A Palazzo Strozzi Tracey Emin dimostra il suo talento di artista in una mostra irrinunciabile del 2025

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Sex and Solitude di Tracey Emin a Palazzo Strozzi
Recensione della mostra

Mentre le parole d’amore scritte da una giovane Tracey Emin per il gallerista Carl Freedman diffondono una vibrante luce rosa confetto sui volti dei visitatori della mostra “Sex and Solitude”, sulla stanza dell’antico palazzo fiorentino che la ospita e sui dipinti della stessa signora Emin, non si può non pensare quanta strada lei abbia fatto. Da artista-celebrità collezionata dai VIP (ad esempio: Elton John, George Michael, Madonna e Naomi Campbell) ad accademico reale, insegnante del Royal College of Arts e Dame insignita da Re Carlo in persona. Da star degli Young British Artists degli anni ’90 a pittrice e scultrice.

Sono stata in Italia vent’anni fa- ha ricordato la signora Emin- rappresentavo il mio Paese alla Biennale di Venezia. E sono rimasta molto insoddisfatta di quello che avevo fatto lì e ho pensato che Venezia e la Biennale per me sarebbero stati un trampolino di lancio per qualcosa di più(…) E mi ricordo che mentre ero lì e scendevo dalle scale con davanti tutta la stampa, ho visto una vecchia signora che saliva i gradini e mi è passata accanto, poi ho capito che ero io quella vecchia signora! Oggi mi sento molto più vicina a quella donna e molto più felice. La Biennale è stata una proiezione verso questo, perché veramente non penso che potrei fare di più che esporre in un posto magnifico come Palazzo Strozzi a Firenze”.

Malgrado a sessantun’anni Tracey Emin sia ancora giovane per essere definita una vecchia signora inglese, la malattia che ha attraversato (nel 2020 è stata operata per una forma aggressiva di cancro alla vescica; adesso è in remissione) ha sicuramente fiaccato il suo corpo più del suo spirito. E alla presentazione della sua grande mostra italiana “Sex and Solitude” (inaugurata il 16 marzo a Palazzo Strozzi di Firenze) è arrivata (in compagnia dell’inseparabile direttore creativo dei suoi studi Harry Weller) con i capelli grigi raccolti in una spartana coda di cavallo, senza trucco, con una sacca per l’urina nascosta chissà dove (è collegata ad uno stome che ha nell’addome e di solito la porta in borsa). Proprio lei che era la musa di Vivienne Westwood (sulla forma del suo piede è stata modellata la scarpa da ginnastica “Tracey” della stilista) e una grande amica della famosa modella Kate Moss. Ma è comunque arrivata, nonostante la distanza. E in macchina per giunta: “Sono venuta qui in macchina dall’Austria e ho visto un tramonto meraviglioso che mi ha fatto sentire veramente bene”.

Non ha nemmeno rinunciato al suo studio nel sud della Francia del resto (vicino all’iconico Mont Saint Victoire dipinto da Cezanne, si raggiunge in elicottero) o a quello di Fitzroy Square a Londra (in una casa d’epoca che un tempo fu abitata sia da George Bernard Shaw che da Virginia Woof), malgrado adesso passi molto tempo nella città in cui è cresciuta (Margate dove ha uno studio e una residenza ma anche una scuola d’arte e un museo).

Tuttavia adesso fa pochissime mostre e sceglie con grande attenzione gli spazi espositivi. Tra loro, appunto, Palazzo Strozzi.

Del resto anche la fondazione fiorentina è decisamente selettiva con gli artisti cui dedica una personale (oltre a Marina Abramović e Ai Weiwei, hanno esposto, ad esempio, Anselm Kiefer e Jeff Koons). E Tracey Emin, accademico reale fin dal 2007 (alla Royal Academy insegna anche disegno ed è una delle due sole professoresse donna da quando nacque l’istituzione nel 1768); Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico per i servizi resi alle arti dal 2013; nominata Dame da Re Carlo lo scorso anno, è stata una scelta particolarmente azzeccata. Sia per la carriera e il prestigio della Signora Emin sia per i messaggi al passo con i tempi che il suo nome e la sua poetica permettono al museo di condividere. Innanzitutto il femminismo.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025. Sulle pareti i grandi acrilici di Tracey Emin

