Sir Michael Craig-Martin, il maestro di Damien Hirst e tutta la banda degli YBA, tra colori allegri e critiche feroci

Michael Craig-Martin, Common History: Conference, 1999. Acrylic on aluminium, 274 x 508 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Image courtesy of Gagosian

Adesso che ha 83 anni l’origine irlandese di Michael Craig-Martin, appare molto più chiara nei suoi tratti di quando frequentava la scuola d’arte negli Stati Unit; a testimonianza di quegli anni oltre oceano invece, pare conservi un accento americano che non riesce a cancellare nonostante abiti a Londra dal ’66. Ed è strano visto che il signor Craig-Martin dichiara di amare la città in cui vive. Senza contare che in Inghilterra, le sue gioiose e coloratissime immagini che effigiano oggetti della vita quotidiana hanno da tempo sfondato i muri delle gallerie d’arte per raggiungere il grande pubblico sotto forma di francobolli della Royal Mail, o borse della spesa della catena di supermercati Sainsbury's e lui è famosissimo per essere stato l’insegnate di Damien Hirst, Sarah Lucas, Gary Hume, Michael Landy e altri (cioè l’intero gruppo degli YBA, gli Young British Artists). Sull’onda del successo di quell’esperienza ha anche scritto un libro utile ad aiutare i giovani artisti a trovare la loro strada (“On Being an Artist”).

Tuttavia il suo nome non è conosciuto quanto quello di molti dei suoi ex-studenti. E questo nonostante Michael Craig-Martin sia stato nominato Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico nel 2001 e la sua attività espositiva si sia fatta più intensa e prestigiosa già da alcuni anni a questa parte. Adesso la Royal Academy of Arts gli dedica una retrospettiva che copre sessant’anni della sua carriera e dovrebbe consegnarlo alla storia dell’arte. Con 120 importanti opere ideate dagli anni'60 a oggi, tra cui sculture, installazioni, dipinti e disegni, comprende anche dei nuovi lavori concepiti per l’occasione.

In merito il signor Craig-Martin ha detto in un’intervista: “Pensavo che la possibilità di fare una mostra retrospettiva di questa portata nel Regno Unito fosse andata perduta, ma eccola qui. Difficilmente potrebbe essere più tardi, ma, in un altro modo, sta accadendo esattamente al momento giusto".

Michael Craig-Martin, An Oak Tree, 1973. Glass, water, metal and printed text on paper, 15 x 46 x 14 cm. Artist’s proof, shown with permission of the National Gallery of Australia. © Michael Craig-Martin. Image courtesy of Gagosian 

La mostra comincia dal periodo concettuale dell’artista irlandese in cui spicca “An Oak Tree” (“Una Quercia”) del 1973. Un’opera unanimamente apprezzata dalla critica e di cui, chiunque si sia interessato della storia dell’arte più recente, ha sentito parlare almeno una volta. Composta da un bicchiere d’acqua appoggiato su una mensola a parete, a cui è affiancato un testo che spiega in che modo tutto ciò è in realtà un albero (“Quello che ho fatto è trasformare un bicchiere d'acqua in una quercia adulta senza alterare gli accidenti del bicchiere d'acqua”), l’opera è stata definita dal critico britannico Jonathan Jones (che non ha l’abitudine di essere particolarmente clemente con gli artisti cui dedica una recensione): “Un incontro tra Tommaso d'Aquino e Monty Python”. Secondo lui, infatti, la questione avrebbe a che fare con la religione cattolica del signor Craig- Martin e con l’eucarestia, per spiegare la quale d’Aquino avrebbe fatto ricorso alla filosofia di Aristotele (“mentre gli ‘accidenti’- le apparenze superficiali- del pane e del vino sono immutati, l'’essenza’ si trasforma nella santa presenza del corpo di Cristo”). C’entrano poi i ready made (oggetti prelevati tali e quali dalla vita quotidiana e collocati nel museo) di Marcel Duchamp e il dipinto che rappresenta una pipa di René Magritte e che si intitola “Questa non è una pipa”. Il risultato è un lavoro affasciante, frizzante d’ironia, ma che pone questioni serie. Talmente serie che, quando “An Oak Tree” volò in Australia per una mostra al museo di Auckland, venne fermato dal dipartimento agricolo della dogana, ben deciso a non permettere a una specie vegetale non autoctona di entrare nel Paese. Qui il signor Craig-Martin fu costretto ad ammettere che, com’era evidente a tutti, il bicchiere d’acqua non era una quercia ma un bicchiere d’acqua.

