell’ospedale di Blida del medico e filosofo politico radicale, Franz Fanon (scomparso nel ’61, tra le altre cose si interessò di psicopatologia della colonizzazione e sostenne la lotta per l’indipendenza dell’Algeria). Bourlem si occupava di un giardino che aveva creato da solo e che, secondo Bourouissa, era una proiezione della sua mente. L’artista con Bourlem Mohamed ha fatto un film (“The Whispering of Ghosts”) e ispirandosi a quanto appreso da quest’ultimo, in molte sue mostre costruisce un giardino (ce n’è uno anche a Parigi).

Ma Mohamed Bourouissa è anche scultore (per esempio, ha ideato una serie che ritrae solo il tocco di un corpo da parte di una mano, facendo riferimento alle dinamiche dell’arresto e della prevaricazione), acquarellista (dipinge carte coloratissime e crede siano un modo per esprimere pensieri inconsci), oltre che esperto fotografo e regista (anche teatrale).

Un’altra sua opera che non si può non citare è il progetto “Horse Day”. Quando è rimasto un anno a Filadelfia, per far emergere e raccontare le antiche radici della cultura ippica di una comunità afroamericana del luogo.

Tutti questi lavori sono parte di “Signal”, mostra pensata non in modo cronologico, ma come un paesaggio da attraversare.

La retrospettiva di Mohamed Bourouissa rimarrà al Palais de Tokyo di Parigi fino al 30 giugno 2024.

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024