Dichiaratamente femminista la signora Emin a proposito ha detto: “C’è una grande differenza tra artisti uomini e donne. Basti pensare che a parità di livello gli uomini vengono pagati tre volte di più, i prezzi alle aste lo dicono chiaramente e questo non ha assolutamente senso. Ma questo non succede solo nell’arte: non c’è ancora un’uguaglianza piena. Le donne continuano a soffrire e quando mi chiedono cosa penso del femminismo… bè io sono una femminista e non mi sono mai lasciata fermare da nessun uomo in tutto quello che ho fatto, sia nella mia vita e che nella mia carriera. Però devo dire che c’è voluto un secolo ma adesso le donne eccellono nelle arti. C’è tutt’ora una differenza, è diminuita; e penso che fra qualche tempo non ci sarà più”.

Nata a Croydon ma cresciuta a Margate, Tracey Emin ha avuto una biografia molto travagliata durante la prima giovinezza. Figlia di un piccolo imprenditore turco-cipriota e di una donna inglese di origine romnichal (un gruppo rom che vive nel Regno Unito dal 1500,) dopo il fallimento dell’hotel del padre (in cui lei abitava insieme alla madre e al fratello gemello Paul) rimase senza tetto. Tra sistemazioni di fortuna e case occupate, si ritrovò poco protetta in un periodo tumultuoso per Margate e venne prima aggredita sessualmente e poi stuprata a soli 13 anni (non denunciarono perché era “ciò che accadeva a molte ragazze”). Il trauma subito però non la abbandonerà mai e ritornerà costantemente sia nel suo futuro lavoro che nella personalità (entrambi divisi tra la veemente schiettezza di chi si sente nel giusto e un cupo malessere esistenziale).

Nello stesso periodo lei lasciò la scuola e scappò a Londra, per tornare a studiare solo qualche anno dopo: prima al Medway College (fashion design) poi alla Sir John Cass School of Art (incisione). Alla fine si sarebbe diplomata in Belle Arti (al Maidstone College) e specializzata in pittura al Royal College of Art di Londra.

A quel punto rimase incinta: abortì e smise di dipingere. Un altro trauma. Ancora una volta non avrebbe dimenticato quel dolore: “Quando ho detto al mio ragazzo che ero incinta- ha raccontato in un articolo a sua firma apparso su un quotidiano inglese - eravamo a Regent's Park, con tanti scoiattoli che correvano in giro e narcisi in fiore. Non lo dimenticherò mai: mi diede una pacca sulla pancia e disse: ‘Ciao, ti uccideremo’. Penso che sia stato in quel momento che ho capito che se non avessi abortito, probabilmente mi sarei uccisa”.

Tutti questi momenti traumatici, insieme a passione, gioia, amore, sensualità, solitudine, paura e speranza, si ritrovano in “Sex and Solitude. Che, con oltre sessanta opere realizzate con vari media in più decenni, è la sua più grande esposizione mai messa in scena in Italia e può far pensare ad un’antologica ma è una mostra autobiografica.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025. Il neon con le parole d’amore all’ex-fidanzato Carl Freedman

Lo si capisce già dal neon collocato sulla parete esterna del palazzo rinascimentale (e realizzato appositamente per questo appuntamento), con cui la signora Emin scrive il titolo della mostra usando la propria calligrafia, un po’ come avrebbe potuto fare con la copertina di un manoscritto o addirittura di un diario. A renderlo evidente poi, oltrepassata la gigantesca scultura in bronzo “I followed you to the end” che occupa il cortile, Love poem for CF” (2007) nella prima sala (che si intitola per l’appunto: “Poems”), in cui le parole d’amore scritte anni prima per l’ex-fidanzato Carl Freedman (il gallerista e curatore con cui fece un Coast to Coast degli Stati Uniti negli anni ’90 e a cui dedicò un’installazione prelevando ed esponendo la capanna sul mare in cui erano stati insieme) si traducono in uno dei neon più grandi da lei mai completati.