Michael Craig-Martin, Untitled (corkscrew), 2014. Acrylic on aluminium, 122 x 122 cm. Private col-lection. © Michael Craig-Martin. Photo: Mike Bruce. Image courtesy of Gagosian

Non sarà su questa giovanile passione per il linguaggio concettuale, tuttavia, che si concentrerà la carriera di Michael Craig-Martin ma sorprendentemente sulla pittura: acrilici su alluminio declinati in una tavolozza splendente di gioiosi toni accesi e murales. La sua opera, infatti, effigia oggetti della vita quotidiana il più possibile attuali e duraturi (un biberon, una spilla da balia, un bicchiere take-away ecc.), disegnati con un tratto semplificato e lineare, per creare un vocabolario rassicurante di immagini onnipresenti e sottovalutate: “Pensavo- ha detto- che gli oggetti a cui diamo meno valore perché sono onnipresenti fossero in realtà i più straordinari”. Ma soprattutto per riflettere sullo spazio che separa la rappresentazione dal soggetto: “Il mio soggetto- ha spiegato- è ovvio: oggetti creati dall'uomo, cose utili. Ma non è questo il mio lavoro. Si tratta di un'esplorazione del miracolo delle immagini bidimensionali”.

Michael Craig-Martin, Untitled (painting), 2010. Acrylic on aluminium, 200 x 350 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Photo: Dave Morgan. Image courtesy of Gagosian

Nato nel 1941 a Dublino, Michael Craig-Martin, si è trasferito ancora bambino a Washington DC. Di quel periodo ha raccontato:” Sono cresciuto nell'America degli anni '50. Era l'età dell'oro dell'auto americana, con pinne e verniciatura bicolore, così glamour”. Ma il suo immaginario visivo infantile è stato segnato anche da suggestioni più antiche: "Sono cresciuto come cattolico in un mondo di immagini. In chiesa c'erano vetrate colorate e i preti indossavano abiti elaborati per la messa; c'erano accessori decorativi di ogni tipo. Era un ambiente molto visivo e mi ha incantato fin da piccolo”. In effetti i colori vivi e il cloisonne netto che separa le campiture nelle vetrate nelle chiese, restano riferimenti moto evidenti in tutta la sua opera.

Frequenta una scuola elementare cattolica gestita da suore e una scuola benedettina inglese (un sacerdote era un’artista e anche lui comincia ad interessarsi all’arte; in quel periodo in oltre vede i dipinti di MarK Rotko). Poi il padre, che era un economista della Banca Mondiale, viene trasferito in Colombia e il giovane Michael inizia il Lycée Français di Bogotà dove segue le lezioni di disegno dell’artista colombiano Antonio Roda (pure lui un riferimento importante per la sua formazione). Nel ’59 è di nuovo negli Stati Uniti e si iscrive alla Fordham University di New York, comincia a dipingere e l’estate del ’61 la trascorre alla Académie de la Grande Chaumière di Parigi (come tutti gli aspiranti artisti dell’epoca). Nell’autunno dello stesso anno, Craig-Martin, frequenterà il corso di pittura della prestigiosa Yale University, insieme a lui Richard Serra e altri giovani che si sarebbero affermati negli anni immediatamente successivi. Lui dovrà aspettare più a lungo.

Nel frattempo le teorie minimaliste e processuali di uno degli insegnanti, Josef Albers (uno dei nomi più noti del movimento Bauhaus) lasciano il segno (a dire il vero non solo su di lui: il cambiamento culturale era già in atto, la pittura cominciava a sembrare obsoleta).

Pur avendo sempre trovato Washington provinciale, il Signor Craig Martin sarebbe rimasto oltre oceano se avesse visto la possibilità di fare qualcosa di ben remunerato negli Stati Uniti, ma non crede ci siano chance e si trasferisce a Londra (lì insegnerà fino all’88). Durante il periodo di Yale si era sposato e aveva avuto una figlia ma nel ’76 si dichiara apertamente gay. Il suo lavoro, tuttavia, non viene influenzato più di tanto da questi scombussolamenti della vita privata.

