“When we see us”: la blackness in un affresco senza tempo e senza luogo firmato da Koyo Kouoh (che curerà la prossima Biennale di Venezia)

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

In un parco apparentemente distante dal traffico cittadino un ragazzo e una ragazza si concentrano l’uno sull’altra, il loro atteggiamento è rilassato, intenerito, forse stanno chiacchierando e malgrado si possa immaginare il tono scuro della loro pelle, le innumerevoli sfumature di blu che compongono l’immagine rendono la caratteristica una vaga congettura. Non molto lontano, invece, un uomo mette in risalto la sua carnagione nerissima con un completo turchese, una camicia bianca e un fiore arancio, è vanitoso (si intuisce fiero di essere guardato), mentre appare al centro di un dipinto dai toni vivi, quasi caraibici.

Sono protagonisti diversi di opere diverse. Tutti però accumunati dall’essere neri, colti in un momento ordinario (diventato straordinario attraverso l’arte). E felici di essere vivi.

Il romantico pic-nic monocromatico (“Blue Park Lovers”) dell’artista originario del Missuri (che adesso vive in Connecticut) Dominic Chambers; e il ritratto variopinto (“View of Yoei William”) del ghanese-statunitense, Otis Kwame Kye Quaicoe; sono solo due delle innumerevoli interpretazioni della blackness espresse in “When We See Us: A Century of Black Figuration in Painting”. La mostra, che si è inaugurata il 7 febbraio scorso al Centro per le Arti Bozar di Bruxelles (Belgio), curata da Koyo Kouoh e Tandazani Dhlakama, è infatti, un affresco senza tempo ne luogo sull’autorappresentazione nera.

Malgrado “When We See Us”, ideata e promossa dallo Zeitz MOCAA di Città del Capo (il museo sudafricano diretto dal critico camerunense, Koyo Kouoh), sia stata già allestita lo scorso anno al Museo d’Arte di Basilea (Svizzera), è balzata al centro dell’interesse del pubblico internazionale da quando la signora Kouoh è stata nominata curatrice della Biennale di Venezia del prossimo anno (quello belga è il primo evento europeo a sua firma da allora).

Dominic Chambers, Blue Park Lovers, 2020. Jorge M. Pérez Collection, Miami © Courtesy of the artist and Luce Gallery

La mostra, che ispira il proprio titolo alla famosa serie Netflix del 2019 “When They See Us” della regista Ava DuVernay, espone opere di artisti africani, afroamericani e della diaspora, per di più nati in periodi storici molto differenti (il lavoro più antico è datato 1930 mentre il più recente è di appena due anni fa). D’altra parte “When We See Us”, chiarisce di non avere pretese ortodosse, nel momento in cui rinuncia a disporre in successione cronologica le opere, e a raggrupparle in base al paese di origine o di residenza degli artisti, ma sceglie invece di dividere il materiale in sei capitoli diversi (Quotidianità; Riposo; Trionfo ed Emancipazione; Sensualità; Spiritualità; Gioia e Svago) accumunati da un approccio nuovo all’argomento.

When We See Us”, infatti, rispetto alla serie di DuVernay (afroamericana anche lei; racconta la storia vera di un gruppo di bambini di colore ingiustamente condannati per un grave reato che non avevano commesso) decide di dar conto della gioia di essere neri.

Koyo Kouoh e la co-curatrice della mostra Tandazani Dhlakama, hanno così spiegato la loro scelta: "Questa mostra si rifiuta di mettere in primo piano il dolore e l'ingiustizia e invece ci ricorda che l'esperienza dei neri può anche essere vista attraverso la lente della gioia. Per celebrare il modo in cui gli artisti africani e della sua diaspora hanno immaginato, posizionato, commemorato e affermato le esperienze africane e degli afrodiscendenti, la mostra contribuisce al discorso critico sui movimenti di liberazione, intellettuali e filosofici africani e neri".

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

La signora Kouoh sembra poi dirci che il mondo è piccolo e quello dell’arte lo è ancora di più: gli artisti di colore (come gli altri, del resto) si informano e si guardano vicendevolmente, alla ricerca di un’identità nera condivisa, ma soprattutto nel tentativo di trovare le travi portanti di una storia dell’arte a loro misura.