Love poem for CF” fa vibrare la stanza del tono rosa confetto di cui sono composte le parole e, mentre dà prova allo spettatore del talento di scrittrice della signora Emin (tutti i titoli delle opere nel suo caso vanno letti senza se e senza ma), lo introduce all’atmosfera emotiva e confessionale della mostra. I versi rivolti a Freedman, carnali ed angosciati, comunicano sentimenti antichi con un linguaggio poetico contemporaneo (“Hai messo la tua mano/ Sulla mia bocca/ ma il rumore comunque/ Continua/ Ogni parte del mio corpo/ sta Urlando/ Frantumata in un/ Milione di pezzi/ Ogni parte/ Per sempre/ Appartiene a te”.) Ma accanto a loro si comincia a scorgere la vera protagonista dell’esposizione: la pittura.

Quando a Tracey Emin venne diagnosticato il tumore una delle sue prime preoccupazioni fu quella di non voler morire come una “mediocre Young British Artist (YBA) degli anni ‘90. E anche se la fama della signora Emin in quegli anni raggiunse picchi ragguardevoli al di fuori dell’ambiente artistico (tra sbronze, feste e celebrità, che frequentava e di cui lei stessa faceva parte) arrivando persino a mettere in ombra le opere sensazionali del periodo, già allora faceva capolavori. Ma lei sapeva di avere altre frecce al suo arco.

Sex and Solitude” mette il pubblico di fronte all’abilità pittorica (e scultorea) della signora Emin con un’infilata di grandi tele in cui il corpo femminile (quello dell’artista in realtà, che spesso lavora autoritraendosi dal vivo; e dipingere dal vivo è talmente difficile che quasi nessuno lo fa più) diventa il mezzo per rivendicare la libertà ed esprimere una vasta rosa di emozioni attraverso tratti sicuri, vigorosi o aggraziati come una melodia; cancellature rabbiose e colature. Sono tutti nudi, in aperta contrapposizione a una storia dell’arte fatta di uomini, che collocano questo genere in un immaginario di desideri pruriginosi in cui la donna è oggetto passivo dello sguardo maschile. Contemporaneamente rivaleggia con artisti che da sempre sono fonte di ispirazione per lei come Schiele e Munch ma anche con altri grandi maestri al di fuori della tradizione figurativa, perché i nudi di Emin sono al limite dell’astrazione, sia nel linguaggio che nel concetto.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025. La ricostruzione della stanza in cui la signora Emin lavorò nuda per tre settimane e mezzo

In mostra non ci sono i capolavori più noti degli anni ’90: “Everyone I Have Ever Slept With 1963–1995” (comunemente chiamata la tenda, che era appunto una tenda in cui l’artista aveva ricamato i 150 nomi delle persone con cui aveva dormito fino a quel momento: partner sessuali ma anche parenti, amici fraterni e i figli mai nati) che venne distrutta in un incendio e di cui non esistono copie; e “My Bed” (la ricostruzione del tutto realistica del letto di una donna sull’orlo del suicidio, con tanto di bottiglie vuote di vodka, preservativi, indumenti ecc., entrata a far parte della collezione di Charles Saatchi e in seguito battuta all’asta per 2 milioni e mezzo di dollari).

C’è, invece, l’installazione “Exorcism the last painting I ever made”(1990, Esorcismo dell’ultimo dipinto che io abbia fatto) in cui autobiografia e considerazioni sulla storia dell’arte si mescolano.

Exorcism the last painting I ever made” è la ricostruzione del minuscolo spazio all’interno di una galleria di Stoccolma in cui l’artista lavorò nuda sotto gli occhi del pubblico per tre settimane e mezzo (cioè il tempo che intercorre tra un ciclo mestruale e l’altro). Durante la performance lei dipingeva ispirandosi ad alcuni maestri indiscussi (oltre a Munch e Schiele, anche Picasso), tutti uomini, sovvertendo e mettendo in discussioni i ruoli di modella e pittore. Dopo l‘esposizione in cui mise in scena “Exorcism the last painting I ever made” smise di dipingere (avrebbe ripreso solo sei anni dopo). Ma tutto cominciò con la gravidanza indesiderata della signora Emin: “Ho smesso di dipingere quando ero incinta. L’odore dei colori a olio e della trementina mi facevano sentire fisicamente male, e anche dopo l’aborto non riuscivo a dipingere. Era come se dovessi punirmi smettendo di fare la cosa che amavo di più.”

