Sir Michael Craig-Martin, il maestro di Damien Hirst e tutta la banda degli YBA, tra colori allegri e critiche feroci

Michael Craig-Martin, Common History: Conference, 1999. Acrylic on aluminium, 274 x 508 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Image courtesy of Gagosian

Adesso che ha 83 anni l’origine irlandese di Michael Craig-Martin, appare molto più chiara nei suoi tratti di quando frequentava la scuola d’arte negli Stati Unit; a testimonianza di quegli anni oltre oceano invece, pare conservi un accento americano che non riesce a cancellare nonostante abiti a Londra dal ’66. Ed è strano visto che il signor Craig-Martin dichiara di amare la città in cui vive. Senza contare che in Inghilterra, le sue gioiose e coloratissime immagini che effigiano oggetti della vita quotidiana hanno da tempo sfondato i muri delle gallerie d’arte per raggiungere il grande pubblico sotto forma di francobolli della Royal Mail, o borse della spesa della catena di supermercati Sainsbury's e lui è famosissimo per essere stato l’insegnate di Damien Hirst, Sarah Lucas, Gary Hume, Michael Landy e altri (cioè l’intero gruppo degli YBA, gli Young British Artists). Sull’onda del successo di quell’esperienza ha anche scritto un libro utile ad aiutare i giovani artisti a trovare la loro strada (“On Being an Artist”).

Tuttavia il suo nome non è conosciuto quanto quello di molti dei suoi ex-studenti. E questo nonostante Michael Craig-Martin sia stato nominato Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico nel 2001 e la sua attività espositiva si sia fatta più intensa e prestigiosa già da alcuni anni a questa parte. Adesso la Royal Academy of Arts gli dedica una retrospettiva che copre sessant’anni della sua carriera e dovrebbe consegnarlo alla storia dell’arte. Con 120 importanti opere ideate dagli anni'60 a oggi, tra cui sculture, installazioni, dipinti e disegni, comprende anche dei nuovi lavori concepiti per l’occasione.

In merito il signor Craig-Martin ha detto in un’intervista: “Pensavo che la possibilità di fare una mostra retrospettiva di questa portata nel Regno Unito fosse andata perduta, ma eccola qui. Difficilmente potrebbe essere più tardi, ma, in un altro modo, sta accadendo esattamente al momento giusto".

Michael Craig-Martin, An Oak Tree, 1973. Glass, water, metal and printed text on paper, 15 x 46 x 14 cm. Artist’s proof, shown with permission of the National Gallery of Australia. © Michael Craig-Martin. Image courtesy of Gagosian 

La mostra comincia dal periodo concettuale dell’artista irlandese in cui spicca “An Oak Tree” (“Una Quercia”) del 1973. Un’opera unanimamente apprezzata dalla critica e di cui, chiunque si sia interessato della storia dell’arte più recente, ha sentito parlare almeno una volta. Composta da un bicchiere d’acqua appoggiato su una mensola a parete, a cui è affiancato un testo che spiega in che modo tutto ciò è in realtà un albero (“Quello che ho fatto è trasformare un bicchiere d'acqua in una quercia adulta senza alterare gli accidenti del bicchiere d'acqua”), l’opera è stata definita dal critico britannico Jonathan Jones (che non ha l’abitudine di essere particolarmente clemente con gli artisti cui dedica una recensione): “Un incontro tra Tommaso d'Aquino e Monty Python”. Secondo lui, infatti, la questione avrebbe a che fare con la religione cattolica del signor Craig- Martin e con l’eucarestia, per spiegare la quale d’Aquino avrebbe fatto ricorso alla filosofia di Aristotele (“mentre gli ‘accidenti’- le apparenze superficiali- del pane e del vino sono immutati, l'’essenza’ si trasforma nella santa presenza del corpo di Cristo”). C’entrano poi i ready made (oggetti prelevati tali e quali dalla vita quotidiana e collocati nel museo) di Marcel Duchamp e il dipinto che rappresenta una pipa di René Magritte e che si intitola “Questa non è una pipa”. Il risultato è un lavoro affasciante, frizzante d’ironia, ma che pone questioni serie. Talmente serie che, quando “An Oak Tree” volò in Australia per una mostra al museo di Auckland, venne fermato dal dipartimento agricolo della dogana, ben deciso a non permettere a una specie vegetale non autoctona di entrare nel Paese. Qui il signor Craig-Martin fu costretto ad ammettere che, com’era evidente a tutti, il bicchiere d’acqua non era una quercia ma un bicchiere d’acqua.