I numeri di “When They See Us”(in effetti piuttosto impressionanti) si spiegano proprio in quest’ottica. Con 52 prestatori provenienti da 17 paesi e 5 continenti, l’esposizione, presenta la bellezza di 155 opere di 118 artisti diversi. Alcuni conosciuti (ci sono ad esempio: la famosa pittrice britannica Lynette Yiadom-Boakye; oltre agli afroamericani Kehinde Wiley ed Amy Sherald che vennero scelti per fare i ritratti ufficiali dell’ex presidente Obama e dell’allora first lady) altri meno. Tanto diversi che l’autodidatta afroamericana Clementine Hunter (nata in Luisiana nel 1887 e scomparsa a 99 anni dopo aver lavorato in una piantagione e conosciuto il successo artistico in tarda età) è esposta insieme alla sudafricana ventiseienne, Zandile Tshabalala.

Sempre da questo punto di vista va guardata la cronologia grafica in mostra (che dalla Rivoluzione haitiana arriva al movimento Black Lives Matter). E il paesaggio sonoro del compositore e sound artist sudafricano Neo Muyanga, che riecheggia di musiche provenienti da tutto il mondo in risposta ai vari capitoli della mostra.

Stilisticamente, invece, si può dire che la signora Kouoh abbia preferito dar voce a una moltitudine di dialetti della stessa lingua madre, visto che pur esponendo artisti figurativi (il più delle volte pittori) ci fa notare quanto le loro forme espressive si discostino le une dalle altre con tessuti e glitter che fanno la loro comparsa accanto a pennellate e tavolozze ben distinte.

Pur se tutte le opere sono accostate o giustapposte per mettere in luce nuove similitudini (che senza il loro incontro non sarebbe stato possibile cogliere)

Nell'ultimo decennio- ha detto la curatrice- la pittura figurativa di artisti neri ha raggiunto una nuova importanza nell'arte contemporanea. Non c'è momento migliore per una mostra di questa natura, che collega queste pratiche e rivela i contesti storici più profondi e le reti di genealogie artistiche complesse e sottorappresentate che derivano dalle modernità africane e nere; una mostra che dimostra come più generazioni di tali artisti si siano deliziate e si siano impegnate in modo critico nel proiettare varie nozioni di nerezza e africanità”.

Le opere poi, lungi dall’essere appese su muri bianchi senza nulla che distragga lo sguardo, sono evidenziate da pareti intensamente laccate, con colori in qualche modo contrastanti per rendere ancora più drammatico il passaggio da un punto di vista all’altro. Anche in questo Koyo Kouoh dimostra momenti di contatto con lo stile curatoriale del brasialiano Adriano Pedrosa (dirige il Museu de arte de São Paulo e ha firmato la scorsa edizione della Biennale di Venezia).

When We See Us”, esteticamente, è una mostra dalla forte personalità e, malgrado sia fuori dagli schemi, non rinuncia né a lavorare su una Storia dell’arte in versione black, né a riflettere sugli strumenti di lavoro necessari ad una nuova critica. Come testimoniano le tante pubblicazioni messe a disposizione dei visitatori (monografie, cataloghi di mostre, testi di teoria critica e raccolte, compresi scritti importanti che hanno plasmato il canone storico dell'arte nera). La scelta di evitare il solito copione (incluso il razzismo) poi, è segno di una acuta sensibilità (molto femminile) che sottolinea la forza, la libertà e l’autosufficienza delle persone di colore.

When We See Us” è il risultato dell’ampia ricerca di Koyo Kouoh sull’arte nera e rimarrà nelle spaziose sale dell’edificio liberty in cui ha sede il Bozar (nel cuore del quartiere reale di Bruxelles) fino al 10 agosto 2025. All’esposizione il museo ha affiancato eventi di ogni genere (concerti, conferenze, dibattiti, aperture notturne, visite guidate, film, spettacoli, e persino videogiochi).