Sex and Solitude” oltre a questa significativa installazione mostra anche alcuni dei calicò ricamati dall’artista, ma per la stragrande maggioranza si compone di dipinti e sculture. Più che altro recenti o relativamente recenti. Oltre ai grandi acrilici in cui il colore (soprattutto rossi accesi e blu oltremare) diventa tratto, su superfici fatte di sovrapposizioni quasi monocrome di toni chiari, ci sono delle piccole tele davvero notevoli. Tutte completate con pennellate veloci e sicure come una danza. Senza errori. Tra queste le più belle sono quelle declinate in grigio e blu, che la signora Emin ha dipinto: dopo la diagnosi di tumore, l’aver perso l’amato gatto Docket, e sul punto di traslocare da una casa in cui aveva abitato vent’anni: “Mi ricordo che mi sono messa a un tavolo e ho fatto quei piccoli dipinti che si vedono in mostra e che riguardano proprio questo: che lasciassi una casa che avevo molto amato e che lasciassi pure un gatto che avevo molto amato e quelli sono stati gli ultimi lavori prima dell’intervento”.

Adesso Tracey Emin ha due gatti dai nomi decisamente inglesi (Teacup e Pancake) che compaiono sul suo Instagram e a volte anche nei suoi dipinti.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025. Accanto al camino le piccole sculture dedicate agli spiriti della natura

Tornando a “Sex and Solitude”: tra le sculture ce n’è una serie particolarmente atipica in cui minuscole creature selvatiche, talvolta accompagnate da una figura femminile altre no, si ergono su cubi irregolari di bronzo patinato di bianco. Sui basamenti una frase scritta a mano sottolinea il legame dell’artista con la natura e la dimensione spirituale in cui questo è in grado di proiettarla.

Va detto che tra le opere più belle in mostra ci sono di sicuro le serigrafie dell’ultima stanza. Grandi e cupe, sono i primi lavori realizzati dalla signora Emin dopo l’intervento chirurgico (“Il primo anno ero talmente debole che non riuscivo nemmeno a tenere in mano una teiera. Ma poi ho ripreso”). Mettono insieme i riferimenti storici più disparati (dai dipinti religiosi degli antichi fino alle opere grafiche di Goya) ad una palette di neri, grigi e blu profondi, per costruire immagini magistrali.

Per quanto “Sex and Solitude” di Tracey Emin sia una mostra consigliata ai giovani adulti non è adatta ai bambini. In generale è un appuntamento irrinunciabile del 2024. Curata dal direttore della Fondazione Palazzo Strozzi Arturo Galansino, resterà a Palazzo Strozzi fino al 20 luglio 2025.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025. Alla parete una delle cupe serigrafie dell’ultima sala

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Tracey Emin at Palazzo Strozzi on the occasion of the exhibition Sex and Solitude. Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ludovica Arcero, Saywho.

Tra colori acidi e momenti da incubo sci-fi Luisa Gagliardi al MASI di Lugano

Louisa Gagliardi Night Caps 2022 Pittura gel e inchiostro su PVC Collezione privata, Basilea © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Le Many Moons di Luisa Gagliardi
La mostra al MASI di Lugano (lettura automatica)

 In un quadro (“Deluge”) una donna si guarda riflessa nel soffione metallico della doccia, mentre le gocce d’acqua le piovono addosso: l’atmosfera è disturbante, lo spettatore viene messo (a viva forza) nei panni della protagonista e non gli calzano affatto. In un’altra (“Night Caps”), chi guarda si trova sovrastato da funghi altissimi, con ogni probabilità velenosi (e allucinogeni), sulla cui sommità si chinano tre volti, sovrastati dalla luna; anche qui non se la passa bene: perché quei tre sguardi puntati su di lui non promettono niente di buono.