Michael Craig-Martin, Untitled (corkscrew), 2014. Acrylic on aluminium, 122 x 122 cm. Private col-lection. © Michael Craig-Martin. Photo: Mike Bruce. Image courtesy of Gagosian

Non sarà su questa giovanile passione per il linguaggio concettuale, tuttavia, che si concentrerà la carriera di Michael Craig-Martin ma sorprendentemente sulla pittura: acrilici su alluminio declinati in una tavolozza splendente di gioiosi toni accesi e murales. La sua opera, infatti, effigia oggetti della vita quotidiana il più possibile attuali e duraturi (un biberon, una spilla da balia, un bicchiere take-away ecc.), disegnati con un tratto semplificato e lineare, per creare un vocabolario rassicurante di immagini onnipresenti e sottovalutate: “Pensavo- ha detto- che gli oggetti a cui diamo meno valore perché sono onnipresenti fossero in realtà i più straordinari”. Ma soprattutto per riflettere sullo spazio che separa la rappresentazione dal soggetto: “Il mio soggetto- ha spiegato- è ovvio: oggetti creati dall'uomo, cose utili. Ma non è questo il mio lavoro. Si tratta di un'esplorazione del miracolo delle immagini bidimensionali”.

Michael Craig-Martin, Untitled (painting), 2010. Acrylic on aluminium, 200 x 350 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Photo: Dave Morgan. Image courtesy of Gagosian

Nato nel 1941 a Dublino, Michael Craig-Martin, si è trasferito ancora bambino a Washington DC. Di quel periodo ha raccontato:” Sono cresciuto nell'America degli anni '50. Era l'età dell'oro dell'auto americana, con pinne e verniciatura bicolore, così glamour”. Ma il suo immaginario visivo infantile è stato segnato anche da suggestioni più antiche: "Sono cresciuto come cattolico in un mondo di immagini. In chiesa c'erano vetrate colorate e i preti indossavano abiti elaborati per la messa; c'erano accessori decorativi di ogni tipo. Era un ambiente molto visivo e mi ha incantato fin da piccolo”. In effetti i colori vivi e il cloisonne netto che separa le campiture nelle vetrate nelle chiese, restano riferimenti moto evidenti in tutta la sua opera.

Frequenta una scuola elementare cattolica gestita da suore e una scuola benedettina inglese (un sacerdote era un’artista e anche lui comincia ad interessarsi all’arte; in quel periodo in oltre vede i dipinti di MarK Rotko). Poi il padre, che era un economista della Banca Mondiale, viene trasferito in Colombia e il giovane Michael inizia il Lycée Français di Bogotà dove segue le lezioni di disegno dell’artista colombiano Antonio Roda (pure lui un riferimento importante per la sua formazione). Nel ’59 è di nuovo negli Stati Uniti e si iscrive alla Fordham University di New York, comincia a dipingere e l’estate del ’61 la trascorre alla Académie de la Grande Chaumière di Parigi (come tutti gli aspiranti artisti dell’epoca). Nell’autunno dello stesso anno, Craig-Martin, frequenterà il corso di pittura della prestigiosa Yale University, insieme a lui Richard Serra e altri giovani che si sarebbero affermati negli anni immediatamente successivi. Lui dovrà aspettare più a lungo.