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Otis Kwame Kye Quaicoe, View of Yoei William, 2020.© Courtesy the artist and Roberts Projects, Los Angeles, California; Foto Mario Gallucci

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Wangari Mathenge (b.1973, Nairobi, Kenya) Sundials and Sonnets 2019 Oil on canvas CollecƟon of Pascale M. Thomas and Tayo E. Famakinwa, courtesy of Roberts Projects, Los Angeles, California © Courtesy of the arƟst and Roberts Projects, Los Angeles, California; Photo Robert Wedemeyer

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Thenjiwe Niki Nkosi (b.1980, New York City, USA) Ceremony 2020 Oil on canvas Courtesy of Homestead CollecƟon © Thenjiwe Niki Nkosi. Courtesy of Stevenson, Amsterdam/Cape Town/Johannesburg. Photo Nina Lieska

Bozar When We SeeUs Credit: Julie Pollet

Zandile Tshabalala (b.1999, Soweto, South Africa)Two Reclining Women 2020 Acrylic on canvas Courtesy of the Maduna CollecƟon © Zandile Tshabalala Studio

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

BOZAR, When We See Us Photo credit: We Document Art

BOZAR, When We See Us Photo credit: We Document Art

Koyo KOUOH, portrait. Courtesy of Zeitz MOCAA

“The Evidence of Things Not Seen” la più grande mostra di Carrie Mae Weems in Svizzera, ancora per poco a Basilea

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Una donna e una bambina siedono al tavolo della cucina, la luce cade dall’alto, il lampadario a forma di cono ricorda il chiarore emanato da un occhio di bue, entrambe le protagoniste si mettono il rossetto con movimenti speculari. “Woman and Daughter with Make Up” parte di “Kitchen Table”, la serie più famosa dell’artista statunitense Carrie Mae Weems, è probabilmente una delle immagini più belle della storia dell’arte recente. Nella sua finta spontaneità, la fotografia in bianco e nero costruita con attenzione da Weems (che qui è sia autrice che modella), parla di costrutti sociali che incidono sul sé, unione e separazione, vicinanza e solitudine, identità di genere, presente e futuro.

Ho sempre avuto un esercizio di autoritratto nelle mie lezioni- ha detto Weems che, nel tempo. ha insegnato fotografia in varie università degli Stati Uniti -Invariabilmente, tutte le studentesse erano in qualche modo coperte (…) Facevano sempre qualcosa per oscurare la chiara visione di se stesse. Perché le donne sono sempre state interessate ad essere oggetti, perché siamo state addestrate ad essere oggetti (…)”.

Questa immagine, insieme alle altre che costituiscono la serie “Kitchen Table”, fa parte della vasta retrospettiva “The Evidence of Things Not Seen” che il Kunstmuseum Basel (il museo d’arte contemporanea di Basilea) ha dedicato a Carrie Mae Weems: la prima artista afroamericana invitata a fare una personale al Guggenheim di New York (2012), la prima donna di colore a vincere il prestigioso premio internazionale di fotografia Hasselblad Award (2023). D’altra parte la mostra, la più grande che la Svizzera le abbia mai tributato, che si basa su altre esposizioni simili che dal 2022 si sono tenute in alcuni musei europei (Württembergischer Kunstverein di Stoccarda, Fundación MAPFRE e Fundación Foto Colectania di Barcellona, Barbican Centre di Londra), mette in fila ben trentacinque anni di lavoro dell’artista, attraverso un corpus di opere notevole: video, installazioni, testi e naturalmente fotografie.

Untitled (Eating Lobster), The Kitchen Table Series, Carrie Mae Weems, 1990/1999. Silver gelatin print,104.7 x 104.7 x 5.7 cm © bei der Künstlerin / the artist Courtesy of the artist and Gladstone Gallery