D’altra parte Luisa Gagliardi, l’artista svizzera che ha pazientemente composto queste e molte altre opere dello stesso tenore, ha spesso dichiarato che considera l’osservatore parte fondamentale della sua poetica. L’unico in grado di attivarne l’universo.

Non che la signora Gagliardi abbia una vena sadica ma ritiene fondamentale alzare la soglia di attenzione del pubblico; coinvolgendolo direttamente nell’atmosfera misteriosamente contemporanea, sapientemente tinta di note sci-fi, di quelli che potrebbero sembrare dipinti ma che in realtà sono elaborazioni digitali. Con espedienti da fim o da serie TV di alto livello (pure se il mix di riferimenti a cui attinge è ben più vasto e spazia fino alla storia dell’arte meno recente).

Nata a Sion (nel cantone vallese, non lontanissimo dal confine italiano della Val d’Aosta) nell’89, Luisa Gagliardi (che adesso vive a Zurigo), dalla scorsa settimana è protagonista di una mostra al Museo della Svizzera Italiana di Lugano (il MASI). La personale, intitolata “Many Moons”, si dipana negli ampi ed immacolati spazi del LAC (la sede in vetro e cemento affacciata direttamente sul lago), e comprende due nuovi cicli pittorici monumentali oltre ad una serie di sculture create per l’occasione. E’ pure un’iniziativa importante, persino sontuosa, da dedicare ad un’artista ancora relativamente giovane. E, malgrado non costituisca una mossa inconsueta per l’istituzione svizzera, dimostra l’interesse (anche commerciale) suscitato dal suo lavoro.

Louisa Gagliardi Roundabout 2023 Smalto per unghie, pittura gel e inchiostro su PVC Ringier Collection, Switzerland © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Le scene immaginate dalla signora Gagliardi piacciono. Un po’ metafisiche un po’ surreali, un po’ psicologiche un po’ fantascientifiche, possono sembrare fin troppo accondiscendenti verso il gusto dei più. Tant’è vero che ad Art Basel (la famosa fiera svizzera che lei conosce e frequenta fin da bambina perché figlia di appassionati d’arte e di cui ha detto: "Si tratta di 7 giorni di importanti momenti condensati e tutti, galleristi, collezionisti e critici, sono lì. E sei circondata da tutti i tuoi idoli") lo spazio a lei concesso non ha fatto altro che crescere (come le sue quotazioni, non stratosferiche ma già piuttosto sostenute). Tuttavia in lei c’è di più. Sia nei soggetti che introducono soluzioni innovative (stranamente, visto quanto le atmosfere messe in scena siano state sfruttate nel tempo), che nello stile. L’artista, infatti, non si limita a dipingere ma simula la pittura con i media digitali (estendendone il campo d’applicazione e mettendone in discussione il concetto). Come prima cosa fa un bozzetto, poi sviluppa digitalmente un’immagine che raffina e completa passo a passo fino a stamparla su vinile, a quel punto interviene con gel trasparenti, vernici, glitter e smalti per unghie economici. A finire un singolo lavoro ci mette circa un anno.

La curatrice di “Many Moons”, Francesca Benini, ha spiegato: “La qualità ibrida delle opere di Louisa Gagliardi rappresenta in fondo perfettamente lo spazio in cui oggi avviene l’esperienza umana, nel quale i confini tra concreto e virtuale, tra intimità e visibilità, tra appartenenza e alienazione, tra voyeurismo ed esibizionismo, si confondono

Storicamente le innovazioni tecnologiche sono accolte in modo ambiguo: da una parte stupiscono, confortano persino, dall’altra suscitano apprensione e paura. Forse per questo le opere della signora Gagliardi, mentre lucide di smalto per unghie su PVC sfoggiano una tavolozza acida applicata a bizzarri soggetti sovradimensionati, sono così cariche d’inquietudine. Probabilmente sono proprio la digitalizzazione di massa e l’imporsi dell’intelligenza artificiale (che hanno accompagnato il percorso dell’artista svizzera dai primi anni 2000 fino ad oggi), la chiave di lettura di un mondo che riesce a sovrapporre momenti degni di “Black Mirror” alla quotidianità.

