Biennale di Venezia| Con 7 milioni di perline Kapwani Kiwanga ha trasformato il Padiglione Canada

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Non è necessario tardare più di tanto per trovare la fila davanti a “Trinket” (cioè “Paccottiglia”) la mostra della franco- canadese Kapwani Kiwanga che quest’anno rappresenta il suo paese natale (il Canada) alla 60esima Esposizione Internazionale d’Arte. Di solito sono le video installazioni a rallentare il flusso di visitatori alla Biennale di Venezia ma il padiglione canadese è luminoso e silenziosissimo, di film nemmeno l’ombra. Se ci si avvicina abbastanza tuttavia, si può cogliere un lieve rumore, simile a un tintinnio che si perde immediatamente nel canto degli uccelli, tra le chiacchiere e i passi sulla ghiaia dei visitatori, nel movimento delle fronde degli alberi dei Giardini. Sono perline, migliaia e migliaia di perline di vetro, infilate a mano, una ad una, ed appese a comporre monumentali tendaggi sia all’interno che all’esterno del padiglione. Per questo possono entrare solo poche persone alla volta: per non fare danni. Certo però che è bello il Padiglione Canada, simile a una scultura e così diverso dal solito, rivestito com’è di colori intensi e cangianti allo stesso tempo, che tremolano nella luce intensa dell’estate. E che invece, quando osservati da certi punti di vista, scompaiono all’improvviso.

Kiwanga, nata ad Hamilton nel ’78 e cresciuta nella vicina Brantford (entrambe le città sono in Ontario) dove ha studiato antropologia e religione comparata, ha origini tanzaniane e adesso vive a Parigi (qui si è anche laureata in Storia dell’Arte). In seguito ha vinto numerosi premi tra cui il prestigioso Prix Marcel Duchamp (è un riconoscimento francese, che le ha fruttato 35mila euro per l’installazione “Flowers of Africa” al Centre Pompidou di Parigi). Con grazia e logica ineccepibile, parla spesso di questioni legate al colonialismo e in passato ha affermato di aver maturato la prospettiva sull’argomento nel suo periodo a Brantford (la città si trova nell'Haldimand Tract nei territori tradizionali dei popoli indigeni Anishinaabe e Haudenosaunee) in un mix di consapevolezza afro-canadese e di vicinanza alla gente delle Prime Nazioni. Ma sull’opera di Kiwanga ha influito soprattutto il punto di vista dell’antropologa oltre a una propensione del tutto personale per i particolari estetici minuscoli e per le storie trascurate.

Kapwani Kiwanga: Trinket” parla del confine spesso labile che separa il valore di un oggetto dal suo costo, di come cambi a seconda del luogo in cui si svolge la transazione, del periodo storico, delle mode e di una marea di altri micro-fattori. Ma soprattutto degli effetti imprevedibili che uno scambio apparentemente innocuo può avere sui popoli nel lungo periodo, del sistema di potere che può contribuire ad instaurare e di come il significato dell’oggetto possa cambiare radicalmente passando di mano in mano. Un progetto che mette in gioco le competenze scientifiche di Kiwanga (storia, antropologia, economia), in aggiunta alla sua abilità artistica.

Al centro dell’opera ci sono le perline di conteria o margheritine o più spesso, semplicemente, perline veneziane, che dalla Serenissima si diffusero in tutto il mondo tra il 1400 e la prima metà del ‘900. Le minuscole perle erano uno dei pochi prodotti derivati dalla lavorazione del vetro a non venire esclusivamente dall’isola di Murano (dove per decreto già dal 1291 si concentrava l’industria dell’epoca) ma dalla città di Venezia in generale, dove le piccole fornaci necessarie per la fusione non arrecavano danno. Di lì erano poi esportate nelle Americhe, nell’Africa occidentale e in India (nel 2005 in Alaska sono stati persino ritrovati i resti di un paio di orecchini di perline, risalenti a qualche decennio prima della scoperta dell’America).

Il valore di queste sfere lucenti cambiava drasticamente a seconda della provenienza degli attori (gli europei attribuivano loro scarsa considerazione, mentre, ad esempio, gli africani per cui nel tempo sono diventate irrinunciabili, avevano valore scaramantico) e, è inutile dire, che gli affari che si fecero in quel periodo furono tutt’altro che etici. All’inizio furono i veneziani ad arricchirsi, mentre tra l’800 e la prima metà dell’900 a vendere le perline alle colonie furono soprattutto compagnie straniere con uffici in laguna. In Africa, il loro impatto fu inimmaginabile: si creò una vera e propria interdipendenza verso chi le produceva e vendeva, tanto piacevano i colori vivaci del tutto assenti nei monili tradizionali da diventare parte della dote delle spose. Si indossavano poi nelle feste della comunità, nei matrimoni e nei funerali (in ogni occasione delle perline diverse) e le più ricercate (quelle multicolore, le rosetta) potevano essere portate solo dalle massime autorità. Con queste ultime si potevano comprare schiavi, attraversare territori proibiti e godere di molti altri benefici. Del resto nei paesi africani, fino a poche decine di anni fa, le perline avevano il valore di una moneta ufficiale.

