A Palazzo Strozzi una mostra imperdibile racconta Helen Frankenthaler che amava dipingere l’oceano e non si piegava ai capricci della politica

"Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole" Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Exhibition view Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence.

Nata a New York nel 1928, Helen Frankenthaler, è stata una delle artiste più ammirate della sua generazione. Il lirismo che si insinua nelle grandi tele astratte in cui dinamismo e staticità si fondono nei colori ricercati e briosi ha segnato un’epoca, e, da qualche anno ad oggi, a Frankenthaler, è riconosciuto anche un posto di rilievo nella Storia dell’Arte. Nella Storia, lei, che ballò con John Travolta alla Casa Bianca durante un ricevimento in onore dell’allora Principe Carlo e di lady D, un posticino ce l’aveva già.

D’altra parte Frankenthaler, si è inventata una tecnica pittorica tutta sua (‘soak-stain’ letteralmente imbibizione a macchia, in seguito usata anche dai colleghi maschi) e dalla seconda generazione dell’Espressionismo Astratto (la prima tendenza autenticamente americana) ha gettato le basi per movimenti artistici successivi oltre a liberarsi dalla retorica romantica dei suoi predecessori. Da sabato scorso la Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze le dedica un’importante mostra nell’edificio rinascimentale che prima di lei ha ospitato grandi nomi del contemporaneo (come Anselm Kiefer o Olafur Eliasson) ma anche antichi maestri (come Donatello).

Curata da Douglas Dreishpoon (direttore dell’Helen Frankenthaler Catalogue Raisonné) e organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi insieme alla Helen Frankenthaler Foundation di New York, la retrospettiva “Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole” ripercorre la lunga carriera della pittrice mancata nel 2011 (a 83 anni). E lo fa attraverso una selezione di opere molto rilevanti di Frankenthaler (alcune sono veri e propri capolavori) ma anche di artisti, a lei contemporanei che l’hanno influenzata o sono stati condizionati da lei.

Ci sono il Jackson Pollock del “nr 14” (1951) che per l’allora giovane pittrice fu un’epifania (in un’intervista di qualche anno fa ha detto: “Non mi piacciono i numeri perché non li ricordo. L'unico numero che abbia mai ricordato è il numero 14 di Pollock(…)”, Morris Louis, Kenneth Noland, Mark Rothko, David Smith, Anthony Caro, Anne Truitt e l’ex marito Robert Motherwell (con cui organizzava sontuosi ricevimenti che riunivano tutto il bel mondo dell’epoca). Per realizzare questo progetto, oltre al materiale fornito dalla Helen Frankenthaler Foundation, gli organizzatori hanno dovuto ricorrere a prestiti di celebri musei e collezioni internazionali come quello del Metropolitan Museum of Art di New York, della Tate Modern di Londra, del Buffalo AKG Art Museum, della National Gallery of Art di Washington, della ASOM Collection e della Collezione Levett. Ne è uscita una mostra che è la più grande mai dedicata in Italia all’artista newyorkese e una delle più complete mai realizzate su di lei a livello internazionale.

"Siamo entusiasti di presentare l'opera di Helen Frankenthaler- ha detto il direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino- in una grande mostra senza precedenti in Italia, permettendo al pubblico di scoprire un'artista fondamentale del XX secolo. Con la sua ricerca innovativa, Frankenthaler si è distinta come figura pionieristica nel campo della pittura astratta, ampliandone le potenzialità in un modo che continua a ispirare ancora oggi nuove generazioni di artisti ".

"Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole" Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Exhibition view Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence.

Del resto Helen Frankenthaler, figlia di un giudice della Corte Suprema e di una ricca signora di origine tedesca (entrambi di fede ebraica), partiva avvantaggiata. Lo studioso Alexander Nemerov in una biografia uscita nel 2021 (“Fierce Poise”) ha scritto: "Figlia dell'Upper East Side, non è mai stata una perdente. Aveva soldi, aveva mezzi e sapeva come farsi strada". Frankenthaler però non ha mai riposato sugli allori, da quando bambina, si interessò di colore e forme, vedendo uno smalto per unghie creare motivi inafferrabili nell’acqua del lavandino: studiò alla Dalton School (NYC) prima e al Bennington College nel Vermont poi; dopo la laurea si affinò privatamente con il pittore australiano Wallace Harrison e per un breve periodo con l’americano Hans Hofmann. Per quanto si sia a lungo concentrata sul lavoro dei cubisti, amava particolarmente Matisse e gli astrattisti europei. Tuttavia, ad aprirle le porte dell’ambiente artistico newyorkese di quegli anni fu il potente critico Clement Greenberg, con cui ebbe una relazione durata 5 anni (dal ’50 al ’55) che si chiuse burrascosamente (a una festa nel West Village, Greenberg la schiaffeggiò, colpendola talmente forte da farla piangere, incurante di tutti gli altri ospiti che stavano a guardare). Ad ogni modo è con lui che conoscerà l’opera di Pollock e capirà quanto una maniera di lavorare più libera e viscerale avrebbe potuto rendere unica la sua pittura.

"Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole" Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Exhibition view Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence.

Helen Frankenthaler, infatti, dipingeva su grandi tele non trattate appoggiate sul pavimento (da una certa età in poi le sistemava, sempre orizzontalmente, su un supporto per non doversi piegare), muovendosi agilmente tra le grandi campiture di colore come se danzasse (per questo in alcune opere restano quasi impercettibili le sue impronte). Ma è la tecnica che si era inventata ad averla resa famosa: creava delle soluzioni acquose di colore mischiato a trementina e poi, come Pollock, versava i pigmenti direttamente sulla tela che li assorbiva in maniera disomogenea, facendoli propri (il problema di questa tecnica però, in seguito adottata da Morris Louis e Kenneth Noland, è che deteriora il supporto esigendo una continua manutenzione). I risultati sono liriche composizioni vibranti di sfumature, a volte translucide, che a momenti richiamano elementi del paesaggio, ma anche gesti e movimenti. Il tutto trasfigurato. Del resto, l’artista statunitense, che già da giovanissima aveva visto dal vivo e apprezzato i surrealisti, incoraggiava una lettura per libera associazione delle sue opere.

Ma non tutti i critici dell’epoca si entusiasmarono di fronte alla novità arrivando a definire le sue tele “stracci sporchi di colore”.

In genere dipingeva ad olio ma nel corso degli anni usò anche l’acrilico e sostituì la tela con la carta. Fece pure brevi incursioni nella scultura (in mostra a Firenze c’è, ad esempio, “Matisse table” ispirato all’opera di Caro), nella xilografia e nell’arte tessile (va ricordato che la sorella Gloria Ross è stata una designer molto nota per gli arazzi contemporanei realizzati in collaborazione con pittori e tessitori).

"Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole" Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Exhibition view Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence.

Senza mai perdere lo slancio al cambiamento e all’innovazione, Frankenthaler, ha avuto una lunga carriera (che la mostra a Palazzo Strozzi ripercorre decennio per decennio) ed è stata testimone di momenti storici differenti. Da quando nel ’48 lei e un’amica visitarono il Vecchio Continente ancora devastato dal conflitto che si era appena concluso (Nemerov nel suo libro ha scritto: "un viaggio difficile, non da ultimo perché le banchine dove attraccavano le navi transatlantiche in Europa erano piene di bare di militari americani i cui corpi venivano ancora rispediti a casa tre anni dopo la fine della guerra"), fino a quando negli anni ’80 lei appoggiò la polemica contro a Robert Mapplethorpe (colpevole di aver rappresentato la sessualità gay in immagini decisamente esplicite) e Andres Serrano (che invece aveva fotografato un crocifisso immerso nell’urina) affermando:"Alzate il livello. Abbiamo bisogno di più intenditori di cultura". D’altra parte Frankenthaler era fatta così: non amava la politica e non le piaceva che l’arte si piegasse ai suoi capricci.

Le piacevano invece i mutamenti del paesaggio e l’oceano che ammirava dalle finestre della casa in cui si era trasferita insieme al suo secondo marito (DuBrul Jr, un famoso banchiere d’investimento) a Darien, nelle isole atlantiche, Long Island Sound. L’acqua, la luce e il continuo slittare della linea d’orizzonte di quell’angolo della Costa- est entreranno prepotenti in tutte le sue opere successive.

In un’intervista rilasciata nel 2000 disse: “Sono sempre stata sensibile alle meraviglie dell’ambiente naturale. Quando ero bambina portavo mia madre alla finestra della mia stanza nel nostro appartamento al tredicesimo piano di Manhattan e le chiedevo di guardare le nuvole, perché ero incantata da ciò che potevo vedere fuori dalle finestre, dagli spazi e dai mutamenti della natura”.

"Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole" Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Exhibition view Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence.

Per quanto il grande pubblico abbia imparato a conoscerla già dopo la retrospettiva che nel ’69 le dedicò il Whitney Museum of American Art (New York), Frankenthaler, è diventata anche (e suo malgrado) un’icona femminista per come il suo nome sia stato a lungo oscurato da quello dell’ex-marito Motherwell e in generale da colleghi maschi meno capaci.

Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole” è un’occasione unica per vedere dal vivo alcune tra le opere più rappresentative di Helen Frankenthaler (con il bonus di alcuni pregevoli: Pollock, Louis, Noland, Rothko, Smith, Truitt, Caro e Motherwell). Si potrà visitare a Palazzo Strozzi di Firenze fino al 26 gennaio 2025.

"Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole" Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Exhibition view Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence.

"Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole" Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Exhibition view Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence. Copyrigth opere: Anthony Caro © 2024 The Anthony Caro Estate / The Design and Artists Copyright Society (DACS), London / SIAE, Roma Helen Frankehtaler © 2024 Helen Frankenthaler Foundation, Inc. / Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE, Roma Morris Louis © 2024 Maryland College Institute of Art (MICA), Rights Administered by SIAE, All Rights Reserved Robert Motherwell © Dedalus Foundation, Inc. / Licensed by Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE, Roma Kenneth Noland © Estate of Kenneth Noland / Licensed by VAGA at Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE, RomaJackson Pollock © Pollock-Krasner Foundation / Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE, Roma Mark Rothko © 1998 Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko / Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE, Roma David Smith © 2024 The Estate of David Smith / Licensed by VAGA at Artists Rights Society (ARS), NY / SIAE, Roma Anne Truitt © Bridgeman Images

Helen Frankenthaler nel suo studio della Third Avenue in una pausa del lavoro su Alassio (1960), New York, 1960. Courtesy Helen Frankenthaler Foundation Archives, New York. Photograph by Walter Silver © The New York Public Library / Art Resource, NY. Artwork © 2024 Helen Frankenthaler Foundation, Inc. / Artists Rights Society (ARS), NY.

Cattelan in versione top gun è tornato a New York dopo 20 anni (ed è subito polemica)

Installation view, Maurizio Cattelan: Sunday, Gagosian, West 21st Street, New York. Artwork © Maurizio Cattelan. Photo: Maris Hutchinson

Sunday” (“Domenica”) la prima personale di Maurizio Cattelan a New York da oltre 20 anni, che segna anche il suo debutto nelle sale della Gagosian Gallery, ha fatto discutere. Quei 64 pannelli d’acciaio placcati d’oro 24 carati e crivellati di colpi di arma da fuoco a qualcuno sono piaciuti mentre altri li hanno criticati aspramente. Senza contare che oltre un artista si è lamentato rivendicando la primogenitura dell’idea (il britannico Anthony James si è spinto addirittura a far mandare una lettera legale all’artista originario di Padova accusandolo di aver copiato i suoi “Bullet Paintigs”). Di certo l’esposizione, curata dal critico di origine fiorentina, Francesco Bonami che fa anche parte del cda della mega galleria internazionale (la cui collaborazione e amicizia con Cattelan è ormai storica), parla di violenza, ricchezza, morte, ricordo e (come quella al Pirelli Hangar Bicocca di Milano nel ’21-‘22) è più seria rispetto alla produzione precedente. Cupa e sfavillante allo stesso tempo, vuole essere un ritratto graffiante della società americana. E forse non solo.

Sfavillante, appunto, come i pannelli placati in oro zecchino, accostati l’uno all’altro sulla grande parete della galleria newyorkese, che sono stati segnati dai colpi di oltre 20mila proiettili sparati in un poligono di tiro da un gruppo di professionisti anche durante un evento esclusivo antecedente l’esposizione. Pare alla performance fosse presente anche Jeff Koons e che abbia commentato: “Celestiale!” riferendosi al risultato. Al di là dell’impeccabile (e imperturbabile) gentilezza di Koons, ben documentata dalle cronache durante la sua lunga carriera, in questo caso è comprensibile l’apprezzamento dell’americano: l’installazione che dà il nome alla mostra osservata da vicino richiama la sua produzione: ogni piccolo cratere “accoglie”, l’immagine del “visitatore all’interno dell’opera d’arte” (come dice Koons parlando del proprio lavoro); peccato che in questo caso ci si specchi in quel che resta di una pioggia di proiettili. D’altra parte all’inaugurazione della personale (avvenuta lo scorso 30 aprile) al pubblico veniva timbrato su una mano “Beware of Yourself” (diffida di te stesso!).