Il mezzo che Weems ama di più: “Credo- ha detto una volta- che la prima volta che ho preso in mano quella macchina fotografica, ho pensato: 'Oh, OK, questo è il mio strumento. Questo è tutto'” Allora, Weems aveva vent’anni e la macchina gliela aveva regalata il suo ragazzo dell’epoca: da quel momento in avanti Weems non avrebbe più smesso di fotografare. All’inizio concentrandosi su quello che meglio conosceva e sulla documentazione della realtà: dedica una serie alla vita nella sua città (“Environmental Profits” del ’78) e una ai rapporti tra lei i suoi familiari ed amici (“Family Pictures and Stories”, anche questa cominciata nel ’78 ma finita cinque anni dopo). Per poi capire che per lei fare fotografie significava anche mettere in scena. Talvolta in maniera ricercata, con soggetti che emergono dal buio dello sfondo, a cui sembrano voler ritornare da un momento all’altro, senza, tuttavia mostrarsi mai al mondo. E’ il caso della serie “The Louisiana Project” in cui le maschere che occultano le persone diventano modi per esprimere commenti sulla razza, filtri tra se e gli altri, dimostrando contemporaneamente, in maniera distorta, la propria identità senza però mai dimenticare lo sguardo altrui.

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Gina Folly

Del resto Carrie Mae Weems, nata nel ’53 a Portland in Oregon, durante il periodo della sua formazione ha studiato folklore all’Università della California di Berkeley, ed è naturale che abbia finito per affrontare il tema delle maschere e della teatralità. Nell’opera di Weems, ad ogni modo, l’ingiustizia, la maniera in cui la società rimodella l’identità sulla base della razza e del genere, sono argomenti che tornano costantemente, e non fa eccezione “The Louisiana Project” (così come le altre create dall’artista). In un’intervista, lei ha spiegato: “Da giovanissima ero già un esistenzialista. Quando avevo otto anni uscivo dai gradini di casa mia e guardando il cielo mi chiedevo perché eravamo qui in questo posto e quale sarebbe stato il mio ruolo nella vita. Mi interessavano la politica e la giustizia sociale. Cosa significava vivere una vita aperta e libera? Quali erano i problemi profondi dell’umanità che insistevano sul fatto che il ruolo del potere fosse quello di sottomettere gli altri? Qual è la voce dei soggiogati, degli oppressi, degli abbattuti e dei terrorizzati, e come si esprime quella voce? Tutto questo mi ha interessato molto presto, ma allora non sapevo come esprimerlo (…)

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Weems naturalmente ha particolarmente a cuore i diritti degli afroamericani. A Basilea tra le opere in mostra c’è persino un’installazione (“Land of Broken Dreams: A Case Study” del 2021) in cui sono stati esposti veri cimeli del Black Panther Party, mischiati a riviste degli anni ’60-’70 in cui sono documentate violenze verso i neri. Senza contare le fotografie che ha scattato nella sua città natale dopo l’assassinio di George Floyd: qui Weems ha immortalato particolari di vetrine murate e graffiti cancellati, più e più volte, fino a costruire un lirico omaggio alla pittura dimenticata degli espressionisti astratti americani di colore.

Preservare la memoria di attrici e cantanti afroamericane del passato è invece stato il pensiero alla base del gruppo di immagini sfocate a loro dedicate, in cui l’artista, per conservare il loro ricordo, le ha rese inafferrabili fantasmi. Weems si è poi creata un alter-ego che un po’ quelle dive le ricorda, con il suo lungo abito nero, e che compare, in varie, sue serie (in genere lo usa per rimarcare l’inacessibilità o l’esclusività di determinati luoghi).

“The Evidence of Things Not Seen” di Carrie Mae Weems al Kunstmuseum Basel (il museo d’arte contemporanea di Basilea), a cura di Maja Wismer con Alice Wilke, si potrà visitare fino al 7 aprile 2024.

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Department of Lavorare - Mussolini's Rome, Roaming, Carrie Mae Weems, 2006 Digital C-print 186.531 x 156.21 x 6.66 cm © bei der Künstlerin / the artist Courtesy of the artist and Galerie Barbara Thumm

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Gina Folly

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Gina Folly

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Carrie Mae Weems, Medienkonferenz, The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel, Gegenwart, 24.10.2023 Photo Credit: Julian Salinas

“Ground Break”: Performances e sculture impossibili di oggetti trovati in giro per Harlem da Nari Ward, tra poco a Milano