Nel frattempo le teorie minimaliste e processuali di uno degli insegnanti, Josef Albers (uno dei nomi più noti del movimento Bauhaus) lasciano il segno (a dire il vero non solo su di lui: il cambiamento culturale era già in atto, la pittura cominciava a sembrare obsoleta).

Pur avendo sempre trovato Washington provinciale, il Signor Craig Martin sarebbe rimasto oltre oceano se avesse visto la possibilità di fare qualcosa di ben remunerato negli Stati Uniti, ma non crede ci siano chance e si trasferisce a Londra (lì insegnerà fino all’88). Durante il periodo di Yale si era sposato e aveva avuto una figlia ma nel ’76 si dichiara apertamente gay. Il suo lavoro, tuttavia, non viene influenzato più di tanto da questi scombussolamenti della vita privata.

Michael Craig-Martin, Untitled (papercup), 2014. Acrylic on aluminium, 122 x 122 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Photo: Mike Bruce. Image courtesy of Gagosian

Passato il periodo concettuale l’artista irlandese comincia a riprodurre oggetti della quotidianità, più spesso sui muri, ma con il nastro adesivo e senza nessun colore. Per vedere il suo stile definitivo dovremo aspettare gli anni 90 quando lui era intorno alla cinquantina d’anni. Da allora grandi formati, linee nere che delimitano in maniera semplice e lineare i disegni, grandi campiture di colori accesi che non hanno niente a che vedere con quelli del soggetto originale (dice di usarli per suggerire la consistenza delle varie parti). Fa ancora enormi opere murarie ma più spesso dipinge con rulli intrisi di vernici industriali su alluminio. Nel tempo, tuttavia, il suo vocabolario di oggetti d’uso quotidiano si è modificato, e le forme costose ma onnipresenti degli smartphone o dei computer portatili meno ingombranti, hanno fatto la loro comparsa.

Oggi la sua opera è considerata un momento di sintesi tra Pop Art, Minimalismo e Arte Concettuale (anche se a lui, per qualche motivo, non piace chiamarla così). Ed è piacevole, davvero piacevole da vedere. Ma questo non lo ha protetto dalle recensioni feroci (anche in occasione di quest’ultima importate mostra i critici inglesi si sono sbizzarriti), tanto che una volta il curatore britannico Brian Sewell si è spinto a dire: “Come artista Craig-Martin merita solo derisione”. Il signor Craig-Martin ha così commentato la questione in un’intervista: “Quando una persona molto istruita si imbatte in un'arte che le sfugge, ne è così sconvolta che deve liquidarla come fraudolenta o falsa”.

La retrospettiva di Michael Craig-Martin alla Royal Academy of Arts di Londra, curata dal segretario e amministratore delegato del museo Axel Rüger, con le curatrici assistenti Sylvie Broussine e e Colm Guo-Lin Peare, si chiuderà il 10 dicembre 2024.

Michael Craig-Martin, Eye of the Storm, 2003. Acrylic on canvas, 335.3 x 279.4 cm. Collection Irish Museum of Modern Art, Purchase, 2005. © Michael Craig-Martin. Photo: Prudence Cuming Associates Ltd. Image courtesy of Gagosian

Michael Craig Martin, Untitled (four laptops blue), 2024. Acrylic on aluminium, 250 x 240, Gagosian, London. © Michael Craig-Martin. Photo: Lucy Dawkins. Image courtesy of Gagosian

Michael Craig Martin, Sea Food, 1984. Steel rod and oil paint on aluminium, 228.6 x 172.7, Waddington Custot, London. © Michael Craig-Martin

Da ottobre al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, James Lee Byars, il minimalista che amava l’oro

James Lee Byars Red Angel of Marseille, 1993 Vetro rosso, 1000 parti Ciascuna: ⌀ 11 cm Totale: 1100 x 900 x 11 cm FNAC 99316 Centre National des Arts Plastiques In deposito presso Centre Pompidou, Parigi Veduta dell’installazione, IVAM, Instituto Valenciano de Arte Moderno, 1995 © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra

Scomparso nel ’97, durante un viaggio in Egitto, per un tumore allo stomaco che lo affliggeva da tempo, l’artista James Lee Byars, fondeva elementi della cultura orientale ed occidentale, in un’opera capace di fare tesoro del paradosso, mentre indagava la tensione dell’uomo verso l’irraggiungibile perfezione. Usava materiali preziosi, o almeno che potessero apparire tali, e li sposava a forme minimali. Il suo lavoro era pieno di simboli, un po’ esoterici e un po’materialisti, un po’ universali e un po’ personali (anche se, forse, la sfera e l’oro, sono quelli più noti) Performer, scultore e artista concettuale, aveva fatto di sé stesso un personaggio, che è stato descritto come "mezzo imbroglione e mezzo veggente minimalista”. Che sia proprio per questo o nonostante questo, Byars, è ricordato ancora adesso con affetto da un’ampia schiera di persone che hanno avuto occasione di conoscerlo e magari di ricevere le sue lettere (ne scriveva moltissime, a critici, altri artisti e amici in genere, le decorava, ritagliava e, a volte, ripiegava come origami; oggi sono considerate una parte fondamentale del suo lavoro). Tra loro anche l’attuale direttore del Pirelli Hangar Bicocca, Vicente Todoli, che a ottobre ospiterà una sua mostra.

L’esposizione “Nasce anche-spiegano - dalla stretta relazione instaurata tra Vicente Todolí e James Lee Byars, al quale il curatore ha dedicato due mostre personali all’IVAM Centre del Carme di Valencia nel 1994 e al Museu Serralves di Porto nel 1997, dei quali in passato è stato anche direttore”.

Organizzata in collaborazione con il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid e con il supporto dell’Estate di James Lee Byars, la mostra al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, è la prima retrospettiva dedicata a Byars, in Italia, dalla sua scomparsa. Raccoglierà una vasta selezione di opere scultoree e installazioni monumentali (realizzate dal 1974 al 1997), perché ha un focus particolare sui lavori più grandi e i materiali più preziosi maneggiati dall’artista americano (come marmo, velluto, seta, foglia d’oro e cristallo). Le opere scelte, proverranno tutte da collezioni museali internazionali, alcune raramente esposte, verranno presentate in Italia per la prima volta.

Concepiamo sempre retrospettive site-specific- ha detto Vicente Todoli- che dialogano con l’architettura di Pirelli HangarBicocca. Nella sua pratica James Lee Byars era solito adattare il suo corpus di opere allo spazio in cui veniva esposto, creando così una mostra che fosse essa stessa un'installazione complessiva. Pertanto, la nostra selezione di opere interagisce con l'ambiente ex industriale delle Navate, sfidandoci a interpretare lo spazio secondo l'approccio concettuale dell'artista”.

Nato negli Stati Uniti nel ’32, James Lee Byars, è stato un artista minimalista e barocco. Capace di conciliare l’opulenza dell’oro, di cui faceva uso largo e costante (se il budget non gli permetteva materiali più nobili, si accontentava di colori industriali pur di non rinunciarvi) con forme pure ricorrenti come il cerchio, la sfera, il cilindro ecc. Tutto comunque, era scelto per rientrare in un suo personale culto esoterico in cui elementi rituali e simboli evocativi si sostengono. A Venezia, in occasione dell’installazione della sua opera “Golden Tower”, il curatore Alberto Salvadori, ha detto a proposito dell’oro: “lo splendore dell'oro allude al simbolo del sole ma diventa anche simbolo di illuminazione interiore, di conoscenza intellettuale ed esperienza spirituale, concetto di divinità”. Allo stesso modo, la sfera, era un compendio di infiniti riferimenti cosmologici e religiosi, in cui lo spettatore è invitato a perdersi, come un monaco durante un esercizio di meditazione. Non è chiaro se lo stato quasi d’ipnosi di chi guarda o l’opera in sé fosse per Byars più vicina alla perfezione.