Ovviamente le citazioni e gli influssi che ritroviamo in “Sunday” non si fermano a Koons. C’è innanzitutto la storia delle armi nel contesto dell’arte, come spiega Bonami: “Le immagini (di violenza armata ndr) non sono una novità nell'arte; si passa da L'esecuzione dell'imperatore Massimiliano (1867-69) di Manet a Il 3 maggio 1808 (1814) di Goya, da William Burroughs che spara a tutto e a chiunque intorno a lui a Chris Burden che spara a un aereo in volo, dall'attentato di Valerie Solanas di Andy Warhol nel 1968 all'iconica fotografia di Richard Avedon (1969) delle cicatrici che lasciò sul corpo di Warhol”. C’è l’approccio distruttivo al Minimalismo (sia perché i pannelli sono stati bersaglio di una pioggia di proiettili, sia perché gli acquirenti si potranno comperare i pannelli separatamente, di fatto, decostruendo l’installazione come fosse una forma di formaggio). Poi ci sono i riferimenti all’arte astratta (è lo stesso Cattelan ad affermare: “E’ la prima volta che faccio un’opera astratta.”) da Pollock ai tagli di Fontana. Qui va detto che i tiratori al poligono non si sono limitati a sparare a caso contro i pannelli, ma hanno usato vari tipi di armi (automatiche e semiautomatiche; fucili e pistole) per raggiungere l’immagine desiderata dall’artista, Cattelan, al quotidiano britannico The Guadian, ha spiegato: “Deve essere attraente e, allo stesso tempo, inquietante”. La giornalista Adrian Horton che ha redatto lo stesso articolo ha descritto “Sunday” in questo modo: “E bellissima (…) ammaccature, crateri, impronte, strappi, colpi netti che ricordano pugni.”

In disaccordo il famoso critico statunitense, Jerry Saltz, che, pur spendendo lodi per l’opera di Cattelan in generale e per l’acume critico di Francesco Bonami, non ha amato lo show in corso da Gagosian e ha definito “Sunday: “Enorme pezzo kitch”. Ha anche scritto: “Sunday dice molto poco, a voce alta. L’America è un paese violento con le armi e un paese affamato di ricchezza, e se guardi in quelle superfici lucide, puoi vedere te stesso. L’idea è così semplicistica che (…) Queste mediocrità dicono la stessa cosa a tutti allo stesso modo. Filosoficamente, tremolano e muoiono”.

Di tenore diametralmente opposto (e come poteva essere, altrimenti!?) il testo pubblicato da Bonami sul sito di Gagosian: “Un pannello dorato ricoperto di segni di arma da fuoco è come una domenica (sunday, ndr): lo sfondo di una festa andata male, molto male (..) Sunday (2024) di Cattelan si spinge un po' oltre, rimuovendo la presenza di chi ha sparato e trasformando la violenza in una sorta di pattern, una decorazione, un ricordo della follia umana. Il suo muro potrebbe essere quello di un casinò di Las Vegas crivellato di proiettili da un giocatore scontento. C'è bellezza nel periodo successivo alla tragedia(...) Cattelan apre una strada attraverso questo possibile malinteso, parlando delle contraddizioni irrisolvibili tra libertà e violenza, divertimento e orrore. (…) Non che respinga l'orrore, ma ne vede l'altro lato: il divertimento. Ovviamente non il divertimento delle vittime ma il divertimento inimmaginabile ma sicuramente presente nella mente dell'autore dell'omicidio di massa”.

Cattelan a New York Times ha invece detto: “L’oro e le armi sono il sogno americano”, per poi sottolineare che l’opera è stata prodotta negli Stati Uniti per la permissiva legislazione sulle armi: “In quale altro posto al mondo potresti farlo?” (anche se, pur nel contesto meno rigido in materia, sono stati necessari mesi per organizzare le sessioni di tiro superando ostacoli logistici e legali).

Di fronte a “Sunday” c’è “November” (sempre 2024), cioè una fontana in marmo di Carrara che rappresenta un uomo coricato su una panchina mentre, tenendosi il pene in mano e coprendosi gli occhi, fa pipì per terra (manca il drenaggio quindi l’acqua finisce sul pavimento per davvero). Bonami la paragona a “Manneken Pis (1619; a lungo simbolo incontrastato di Bruxelles) e commenta: “Qual è la differenza tra un bambino piccolo che fa pipì in una fontana e un uomo adulto che fa pipì sul pavimento? È solo una questione di convenzione.”