Nari Ward Hunger Cradle, 1996 (particolare) Filo, corda e materiali trovati Installazione site specific Dimensioni variabili Veduta dell'installazione, "Global Vision: New Art From The '90s (Part II)", Fondazione Deste, Atene, 1998 Collezione privata Courtesy the artist Foto: Fanis Vlastaras and Rebecca Constantopoulou

Artista newyorkese di origine giamaicana attivo fin dai primi anni ’90, Nari Ward, crea complesse installazioni, composizioni fatte di oggetti trovati in giro per il suo quartiere (Harlem), con cui riconfigura l’estetica del quotidiano e intesse di riferimenti alla storia dell’arte più recente un viscerale sentimento di nostalgia. Si potrebbe addirittura dire “nostalgia del presente”, parafrasando l’artista Pop britannica Pauline Boty, per il continuo rinnovamento che impone agli scarti attraverso il suo lavoro (non si limita a usarli per le sue sculture ma li giustappone in maniere sempre differenti, li fa diventare parte di performances, osserva le reazioni che suscitano in pubblici provenienti da contesti diversi ecc.), se non fosse che Ward usa la sua opera per parlare di problemi sociali.

A volte di vere e proprie tragedie. Ad esempio, “Amazing Grace” (una delle installazioni con cui si è importo al pubblico internazionale già nel ’93), composta da centinaia di passeggini ammassati lasciati in penombra mentre il pubblico si muove in mezzo ad essi su un vialetto tortuoso fatto di manichette d’idranti, parla dell’impatto dell’AIDS sulle comunità afroamericane, la giornalista Marta Schwendener ha scritto a proposito: “Ward ha trovato tutti i passeggini per questo lavoro abbandonati nelle strade di Harlem all'inizio degli anni '90, al culmine della crisi dell'AIDS e di un'epidemia di droga che colpì in modo sproporzionato i residenti”.

Gli sono più cari i temi che toccano la comunità nera come il colonialismo, la gentrificazione dei quartieri storicamente black, oltre a diseguaglianze ed emarginazione. Nel corso del tempo, tuttavia, Ward ha affrontato anche argomenti molto meno penosi come la spiritualità o la necessità di esprimere e stessi in modi apparentemente bizzarri. Gli piace anche porsi domande sul confine che separa pubblico e privato, o su quello che passa tra arte e creatività individuale fine a se stessa. Alla base del suo lavoro c’è naturalmente il consumismo, visto che le sue sculture sono spesso fatte di rifiuti, ma lui punteggia l’analisi della società dei consumi con osservazioni allo stesso tempo ironiche e spiazzanti. Come quando tratta i materiali: Ward, infatti, ha l’abitudine di invecchiare o semplicemente modificare la tessitura di alcuni di essi in modo paziente e laborioso, utilizzando dei prodotti apparentemente innocui come zucchero e bevande a base di soda (che oltre a corrodere indicano gruppi sociali del presente e abitudini del passato).

Nato nel ’63 a St. Andrew in Giamaica, Nari Ward, è arrivato negli Stati Uniti quando aveva solo 12 anni, dove ha studiato, fino a completare la sua formazione all’Hunter College, prima e al Brooklyn College, poi (lì ha conseguito un master in fine arts). Già da parecchi anni vive in una ex caserma dei pompieri di Harlem dove aveva inizialmente esposto le sue opere. E, nonostante il successo raggiunto in giovane età ne abbia fatto un cittadino del mondo, lui continua a mantenere un legame profondo con il suo quartiere, con la città e la comunità afroamericana, che si percepisce anche in opere recenti.