Perfezione, un’irraggiungibile chimera quest’ultima, che era così importante nell’universo di Byars che gli dedicò più di un pensiero nei suoi ultimi giorni di vita, o almeno così ha raccontato il critico statunitense Thomas McEvilley, a cui l’artista avrebbe urlato, spazientito, (sfiorando il minuscolo punto di saldatura tra le due metà di una sfera dorata su cui stava lavorando): "Tom, perché non possiamo fare niente perfetto!?" Del resto Byars non avrebbe smesso di lavorare fino all’ultimo, arrivando a rappresentare la propria morte durante la malattia.

Nel corso della sua vita, comunque, il momento di svolta della carriera, per lui, laureato in filosofia, era arrivato nel 1958 quando era partito per Kyoto (dove avrebbe vissuto qualche anno). Sia alcuni aspetti del teatro Noh che del rituale shintoista gli rimarranno in testa ed influenzeranno profondamente la sua opera. Che ad ogni modo avrà forme varie (userà molti medium diversi) e sarà consistente nonostante la prematura scomparsa dell’artista.

Dopo la permanenza in Giappone Byars condurrà un’esistenza errante, vivendo in varie città europee e statunitensi. Tra loro Venezia, che Byars amerà perché simbolo dei rapporti tra Oriente e Occidente oltre che per la sua bellezza a tratti sontuosa.

La mostra su James Lee Byars al Pirelli Hangar Bicocca di Milano si inaugurerà il 12 ottobre 2023. Una versione dello stesso progetto espositivo aprirà invece il 25 aprile 2024 al Palacio de Velázquez di Madrid.

James Lee Byars The Capital of the Golden Tower, 1991 Acciaio inossidabile dorato, legno dipinto 125 x 250 x 250 cm © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra  Foto Roman März

James Lee Byars The Diamond Floor, 1995 Cristalli di vetro 5 parti, ciascuna: 10 x 18 x 18 cm © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra

James Lee Byars The Tomb of James Lee Byars, 1986 Arenaria bernese ⌀100 cm Veduta dell’installazione, IVAM, Instituto Valenciano de Arte Moderno, 1995 © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra

James Lee Byars, The Golden Tower, 1990 Acciaio dorato 2000 x 250 x 250 cm Veduta dell’installazione, Campo San Vio, Venezia, 2017 © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra Foto Richard Ivey

James Lee Byars The Spinning Oracle of Delfi, 1986 Anfora dorata  195 x 195 x 320 cm © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra © The Estate of Lothar Schnepf

James Lee Byars The Moon Books, 1989 Marmo dorato in sedici parti, legno dorato 107 x 500 x 500 cm Veduta dell’installazione, Musée d’Art Moderne de Paris Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Torino, 1989 © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra © The Estate of Lothar Schnepf

James Lee Byars The Door of Innocence, 1986 Marmo dorato 198 x 198 x 27 cm The Figure of Question is in the Room, 1986 Marmo dorato 162 x 27 x 27 cm Toyota Municipal Museum of Art, Aichi Veduta dell’installazione, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Torino, 1989 © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra © The Estate of Lothar Schnepf

James Lee Byars The Chair of Transformation, 1989 Sedia del XVII secolo, tenda in seta rossa Sedia: 102 x 89 x 87 cm Tenda: 300 x 300 x 300 cm Veduta dell’installazione, Fundação de Serralves, Porto, 1997 © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra © The Estate of Lothar Schnepf

James Lee Byars, The Golden Tower, 1990 Acciaio dorato 2000 x 250 x 250 cm Veduta dell’installazione, Martin Gropius-Bau, Berlino, 1990 © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra Foto courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra

James Lee Byars The Unicorn Horn, 1984 Seta, corno di narvalo Corno: 20.5 x 237 cm Totale: 300 x 120 x 110 cm Veduta dell’installazione, James Lee Byars, The Palace of Perfect, Kewenig Gallery, Berlino, 2019 © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra Foto Stefan Müller

James Lee Byars Ritratto, 1994 © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra © The Estate of Lothar Schnepf

L’opera minimale ed aggraziata di Ann Veronica Janssens capace di mettere in evidenza gli animi indomiti e le inclinazioni romantiche

Ann Veronica Janssens “Grand Bal”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2023 © 2023 Ann Veronica Janssens / SIAE Foto Andrea Rossetti Courtesy the artist/ l’artista, Alfonso Artiaco, Napoli; Bortolami Gallery, New York; mennour, Paris/London; Esther Schipper, Berlin/Paris/Seoul; Galerie Micheline Szwajcer, Antwerp; 1301PE, Los Angeles, and/e Pirelli HangarBicocca, Milan/Milano

Capace di scolpire la luce e creare ingannevoli e complessi giochi di specchi, l’opera di Ann Veronica Janssens, è minimale e mutevole. Al confine tra ricerca artistica e scientifica. Talvolta effimera, a momenti inafferrabile, incorpora il movimento e le emozioni del visitatore con cui instaura un dialogo serratissimo. Al centro della sua attenzione, la percezione della realtà.

Per “Grand Bal”, l’importante personale in corso al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, Ann Veronica Janssens, ha cominciato col pensare allo spazio architettonico in cui l’esposizione è ospitata. Un edificio di archeologia industriale in cui un tempo si costruivano locomotive: grande (sia per estensione che in altezza), buio, lineare. Poi l’ha modificato, in maniera transitoria e se vogliamo sottile, ma decisamente sostanziale.

L’artista originaria di Folkestone (Regno Unito), infatti, ha rimosso alcune delle porte d’uscita, sostituendo i battenti con una rete in PVC porosa e trasparente, che permette alla luce naturale, così come a suoni, aria e altri elementi esterni, di penetrare nell’ esposizione. Il risultato è drammatico e lo spazio architettonico appare trasformato. La luce che arriva dalle pareti si diffonde dolcemente nell’ambiente ma quella che dal soffitto raggiunge il suolo taglia il vuoto. L’effetto è quello di una serie di riflettori capaci di generare fasci di luce diretta che da lontano sembrano colonne (come quelle di un tempio o di una cattedrale). L’intervento si chiama “Waves” ed è stato ideato per la mostra.

Che si apre con una serie di 12 specchi circolari a pavimento (“Drops”, 2023). Somigliano a delle grandi gocce d’acqua come dice il titolo, ma fanno pensare anche alle pozzanghere, e riflettono il soffitto (o meglio la parte dell’edificio non utilizzata dalle persone). Il dialogo con l’architettura è stretto, quasi intimo, mentre quello con lo spettatore si apre in sordina (per crescere passo a passo), generando nuovi punti di vista, meraviglia e un vago spaesamento.

I lavori in cui Janssens si interroga sull’architettura, o comunque, le assegna un ruolo fondamentale nel corpo a corpo che via via si crea tra l’artista e il pubblico, sono molti ancora. Non a caso il video “Oscar” del 2009, è centrato sull’architetto modernista brasiliano, Oscar Niemeyer (1907-2012), radicale portavoce di ideali sociali. Mentre “Area” (2023), una piattaforma percorribile in mattoni, mette in discussione il netto confine che separa scultura ed architettura.

Un lavoro asciutto, persino troppo, ma su cui “Swings” (2000-2023), fa bella mostra di se. Si tratta, infatti, di altalene che oltre a citare soggetti pittorici del passato, introducono il tema del ludico e del meraviglioso che accompagna tutta la mostra. Quest’ultima, infatti, altro non è che una grande scenografia, in cui il visitatore si muove liberamente, guidato dal senso di stupore e da un giocoso spirito d’avventura (anche se inconsapevolmente indirizzato dall’artista).