Non a caso parla spesso del confine che separa il sé riflesso dallo schermo dello smartphone da quello reale. Altri lavori, invece, evocano la catastrofe ecologica o semplicemente il conflittuale rapporto che passa tra una società civilizzata e natura. Mentre il campo del controllo attraverso la tecnologia si insinua in un ampio numero di opere.

In merito Benini ha aggiunto: “L'ambiguità tra realtà e rappresentazione è un tema centrale nella ricerca artistica di Louisa Gagliardi. L’atto di creare un mondo alternativo attraverso la pittura, nel quale entrare visivamente, si lega inevitabilmente alla capacità dei mezzi digitali di estendere lo spazio vitale e generare una realtà parallela, quest’ultima abitabile non solo idealmente

C’è poi un aspetto psicologico atemporale che attinge a paure varie come quella dell’ignoto, o quella di attrarre l’attenzione di potenziali predatori, fino ad una vaga minaccia al senso d’identità dell’osservatore. Oltre al fatto che i dipinti dell’artista svizzera sono fotogrammi di storie a noi sconosciute e non necessariamente destinate ad avere un happy end.

La mostra “Many Moons” di Luisa Gagliardi rimarrà al MASI di Lugano fino al 20 luglio 2025.

Louisa Gagliardi Birds of a Feather 2023 Smalto per unghie e inchiostro su PVC Collezione privata, Austria © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Veduta dell’allestimento, “Louisa Gagliardi: Many Moons”, MASI Lugano, Svizzera. Foto Luca Meneghel © the artist

Louisa Gagliardi Chaperons 2023 Pittura gel e inchiostro su PVC Ringier Collection, Switzerland © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Veduta dell’allestimento, “Louisa Gagliardi: Many Moons”, MASI Lugano, Svizzera. Foto Luca Meneghel © the artist

Louisa Gagliardi Cascade 2023 Pittura gel e inchiostro su PVC Collection Pictet © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Veduta dell’allestimento, “Louisa Gagliardi: Many Moons”, MASI Lugano, Svizzera. Foto Luca Meneghel © the artist

Louisa Gagliardi Visitors 2024 Pittura gel e inchiostro su PVC Galerie Eva Presenhuber, Eva Presenhuber, Zürich © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Veduta dell’allestimento, “Louisa Gagliardi: Many Moons”, MASI Lugano, Svizzera. Foto Luca Meneghel © the artist

Louisa Gagliardi Revealing 2022 Pittura gel, smalto per unghie e inchiostro su PVC Museo d’arte della Svizzera italiana, Lugano. Collezione Città di Lugano © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Luisa Gagliardi fotografata accanto a una sua opera Courtesy the artist and Galerie Eva Presenhuber Photo: Gertraud Presenhuber

“When we see us”: la blackness in un affresco senza tempo e senza luogo firmato da Koyo Kouoh (che curerà la prossima Biennale di Venezia)

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

"when we see us" un secolo d'arte nera al Bozart
La mostra è firmata da Koyo Kouoh che curerà la Biennale di Venezia 2026

In un parco apparentemente distante dal traffico cittadino un ragazzo e una ragazza si concentrano l’uno sull’altra, il loro atteggiamento è rilassato, intenerito, forse stanno chiacchierando e malgrado si possa immaginare il tono scuro della loro pelle, le innumerevoli sfumature di blu che compongono l’immagine rendono la caratteristica una vaga congettura. Non molto lontano, invece, un uomo mette in risalto la sua carnagione nerissima con un completo turchese, una camicia bianca e un fiore arancio, è vanitoso (si intuisce fiero di essere guardato), mentre appare al centro di un dipinto dai toni vivi, quasi caraibici.

Sono protagonisti diversi di opere diverse. Tutti però accumunati dall’essere neri, colti in un momento ordinario (diventato straordinario attraverso l’arte). E felici di essere vivi.