Michael Craig-Martin, Untitled (papercup), 2014. Acrylic on aluminium, 122 x 122 cm. Courtesy Gagosian. © Michael Craig-Martin. Photo: Mike Bruce. Image courtesy of Gagosian

Passato il periodo concettuale l’artista irlandese comincia a riprodurre oggetti della quotidianità, più spesso sui muri, ma con il nastro adesivo e senza nessun colore. Per vedere il suo stile definitivo dovremo aspettare gli anni 90 quando lui era intorno alla cinquantina d’anni. Da allora grandi formati, linee nere che delimitano in maniera semplice e lineare i disegni, grandi campiture di colori accesi che non hanno niente a che vedere con quelli del soggetto originale (dice di usarli per suggerire la consistenza delle varie parti). Fa ancora enormi opere murarie ma più spesso dipinge con rulli intrisi di vernici industriali su alluminio. Nel tempo, tuttavia, il suo vocabolario di oggetti d’uso quotidiano si è modificato, e le forme costose ma onnipresenti degli smartphone o dei computer portatili meno ingombranti, hanno fatto la loro comparsa.

Oggi la sua opera è considerata un momento di sintesi tra Pop Art, Minimalismo e Arte Concettuale (anche se a lui, per qualche motivo, non piace chiamarla così). Ed è piacevole, davvero piacevole da vedere. Ma questo non lo ha protetto dalle recensioni feroci (anche in occasione di quest’ultima importate mostra i critici inglesi si sono sbizzarriti), tanto che una volta il curatore britannico Brian Sewell si è spinto a dire: “Come artista Craig-Martin merita solo derisione”. Il signor Craig-Martin ha così commentato la questione in un’intervista: “Quando una persona molto istruita si imbatte in un'arte che le sfugge, ne è così sconvolta che deve liquidarla come fraudolenta o falsa”.

La retrospettiva di Michael Craig-Martin alla Royal Academy of Arts di Londra, curata dal segretario e amministratore delegato del museo Axel Rüger, con le curatrici assistenti Sylvie Broussine e e Colm Guo-Lin Peare, si chiuderà il 10 dicembre 2024.

Michael Craig-Martin, Eye of the Storm, 2003. Acrylic on canvas, 335.3 x 279.4 cm. Collection Irish Museum of Modern Art, Purchase, 2005. © Michael Craig-Martin. Photo: Prudence Cuming Associates Ltd. Image courtesy of Gagosian

Michael Craig Martin, Untitled (four laptops blue), 2024. Acrylic on aluminium, 250 x 240, Gagosian, London. © Michael Craig-Martin. Photo: Lucy Dawkins. Image courtesy of Gagosian

Michael Craig Martin, Sea Food, 1984. Steel rod and oil paint on aluminium, 228.6 x 172.7, Waddington Custot, London. © Michael Craig-Martin

Tra poco aprirà la Summer Exhibition della Royal Accademy mentre in UK ci si chiede se sia un abitudine da proteggere o da abolire

“The Meddling Fiend” (2024). Installation view at the Royal Academy of Arts, London. Photos by Maxwell Attenborough. All images © Nicola Turner

Fondata nel 1768, la Royal Accademy of Arts di Londra, dall’anno successivo, tutte le estati, organizza una collettiva un po’ particolare. Si tratta della mostra di arte contemporanea più longeva del mondo, e vi hanno esposto maestri intramontabili dell’arte britannica come Turner e Constable ma anche, in tempi più recenti, star come Tracey Emin (che nel 2025 sarà in Italia per un’attesa personale a Palazzo Strozzi di Firenze). Però è un evento aperto ai non professionisti, che vengono selezionati da un comitato di artisti già membri dell’accademia reale e dal presidente della Royal Accademy in persona. Si intitola “Summer Exhibition” e sta per essere inaugurata anche quest’anno. Tuttavia, secondo le opinioni dei commentatori, avrebbe perso tutto l’antico smalto.

Un parere condiviso dal critico d’arte britannico, Jonathan Jones, che in una bella e accalorata recensione apparsa su The Guardian ha scritto: “Solo perché la Royal Academy Summer Exhibition è in corso dal 1769 non significa che debba continuare per sempre (...) Io voto contro”.