Dal prossimo 28 marzo Nari Ward sarà protagonista di un’importante retrospettiva al Pirelli Hangar Bicocca di Milano intitolata “Ground Break”. L’esposizione, curata da Roberta Tenconi e Lucia Aspesi, sarà modellata intorno al concetto di “memoriale di strada” cioè “uno spazio devozionale e spirituale di scambio non connotato da simbologia religiosa e reso tale dalle memorie collettive” che sarà anche il fulcro dell’opera realizzata su commissione dello spazio espositivo milanese, da cui prende il nome la mostra: “Groud Break”, appunto. Quest’ultima, concepita anche come un palcoscenico, sarà composta da 4mila mattoni rivestiti di rame posti a terra a comporre dei disegni astratti e sarà la versione ampliata di un lavoro precedente. Per dargli vita è previsto un programma di spettacoli che verranno eseguiti da vari performers e musicisti. D’altra parte, la mostra sarà centrata su collaborazione e performatività nel lavoro di Ward, quindi non avrebbe potuto essere altrimenti. Ma ci saranno anche tanti lavori capaci di fare una panoramica della storia artistica dello statunitense: ben 30 tra installazioni, sculture e video (verranno proposte anche opere grandi dal forte impatto spettacolare e evocativo come “Hunger Cradle” (del 1996, una ragnatela di corde sospende a mezz’aria una varietà di oggetti pesanti che i visitatori sono chiamati ad attraversare), o poco esposte al pubblico come le scenografie per la performance “Geography Trilogy” di Ralph Lemon.

Ground Break” di Nari Ward procederà in abbinata alla mostra già in corso, Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse.” dell’italiana Chiara Camoni fino alla pausa estiva del Pirelli Hangar Bicocca di Milano (il vasto spazio espositivo èad accesso gratuito anche durante gli eventi).

Nari Ward Carpet Angel, 1992 The Museum of Contemporary Art, Los Angeles Dono di Jennifer McSweeney in onore di Joan "Penny" McCall Foto Matthew Hermann

Nari Ward Happy Smilers: Duty Free Shopping, 1996 Tenda da sole, bottiglie di soda, manichette antincendio, scala antincendio, sale, elementi domestici, registrazione audio, altoparlanti e pianta di aloe Dimensioni variabili Veduta dell'installazione, “Nari Ward: Happy Smilers”, Deitch Projects, New York, 1996 Courtesy l’artista e Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seul, e Londra, e GALLERIA CONTINUA

Nari Ward Savior, 1996Carrello, sacchi della spazzatura di plastica, stoffa, bottiglie, recinzione metallica, terra, ruota, specchio, sedia e orologi 325,1 x 91,4 x 58,4 cm Institute of Contemporary Art, Boston Collection; Acquistato grazie alla generosità di un donatore anonimo. Veduta dell'installazione, "Nari Ward: RePresence", Nerman Museum of Contemporary Art, Johnson County Community College, Overland Park, Kansas, 2010. Courtesy l’artista e Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seul, e Londra Fotografia di EG Schempf

Nari Ward  Ground (In Progress), 2015 Rame, patina oscurante, 702 mattoni 9 sezioni da 78 mattoni 6,4 x 121,9 x 121,9 cm (ogni sezione) 6,4 x 365,8 x 365,8 cm (complessivamente come installato)Veduta dell'installazione, "Nari Ward: Breathing Directions", Lehmann Maupin, New York, 2015 Courtesy l'artista e Lehmann Maupin, m New York, Hong Kong, Seoul e Londra, e GALLERIA CONTINUA Foto Max Yawney

Nari Ward Ground (In Progress), 2015 (particolare) Rame, patina oscurante, 702 mattoni 9 sezioni da 78 mattoni 6,4 x 121,9 x 121,9 cm (ogni sezione) 6,4 x 365,8 x 365,8 cm (complessivamente) Courtesy l'artista e Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seoul e Londra, e GALLERIA CONTINUA Foto Max Yawney

Nari Ward Apollo/Poll, 2017 Acciaio, legno, vinile e luci LED  914 x 365,8 x 121,9 cm Veduta dell’installazione, Socrates Sculpture Park, New York, 2017 Commissionato da Socrates Sculpture Park, New York Courtesy l’artista e Lehmann Mauping, New York, Hong Kong, Seoul e Londra

Nari Ward Crusader, 2005 Sacchetti di plastica, metallo, carrello della spesa, elementi per trofei, bitume, lampadario e contenitori di plastica 279,4 x 129,5 x 132,1 cm Courtesy l’artista e Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seul, e Londra Foto EPW Studio / Maris Hutchinson

Nari Ward Ritratto Courtesy l’artista e Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seoul e Londra Foto Axel Dupeux