Il romantico pic-nic monocromatico (“Blue Park Lovers”) dell’artista originario del Missuri (che adesso vive in Connecticut) Dominic Chambers; e il ritratto variopinto (“View of Yoei William”) del ghanese-statunitense, Otis Kwame Kye Quaicoe; sono solo due delle innumerevoli interpretazioni della blackness espresse in “When We See Us: A Century of Black Figuration in Painting”. La mostra, che si è inaugurata il 7 febbraio scorso al Centro per le Arti Bozar di Bruxelles (Belgio), curata da Koyo Kouoh e Tandazani Dhlakama, è infatti, un affresco senza tempo ne luogo sull’autorappresentazione nera.

Malgrado “When We See Us”, ideata e promossa dallo Zeitz MOCAA di Città del Capo (il museo sudafricano diretto dal critico camerunense, Koyo Kouoh), sia stata già allestita lo scorso anno al Museo d’Arte di Basilea (Svizzera), è balzata al centro dell’interesse del pubblico internazionale da quando la signora Kouoh è stata nominata curatrice della Biennale di Venezia del prossimo anno (quello belga è il primo evento europeo a sua firma da allora).

Dominic Chambers, Blue Park Lovers, 2020. Jorge M. Pérez Collection, Miami © Courtesy of the artist and Luce Gallery

La mostra, che ispira il proprio titolo alla famosa serie Netflix del 2019 “When They See Us” della regista Ava DuVernay, espone opere di artisti africani, afroamericani e della diaspora, per di più nati in periodi storici molto differenti (il lavoro più antico è datato 1930 mentre il più recente è di appena due anni fa). D’altra parte “When We See Us”, chiarisce di non avere pretese ortodosse, nel momento in cui rinuncia a disporre in successione cronologica le opere, e a raggrupparle in base al paese di origine o di residenza degli artisti, ma sceglie invece di dividere il materiale in sei capitoli diversi (Quotidianità; Riposo; Trionfo ed Emancipazione; Sensualità; Spiritualità; Gioia e Svago) accumunati da un approccio nuovo all’argomento.

When We See Us”, infatti, rispetto alla serie di DuVernay (afroamericana anche lei; racconta la storia vera di un gruppo di bambini di colore ingiustamente condannati per un grave reato che non avevano commesso) decide di dar conto della gioia di essere neri.

Koyo Kouoh e la co-curatrice della mostra Tandazani Dhlakama, hanno così spiegato la loro scelta: "Questa mostra si rifiuta di mettere in primo piano il dolore e l'ingiustizia e invece ci ricorda che l'esperienza dei neri può anche essere vista attraverso la lente della gioia. Per celebrare il modo in cui gli artisti africani e della sua diaspora hanno immaginato, posizionato, commemorato e affermato le esperienze africane e degli afrodiscendenti, la mostra contribuisce al discorso critico sui movimenti di liberazione, intellettuali e filosofici africani e neri".

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

La signora Kouoh sembra poi dirci che il mondo è piccolo e quello dell’arte lo è ancora di più: gli artisti di colore (come gli altri, del resto) si informano e si guardano vicendevolmente, alla ricerca di un’identità nera condivisa, ma soprattutto nel tentativo di trovare le travi portanti di una storia dell’arte a loro misura.

I numeri di “When They See Us”(in effetti piuttosto impressionanti) si spiegano proprio in quest’ottica. Con 52 prestatori provenienti da 17 paesi e 5 continenti, l’esposizione, presenta la bellezza di 155 opere di 118 artisti diversi. Alcuni conosciuti (ci sono ad esempio: la famosa pittrice britannica Lynette Yiadom-Boakye; oltre agli afroamericani Kehinde Wiley ed Amy Sherald che vennero scelti per fare i ritratti ufficiali dell’ex presidente Obama e dell’allora first lady) altri meno. Tanto diversi che l’autodidatta afroamericana Clementine Hunter (nata in Luisiana nel 1887 e scomparsa a 99 anni dopo aver lavorato in una piantagione e conosciuto il successo artistico in tarda età) è esposta insieme alla sudafricana ventiseienne, Zandile Tshabalala.

Sempre da questo punto di vista va guardata la cronologia grafica in mostra (che dalla Rivoluzione haitiana arriva al movimento Black Lives Matter). E il paesaggio sonoro del compositore e sound artist sudafricano Neo Muyanga, che riecheggia di musiche provenienti da tutto il mondo in risposta ai vari capitoli della mostra.