La “Summer Exhibition” si svolge a Burlington House, nel centralissimo quartiere di Piccadilly, si tratta di un’esposizione incredibilmente estesa e in cui la maggior parte dei lavori presentati è in vendita. Tanto che il sito della Royal Accademy ha scritto: “(…) con un numero di opere disponibili per meno di £ 250, rendendo questa l'occasione perfetta per iniziare la tua collezione d'arte. Le vendite della Summer Exhibition sostengono gli artisti espositori e il lavoro di beneficenza della RA, inclusa la formazione della prossima generazione di artisti nelle scuole della Royal Academy.” Chiunque voglia essere preso in considerazione può mandare la sua candidatura per un massimo di due opere (fino a poco tempo fa per ognuna di queste si pagavano 40 sterline ma dato il numero esorbitante delle richieste la cifra è da poco aumentata). Sia come sia, ogni anno vengono scleti almeno un migliaio di pezzi (in genere artigianali, anche se nulla vieta che nel numero si nasconda qualche perla grezza), cui si aggiungono quelli degli artisti del comitato di selezione e di qualche altro nome noto.

Quest’anno in tutto si tratta di ben mille e duecento lavori. La coordinatrice è la scultrice britannica Ann Christopher (nata nel ’47, famosa per le forme semplici e misteriose cui arriva prendendo spunto da varie fonti come quelle architettoniche, naturali o paesaggistiche) che ha detto di essersi ispirata all’idea di creare spazio: “Ho intenzione di esplorare l'idea di creare spazio, sia dando spazio che prendendo spazio. Questo può essere interpretato in vari modi: fare spazio può significare apertura – fare spazio a qualcosa o qualcuno, fare spazio anche tra le cose. Sono convinta che gli spazi intermedi siano importanti quanto qualunque cosa quegli spazi separino”. Sarà, ma in mostra però, almeno a giudicare dalle fotografie, di spazio pare restarne proprio pochino (la quantità di cose esposte dà l’impressione di farsi sentire, anche se l’installazione, di gusto molto british, sembra equilibrata e gradevole).

Insieme a lei sono stati invitati altri artisti conosciuti come: Ackroyd & Harvey, Vivien Blackett, Diana Copperwhite, Andrew Pierre Hart, Permindar Kaur, Radhika Khimji, Kathy Prendergast, Rachel Whiteread e Charmaine Watkiss. Sono inoltre esposte opere di Ron Arad, Frank Bowling, Michael Craig-Martin, Conrad Shawcross, Clare Woods e Rose Wylie. C’è anche un lavoro di Anselm Kiefer (ancora per poco protagonista di una mostra imperdibile, sempre a Palazzo Strozzi) che Jonathan Jones ha commentato così: “La colossale xilografia di girasoli con centri neri di Anselm Kiefer, fiori da incubo incisi profondamente nella carta, penetra nella tua immaginazione come fantasmi su un campo di battaglia che spuntano dalle ossa dei soldati morti. Eppure è ridicolo appenderlo accanto a una serie di piccole composizioni floreali di natura morta. Questo splendore tedesco circondato dalla vacuità britannica nelle mostre delle Fawlty Towers (sitcom made in England ndr) ti fa chiedere: come abbiamo vinto la guerra?

Del resto Kiefer (come diversi altri famosi artisti tra cui di nuovo un gigante come David Hockney) proprio durante la Summer Exhibition della RA è stato premiato con il Charles Wollaston Award. Infatti, nel corso dell’esposizione vengono assegnate circa 70 mila sterile di premi in denaro tra cui il Charles Wollaston Award (25mila) e uno conferito per l’architettura (10mila).

L’architettura in genere ha uno spazio importante nella mostra. Anche quest’anno è così, e a coordinare questo settore è stato chiamato il collettivo inglese Assemble, in passato vincitore del prestigioso Turner Price (sempre molto britannico-centrico ma di importanza internazionale) e accademico reale. Poi altri architetti tra cui Elsie Owusu e Nigel Coates, lo studio creativo e Structure Workshop e ancora il collettivo artistico, Cooking Sections. Per il resto progetti artigiani e prototipi di ogni genere. I membri di Assemble hanno dichiarato: “Abbiamo accolto con favore proposte che si concentrano e riflettono sul fare come processo, opere incompiute, campioni di materiali, prototipi industriali, modelli funzionanti, manufatti di spazi di lavoro ed elementi agricoli. Creare spazio è un processo complesso, sfaccettato e collaborativo abbiamo fortemente incoraggiato collettivi, individui o organizzazioni al di fuori del mondo dell’architettura e dell’arte a contribuire”.