Sulle altalene, lascia traccia del proprio passaggio, attraverso una pellicola termoreagente che muta di tonalità a contatto con il calore del corpo. Per trovarsi poi a cospetto con l’assenza di punti di riferimento spazio-temporali, ne “L’espace infini” (1999) (l’opera è una struttura concava rettangolare, priva di angoli e bordi, l’ambiente è bianco, talmente bianco che per un effetto ottico lo sguardo non riesce più a distinguere dimensioni e limiti). Simile ma peggiore l’esperienza di o “MUKHA, Anvers” (1997-2023), un ambiente isolato dal resto della mostra che da fuori sembra un grande ma banalissimo cubo bianco. Quando si entra però la musica cambia, Janssens, ha riempito la stanzetta di fitta nebbia artificiale e ha lasciato che l’illuminazione naturale rendesse ancora più vaghi i confini dello spazio e più sfumate le forme dei corpi in movimento. Risultato? Il completo spaesamento. Ci si sente alla deriva, spesso irrazionalmente incapaci di fare un passo ma la sensazione che si prova non è del tutto sgradevole. L’artista, ha spesso raccontato di stupirsi per i messaggi che le mandano le persone che hanno affrontato quest’opera, diverse volte ha persino ricevuto ringraziamenti da parte di donne che tra la nebbia di “MUKHA, Anvers” hanno incontrato quello che sarebbe diventato il loro marito.

Meno votate a mettere in evidenza gli animi indomiti e le inclinazioni romantiche, ma altrettanto suggestive, le opere che si soffermano sul colore. Fasci di toni primari che pulsano nello spazio finchè il visitatore non vede bianco (“Rouge 106, Bleu 132 -Scale Model”), o si ricorrono senza mai combaciare (“Bitter, Salty, Acid and Sweet #2”) e poi un piccolo prisma che cattura la luce e porta l’arcobaleno in mostra (“Untitled - Prism”). Oltre ad opere che attraverso finiture di nuova generazione sviluppano cromie cangianti apparentemente irreali.

Va detto che l’opera di Janssens è stata spesso associata al lavoro dei “Light & Space” (gruppo di artisti americani degli anni Sessanta come Robert Irwin e James Turrell) da cui discendono figure più recenti come Olafur Eliasson. Tuttavia l’artista britannica (ma trapiantata in Belgio) ha sempre avuto un linguaggio ed una ricerca squisitamente personali.

La grande retrospettiva “Grand Bal” di Ann Veronica Janssens, curata da Roberta Tenconi, proseguirà fino al 30 luglio 2023 al Pirelli Hangar Bicocca di Milano. In contemporanea a quella dedicata a Gian Maria Tosatti.

Ann Veronica Janssens Magic Mirrors (Pink & Blue), 2013-2023 (particolare) Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2023 Courtesy l’artista e Alfonso Artiaco, Napoli © 2023 Ann Veronica Janssens / SIAE Foto Andrea Rossetti

Ann Veronica Janssens MUHKA, Anvers, 1997-2023 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2023 Collection 49 Nord 6 Est – Frac Lorraine © 2023 Ann Veronica Janssens / SIAE Foto Andrea Rossetti Courtesy the artist/ l’artista, Alfonso Artiaco, Napoli; Bortolami Gallery, New York; mennour, Paris/London; Esther Schipper, Berlin/Paris/Seoul; Galerie Micheline Szwajcer, Antwerp; 1301PE, Los Angeles, and/e Pirelli HangarBicocca, Milan/Milano