Stilisticamente, invece, si può dire che la signora Kouoh abbia preferito dar voce a una moltitudine di dialetti della stessa lingua madre, visto che pur esponendo artisti figurativi (il più delle volte pittori) ci fa notare quanto le loro forme espressive si discostino le une dalle altre con tessuti e glitter che fanno la loro comparsa accanto a pennellate e tavolozze ben distinte.

Pur se tutte le opere sono accostate o giustapposte per mettere in luce nuove similitudini (che senza il loro incontro non sarebbe stato possibile cogliere)

Nell'ultimo decennio- ha detto la curatrice- la pittura figurativa di artisti neri ha raggiunto una nuova importanza nell'arte contemporanea. Non c'è momento migliore per una mostra di questa natura, che collega queste pratiche e rivela i contesti storici più profondi e le reti di genealogie artistiche complesse e sottorappresentate che derivano dalle modernità africane e nere; una mostra che dimostra come più generazioni di tali artisti si siano deliziate e si siano impegnate in modo critico nel proiettare varie nozioni di nerezza e africanità”.

Le opere poi, lungi dall’essere appese su muri bianchi senza nulla che distragga lo sguardo, sono evidenziate da pareti intensamente laccate, con colori in qualche modo contrastanti per rendere ancora più drammatico il passaggio da un punto di vista all’altro. Anche in questo Koyo Kouoh dimostra momenti di contatto con lo stile curatoriale del brasialiano Adriano Pedrosa (dirige il Museu de arte de São Paulo e ha firmato la scorsa edizione della Biennale di Venezia).

When We See Us”, esteticamente, è una mostra dalla forte personalità e, malgrado sia fuori dagli schemi, non rinuncia né a lavorare su una Storia dell’arte in versione black, né a riflettere sugli strumenti di lavoro necessari ad una nuova critica. Come testimoniano le tante pubblicazioni messe a disposizione dei visitatori (monografie, cataloghi di mostre, testi di teoria critica e raccolte, compresi scritti importanti che hanno plasmato il canone storico dell'arte nera). La scelta di evitare il solito copione (incluso il razzismo) poi, è segno di una acuta sensibilità (molto femminile) che sottolinea la forza, la libertà e l’autosufficienza delle persone di colore.

When We See Us” è il risultato dell’ampia ricerca di Koyo Kouoh sull’arte nera e rimarrà nelle spaziose sale dell’edificio liberty in cui ha sede il Bozar (nel cuore del quartiere reale di Bruxelles) fino al 10 agosto 2025. All’esposizione il museo ha affiancato eventi di ogni genere (concerti, conferenze, dibattiti, aperture notturne, visite guidate, film, spettacoli, e persino videogiochi).

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Otis Kwame Kye Quaicoe, View of Yoei William, 2020.© Courtesy the artist and Roberts Projects, Los Angeles, California; Foto Mario Gallucci

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Wangari Mathenge (b.1973, Nairobi, Kenya) Sundials and Sonnets 2019 Oil on canvas CollecƟon of Pascale M. Thomas and Tayo E. Famakinwa, courtesy of Roberts Projects, Los Angeles, California © Courtesy of the arƟst and Roberts Projects, Los Angeles, California; Photo Robert Wedemeyer

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Thenjiwe Niki Nkosi (b.1980, New York City, USA) Ceremony 2020 Oil on canvas Courtesy of Homestead CollecƟon © Thenjiwe Niki Nkosi. Courtesy of Stevenson, Amsterdam/Cape Town/Johannesburg. Photo Nina Lieska

Bozar When We SeeUs Credit: Julie Pollet

Zandile Tshabalala (b.1999, Soweto, South Africa)Two Reclining Women 2020 Acrylic on canvas Courtesy of the Maduna CollecƟon © Zandile Tshabalala Studio

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

BOZAR, When We See Us Photo credit: We Document Art

BOZAR, When We See Us Photo credit: We Document Art

Koyo KOUOH, portrait. Courtesy of Zeitz MOCAA