Questa storia, suggerita dalla cangiante bellezza dei drappi di perline che modificano quasi radicalmente la struttura architettonica del poco esteso padiglione (il Canada è il più piccolo ai Giardini), Kiwanga ce la racconta completamente all’interno, dove altri tendaggi colorati e tintinnanti nascondono le pareti e incontrano sculture fatte coi materiali con cui le sferette di vetro venivano scambiate (oltre all’oro anche rame, pigmenti del legno brasiliano di Pernambuco e olio di palma ricercatissimo e usato per lubrificare i macchinari durante la rivoluzione industriale), che e, a loro volta, incorporano complessi motivi di perline realizzati da artigiani dello Zimbabwe e canadesi.

"A volte- ha detto in un’intervista- faccio riferimento alla storia e all'importanza socio-politica di un particolare materiale. E poi quello che cerco di fare è riassemblarlo o ricontestualizzarlo in modo che lo sperimentiamo in un modo diverso".

Kiwanga, che nella sua pratica affianca minimalismo e colore, qui tratta lo spazio architettonico come parte integrante dell’installazione: a pieno titolo scultura tra le sculture. Per rendere più morbido lo spazio e omogeneo il rapporto tra le sculture, i drappi e le pareti l’artista ha sostituito il pavimento del padiglione. La nuova pavimentazione per la maggior parte è in semplice resina bianca, interrotta da forme ondulate, colorate con la tinta bruno-rossastra del legno di Pernambuco, foglia d'oro e metallo scintillante che a momenti sale fin in cima alle pareti. La luce che filtra dalle ampie vetrate gioca con gli elementi che compongono l’opera, rendendola quasi un organismo vivente.

Tra le perline più ricercate c’erano quelle blu cobalto che formano il tendaggio esterno. L’opera si chiama “Impiraresse (Blu)” dal nome con cui venivano chiamate le donne che le infilavano, cui rende omaggio. Perché per quanto il commercio delle perline fosse esclusivamente maschile, alle donne veniva affidato questo alienante e poco redditizio compito.

Kiwanga ha preso parte anche alla Biennale di Venezia 2022, invitata da Cecilia Alemani a esporre a “Il Latte dei Sogni”. In quell’occasione ha creato un ambiente riscaldato dai colori del deserto al tramonto, circoscritto da grandi dipinti semitrasparenti, che al centro poneva sculture in vetro riempite di sabbia (per quanto quest’ultima sia un materiale organico è infatti utilizzata in Texas nel fracking, cioè nell’estrazione di petrolio e gas). Ha poi spesso scelto colori utilizzati per controllare lo stato d’animo e il movimento delle persone negli uffici, nei reparti psichiatrici e nelle prigioni (qui, ad esempio, si sceglieva un tono di rosa sperando di rendere più mansueti i detenuti).

La sua pratica- ha detto la curatrice della mostra, Gaëtane Verna- si basa sulla ricerca approfondita di ciò che a prima vista potrebbe sembrare un insieme di semplici questioni di narrative storiche, ma che vengono poi abilmente utilizzate per esaminare il modo in cui le nostre società sono state costruite tramite un’architettura sociale e culturale, l’imposizione di leggi, il commercio e altre forme di scambio. Per Kiwanga, i materiali sono le tracce di incontri umani che portano alla creazione di nuove opere”.

Kapwani Kiwanga: Trinket” il Padiglione Canada, con la National Gallery of Canada (NGC) come commissario e curato da Gaëtane Verna, si potrà visitare per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024 (fino al 24 novembre). Kapwani Kiwanga è la prima artista donna nera a rappresentare il paese alla manifestazione lagunare.

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Impiraresse (Blue), 2024 cobalt glass beads, nylon-coated metal wire, metal components dimensions variable Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer II (Metal, breath, beads) and Transfer IV (Metal, wood, breath, beads), 2024 bronze, blown glass, glass beads; bronze, palladium leaf, wood, blown glass, glass beads 160 × 120 × 32 cm; 164 × 100 × 70 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer III (Metal, wood, beads), 2024 wood, Pernambuco pigment, copper, glass beads 160 × 100 × 66 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer II (Metal, breath, beads), 2024 bronze, blown glass, glass beads 160 × 120 × 32 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Impiraresse (Blue), 2024 cobalt glass beads, nylon-coated metal wire, metal components dimensions variable Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Portrait of Kapwani Kiwanga, 2024  Photo: Angela Scamarcio

L'astrattismo di Liza Lou tra nuvole, pittura, perline e martellate

LIZA LOU The Clouds, 2015-2018 site-specific installation of oil paint on woven glass beads and thread on canvas 600 parts, each 35 x 35 cm; Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul. Photo: Matthew Herrmann

LIZA LOU The Clouds, 2015-2018 site-specific installation of oil paint on woven glass beads and thread on canvas 600 parts, each 35 x 35 cm; Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul. Photo: Matthew Herrmann

Liza Lou , per realizzare la sua ultima serie di opere astratte dedicate all’eterea e poetica mutevolezza delle nuvole ha di sicuro dovuto sudare sette camicie. L’artista statunitense, infatti, usa come tela dei panni di perline di vetro bianco tessuti a mano, uno ad uno, su cui dipinge con sensibilità e delicatezza. Infine li prende a martellate.