Nel cortile della Royal Accademy, infine, è stata invitata la scultrice inglese, Nicola Turner, per creare un’opera capace di dialogare in maniera diretta con il ritratto bronzeo del pittore, fondatore e primo presidente dell’istituzione, Sir Joshua Reynolds (la statua firmata da Alfred Drury, fu installata nel 1931). Turner con un importante passato come scenografa (ha lavorato nei teatri più importanti del mondo dalla Royal Opera House all’Opera di San Francisco) in genere usa oggetti trovati ma soprattutto materiali organici di recupero, come crine di cavallo e lana vergine prelevata così com’era dopo la tosatura, per dar vita a forme tentacolari, scure ed imbottite. Lo ha fatto anche alla RA, dove adesso si trova: “The Meddling Fiend”. L’opera si arrampica e si annoda intorno al piedistallo di Reynolds per poi espandersi ed allungarsi da dietro il pittore fino a congiungersi al suo pennello (è stato rappresentato così, intento a dipingere). La scena che ne esce è in bilico tra l’incontro alieno e l’immaginazione di Reynolds che prende vita. Del resto le creature di Turner sono sempre ambivalenti, scure e prive di testa come sono, a volte fanno pensare a ragni, altre ad ammassi di enormi lumache senza guscio, altre ancora a polipi dall’aria poco simpatica, ma soprattutto a forme di vita extraterrestri. Non si capisce mai se i loro approcci al paesaggio, piuttosto che alla statua di Reynolds, come in questo caso, siano amichevoli o aggressivi. In genere suscitano inquietudine e curiosità nello spettatore. Sul suo sito internet c’è scritto: “Turner indaga la dissoluzione dei confini, gli stati liminali e gli scambi continui tra gli ecosistemi. Nel farlo, esplora l'interconnessione tra vita e morte, umano e non umano, attrazione e repulsione. Combina oggetti trovati che contengono tracce di memoria, con le forme di forme viventi e materiali di materia organica ‘morta’ come il crine di cavallo, un materiale usato in precedenza per la biancheria da letto e l'arredamento e, in tal senso, vivo di storia e memoria”. Tuttavia “The Meddling Fiend”, con al posto dei piedi le gambe lingnee a rotelle di mobili d’epoca, ha un ché di goffo e insicuro nella postura che ispira un certo grado di fiducia (che però le varie circonvoluzioni dei tentacoli vanificano).

La “Summer Exhibition 2024” della la Royal Accademy of Arts di Londra aprirà al pubblico il prossimo 18 giugno, mentre la chiusura è fissata per il 18 agosto. Chi la visiterà potrà vedere opere di vario genere a firma di alcuni accademici reali e tanti sconosciuti, per farsi un’idea se davvero sia una consuetudine inglese da abolire o una bizzarra anomalia da salvaguardare. Mentre nel cortile ad accogliere il pubblico, oltre alla statua di Sir Reynolds, troverà gli enormi tentacoli imbottiti di “The Meddling Fiend” di Nicola Turner.

“The Meddling Fiend” (2024). Installation view at the Royal Academy of Arts, London. Photos by Maxwell Attenborough. All images © Nicola Turner

“The Meddling Fiend” (2024). Installation view at the Royal Academy of Arts, London. Photos by Maxwell Attenborough. All images © Nicola Turner

“L’Ultima Cena” scultorea, laica e all black di Tavares Strachan alla Royal Academy

Installation view of “The First Supper (Galaxy Black)” (2023), bronze, black patina, and gold leaf, 217.3 x 928.6 x 267.9 centimeters. Installation view of ‘Entangled Pasts, 1768-now. Art, Colonialism and Change’ at the Royal Academy of Arts, London. All photos by Jonty Wilde, courtesy of the artist, Perrotin, and Glenstone Museum, Potomac

Si intitola “The First Supper” la scultura di Tavares Strachan, installata davanti alla Royal Academy of Arts di Londra, in occasione della importante mostra “Entangled Pasts, 1768–now” (sotto testo: “Art, Colonialism and Change”) in cui i grandi del passato (bianchi) dialogano con alcuni affermati artisti contemporanei (non bianchi) con l’obbiettivo di ‘decolonizzare’ l’istituzione inglese, ed è una rivisitazione laica ed all black de “L’Ultima Cena” di Leonardo da Vinci.