Ann Veronica Janssens La pluie météorique, 1997 (particolare) Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2023 Collezione M HKA / Museum of Contemporary Art Antwerp © 2023 Ann Veronica Janssens / SIAE Foto Andrea Rossetti Courtesy the artist/ l’artista, Alfonso Artiaco, Napoli; Bortolami Gallery, New York; mennour, Paris/London; Esther Schipper, Berlin/Paris/Seoul; Galerie Micheline Szwajcer, Antwerp; 1301PE, Los Angeles, and/e Pirelli HangarBicocca, Milan/Milano

Ann Veronica Janssens waves, 2023 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2023 Commissionata e prodotta da Pirelli HangarBicocca, Milano © 2023 Ann Veronica Janssens / SIAE Foto Andrea Rossetti Courtesy the artist/ l’artista, Alfonso Artiaco, Napoli; Bortolami Gallery, New York; mennour, Paris/London; Esther Schipper, Berlin/Paris/Seoul; Galerie Micheline Szwajcer, Antwerp; 1301PE, Los Angeles, and/e Pirelli HangarBicocca, Milan/Milano

Ann Veronica Janssens “Grand Bal”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2023 © 2023 Ann Veronica Janssens / SIAE Foto Andrea Rossetti Courtesy the artist/ l’artista, Alfonso Artiaco, Napoli; Bortolami Gallery, New York; mennour, Paris/London; Esther Schipper, Berlin/Paris/Seoul; Galerie Micheline Szwajcer, Antwerp; 1301PE, Los Angeles, and/e Pirelli HangarBicocca, Milan/Milano

Ann Veronica Janssens Drops, 2023 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2023 © 2023 Ann Veronica Janssens / SIAE Foto Andrea Rossetti Courtesy the artist/ l’artista, Alfonso Artiaco, Napoli; Bortolami Gallery, New York; mennour, Paris/London; Esther Schipper, Berlin/Paris/Seoul; Galerie Micheline Szwajcer, Antwerp; 1301PE, Los Angeles, and/e Pirelli HangarBicocca, Milan/Milano

Ann Veronica Janssens “Grand Bal”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2023 © 2023 Ann Veronica Janssens / SIAE Foto Andrea Rossetti Courtesy the artist/ l’artista, Alfonso Artiaco, Napoli; Bortolami Gallery, New York; mennour, Paris/London; Esther Schipper, Berlin/Paris/Seoul; Galerie Micheline Szwajcer, Antwerp; 1301PE, Los Angeles, and/e Pirelli HangarBicocca, Milan/Milano

Ann Veronica Janssens “Grand Bal”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2023 © 2023 Ann Veronica Janssens / SIAE Foto Andrea Rossetti

Ann Veronica Janssens “Grand Bal”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2023 © 2023 Ann Veronica Janssens / SIAE Foto Andrea Rossetti Courtesy the artist/ l’artista, Alfonso Artiaco, Napoli; Bortolami Gallery, New York; mennour, Paris/London; Esther Schipper, Berlin/Paris/Seoul; Galerie Micheline Szwajcer, Antwerp; 1301PE, Los Angeles, and/e Pirelli HangarBicocca, Milan/Milano

Ann Veronica Janssens Pink Coco Lopez, 2010 (particolare) Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2023 Courtesy l’artista ed Esther Schipper, Berlino/Parigi/Seoul © 2023 Ann Veronica Janssens / SIAE Foto Andrea Rossetti

Ann Veronica Janssens for PHB, 2004-23 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2023 © 2023 Ann Veronica Janssens / SIAE Foto Andrea Rossetti Courtesy the artist/ l’artista, Alfonso Artiaco, Napoli; Bortolami Gallery, New York; mennour, Paris/London; Esther Schipper, Berlin/Paris/Seoul; Galerie Micheline Szwajcer, Antwerp; 1301PE, Los Angeles, and/e Pirelli HangarBicocca, Milan/Milano

Ann Veronica Janssens Ritratto Courtesy Esther Schipper Gallery © 2023 Ann Veronica Janssens / SIAE Foto © Andrea Rossetti