Il metodo apparentemente mortificante della Lou è in realtà strettamente legato alle tecniche di meditazione orientale, e poi permette all’artista di mostrare la trama di filo nascosta, slabbrata e macchiata di pittura, aggiungendo eterogeneità, dinamismo e levità alle sue opere. Come fossero nuvole, appunto.

Nel dipinto The Clouds il cielo della Lou poi diventa maestoso. Composto com’è di 600 panni di perline accostati l’uno all’altro, fino a raggiungere le ragguardevoli dimensioni di oltre 15 metri per 7.

Questa serie dedicata alle nuvole è stata creata en plain air, pensando e osservando i cieli delle città tra cui si divide la vita di Liza Lou (Los Angeles e Durban).

Lo scorso autunno è stata esposta alla galleria Lehmann Maupin di New York in una mostra intitolata Liza Lou: Classification and Nomenclature of Clouds ispirata agli scritti del metereologo dilettante Luke Howard: "Il poeta Mark Strand ha recentemente scritto ‘Le nuvole sono pensieri senza parole’- spiegava il comunicato stampa della mostra- Classificando e nominando le nuvole [Howard], ha influenzato egualmente pittori e poeti."

Nella stessa mostra sono stati esposti anche due disegni di Liza Lou (trovate due fotografie in fondo a questo post). Che c’è di strano? Beh per farli l’artista ha impiegato 11 anni dato che sono composti da migliaia di minuscoli cerchi concentrici accostati l’uno l’altro. Ma non basta, perchè la Lou ogni volta che tracciava un cerchiolino cantava la parla’ oh’. Pare che la melodia che è venuta fuori registrando i vocalizzi dell’artista, a discapito di quanto si potrebbe pensare, abbia rapito gli spettatori della mostra.

Liza Lou è originaria di New York ma divide la sua vita tra il suo studio di Durban (Sud Africa) e quello di Los Angeles. Le sue opere sono conservate in molti musei del mondo (prevalentemente statunitensi ed australiani). In Italia si possono ammirare a Palazzo Grassi, di Venezia nell'ambito della Collezione François Pinault,

LIZA LOU The Clouds, (detail) 2015-2018 site-specific installation of oil paint on woven glass beads and thread on canvas 600 parts, each 35 x 35 cm; Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul. Photo: Matthew Herrmann

LIZA LOU The Clouds, (detail) 2015-2018 site-specific installation of oil paint on woven glass beads and thread on canvas 600 parts, each 35 x 35 cm; Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul. Photo: Matthew Herrmann

LIZA LOU Stratus Fractus, 2018, oil paint on woven glass beads on canvas, 151.1 x 141 x 6.4 cm; Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul.. Photo: Joshua White

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LIZA LOU Pyrocumulus, 2018, oil paint on woven glass beads on canvas,141.6 x 142.9 x 7.6 cm. Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul.. Photo: Joshua White

LIZA LOU Pyrocumulus, 2018, oil paint on woven glass beads on canvas,141.6 x 142.9 x 7.6 cm. Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul.. Photo: Joshua White

LIZA LOU Pyrocumulus (detail), 2018, oil paint on woven glass beads on canvas,141.6 x 142.9 x 7.6 cm. Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul.. Photo: Joshua White

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LIZA LOU The Clouds (detail), 2015-2018 site-specific installation of oil paint on woven glass beads and thread on canvas 600 parts, each 35 x 35 cm; Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul. Photo: Matthew Herrmann

LIZA LOU The Clouds (detail), 2015-2018 site-specific installation of oil paint on woven glass beads and thread on canvas 600 parts, each 35 x 35 cm; Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul. Photo: Matthew Herrmann

LIZA LOU The Clouds, 2015-2018 site-specific installation of oil paint on woven glass beads and thread on canvas 600 parts, each 35 x 35 cm; Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul. Photo: Matthew Herrmann

LIZA LOU The Clouds, 2015-2018 site-specific installation of oil paint on woven glass beads and thread on canvas 600 parts, each 35 x 35 cm; Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul. Photo: Matthew Herrmann

LIZA LOU, Drawing Instrument II, 2016-2018, ink and paint on canvas on wood, 177.8 x 177.8 x 3.2 cm, Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul., Photo: Joshua White

LIZA LOU, Drawing Instrument II, 2016-2018, ink and paint on canvas on wood, 177.8 x 177.8 x 3.2 cm, Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul., Photo: Joshua White

LIZA LOU, Drawing Instrument II, 2016-2018 (detail), ink and paint on canvas on wood, 177.8 x 177.8 x 3.2 cm, Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul., Photo: Joshua White

LIZA LOU, Drawing Instrument II, 2016-2018 (detail), ink and paint on canvas on wood, 177.8 x 177.8 x 3.2 cm, Courtesy the artist and Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, and Seoul., Photo: Joshua White