Strachan, che da bambino, vedendo una riproduzione del dipinto tardo-rinascimentale nella umile casa della nonna alle Bahamas, non poteva fare a meno di sentirsi disturbato ("Ho sempre pensato- ha detto- 'Perché tutti questi europei incombono su una famiglia di persone provenienti dall'Africa occidentale nei Caraibi?'”), ha apportato alcune modifiche al canovaccio originale. Innanzitutto i commensali nella sua versione sono tutti neri e poi non sono Gesù con gli apostoli ma una serie di figure storiche, semi-dimenticate, a cui lui ama restituire centralità attraverso la sua opera. Ci sono, tra gli altri, la cantante gospel Sorella Rosetta Tharpe, l’abolizionista americana Harriet Tubman, l’imperatore dell’Etiopia e figura cardine del Rastafarianesimo, Haile Selassie, nei panni di Cristo, e poi l’artista in quelli di Giuda (anche questa una citazione all’antico tema occidentale dell’autoritratto).

D’altra parte da uno che ha scritto un’enciclopedia vera e propria c’è da aspettarsi questo e altro.

In “The Encyclopedia of Invisibility” (2018), infatti, l’artista ha elencato ben 17.000 voci che non trovavano posto nelle enciclopedie convenzionali. Un mix di nomi, eventi, luoghi e oggetti scomparsi, che torneranno nelle sue opere successive e che in alcuni casi già avevano animato quelle passate.

Ma Tavares Strachan, nato alle Bahamas nel ’79 e in seguito trasferitosi negli Stati Uniti (adesso vive tra Nassau e New York ma presto avrà uno studio anche nel Regno Unito dove c’è una sede della Marian Goodman Gallery che si occupa del suo lavoro), nella sua carriera ha fatto di tutto. Una delle sue opere più ricordate è “The Distance Between What We Have and What We Want” (2006), che consisteva in un blocco di ghiaccio di 2 tonnellate e mezzo, portato con l’aiuto di FedEx dal circolo polare artico alla scuola elementare della sua infanzia alle Bahams (dov’era conservato in un congelatore ad energia solare). Si trattava di un ricordino che Strachan si era portato da una spedizione fatta personalmente all’estremo nord del globo. Nel caso della trasferta polare l’artista intendeva rendere omaggio all’esploratore afroamericano Matthew Henson e alle guide inuit che accompagnarono Robert Peary nelle sue spedizioni, per poi essere cancellati dalla storia. In seguito si farà aiutare da SpaceX di Elon Musk per mandare in orbita l’urna dorata di Robert Henry Lawrence Jr (il primo astronauta afroamericano che, se non fosse morto in un lancio precedente, pare sarebbe potuto stare sullo Shuttle).

"Il mezzo più importante per me è la narrazione" ha detto in una recente intervista. Ma Strachan ha alle spalle una lunga ricerca e una passione per la scienza che l’ha portato a fare scelte ardite: si è, ad esempio, allenato per diventare un cosmonauta alla Star City di Mosca e su un veicolo spaziale c’è stato davvero.

I veicoli spaziali, del resto, compaiono, insieme a decine di immagini di diverse epoche e contesti, nei suoi collage o nelle sue giustapposizioni scultore. In “The First Supper”, invece, oltre al gruppo di personaggi che sostituiscono Cristo con gli apostoli e delineano la rotta transatlantica degli schiavi, trovano posto numerosi riferimenti al cibo. Tutti simbolici (com’era abitudine nei dipinti del passato). Ci sono, infatti, riso africano, pesce gatto, albero del pane, cacao, pollo, crema pasticcera e soursoup, che sono cibi consumati ai Caraibi ma che possono essere ricondotti a influenze indigene o africane (e qui ritornano schiavitù e colonialismo).

L’uso del bronzo rivestito d’oro, invece, fa riferimento all’abilità dei maestri artigiani che già nel X secolo diedero vita al primo metodo di fusione a cera persa e che vide nel Regno del Benin (l’odierna Nigeria) uno dei centri di produzione più all’avanguardia.

The First Supper”di Tavares Strachan rimarrà all’esterno della Royal Accademy of Arts fino al 28 aprile 2024. Mentre un gruppo più consistente di opere dell’artista originario di Nassau (che in Italia abbiamo avuto occasione di vedere durante la 58esima edizione della Biennale di Venezia) saranno alla Hayward Gallery di Londra dal 11 giugno al 1 settembre. (via Colossal)

Detail of “The First Supper (Galaxy Black)” (2023) at the Royal Academy of Arts

Detail of “The First Supper (Galaxy Black)” (2023) at the Royal Academy of Arts

Detail of “The First Supper (Galaxy Black)” (2023) at the Royal Academy of Arts