Benchè il protagonista di “November” sia Lucio Zotti, amico e socio in affari di Cattelan di lunga data morto il settembre scorso, la stampa ha definito l’opera la “rappresentazione di un senzatetto” o una “figura ai margini” e l’artista ha lasciato aperta questa interpretazione (anche se Zotti non si avvicinava nemmeno lontanamente a un senzatetto) definendo la scultura “un monumento della marginalità”. E se così è, come non pensare alle “Shot Marilyns” di Andy Warhol (nel ’64 la performer, Dorothy Podber, chiese a Warhol se poteva “to shoot them”, riferensosi alla pila di opere che l’artista aveva appena completato; visto che in inglese il verbo significa sia sparare che fotografare lui equivocò il senso della frase e acconsentì, allora Podber si mise un paio di guanti, tirò fuori una pistola e sparò alle serigrafie) e al rialzo di prezzi che nel tempo si sarebbe scatenato intorno a questi lavori (l’ultima vendita di una delle “Shot Marylin” è avvenuta da Christie’s, proprio a New York, per ben 195 milioni di dollari).

Il sessantatreenne star indiscussa dell’arte contemporanea, Maurizio Cattelan, infatti, si è a lungo rifiutato di esporre da Gagosian, perché la mega galleria è il simbolo stesso della mercificazione dell’arte e lui ha in più occasione criticato il consumismo. Recentemente però ha detto ridendo (sempre a The Guardian): “Chiamo Gagosian il lato oscuro del mercato. Ho esitato per molto, molto tempo, ma è stata una buona partnership.” Cattelan è anche sostenitore di una vita il più possibile spartana (si sposta in bicicletta, va a nuotare tutti i giorni in una piscina comunale). E come si può, quindi, non pensare che la giustapposizione, il confronto diretto delle due opere in mostra a New York, non sia anche una critica al mercato dell’arte?

I 64 pannelli ricoperti d’oro che compongono l’installazione statunitense, secondo vari media, sono attualmente in vendita per 375mila dollari l’uno, per un totale di 24milioni di dollari per l’intero set. Gagosian non ha per ora rilasciato stime delle vendite.

Sunday” di Maurizio Cattelan, a cura di Francesco Bonami, si potrà visitare nella sede della Gagosian Gallery di New York fino al 15 giugno 2024. Nel frattempo l’artista è anche protagonista della mostra “The Third Hand” al Moderna Museet di Stoccolma (fino al 12 gennaio 2025) ed espone una foto fuori dal Padiglione Santa Sede della Biennale di Venezia 2024.

Installation view, Maurizio Cattelan: Sunday, Gagosian, West 21st Street, New York. Artwork © Maurizio Cattelan. Photo: Maris Hutchinson

Installation view, Maurizio Cattelan: Sunday, Gagosian, West 21st Street, New York. Artwork © Maurizio Cattelan. Photo: Maris Hutchinson

Installation view, Maurizio Cattelan: Sunday, Gagosian, West 21st Street, New York. Artwork © Maurizio Cattelan. Photo: Maris Hutchinson

Photo Courtesy: Maurizio Cattelan

“L’Euforia del colore” di Carlos Cruz-Diez. A San Gimignano una grande mostra del pioniere della Op Art

Carlos Cruz-Diez, L'Euforia del Colore, vedute della mostra Galleria Continua, San Gimignano Photo by: Ela Bialkowska OKNO Studio Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA Copyright Line: © Carlos Cruz-Diez / Bridgeman Images 2023

Nato a Caracas il 17 agosto del 1923, il pioniere della Optical Art, Carlos Cruz- Diez, adesso starebbe per compiere 100 anni. Quel traguardo, purtroppo, non è riuscito a raggiungerlo. Mancato nel 2019, proprio mentre il regista venezuelano Alberto Arvelo si apprestava a completare il documentario su di lui “Free Color” (presentato lo stesso anno sia al Palm Springs Film Festival che al Miami International Film Festival), in cui l’artista riaffermava l’amore per la vita, la propria famiglia, la musica e l’ossessione per il colore. Oltre che per l’arte, naturalmente (campo in cui, secondo alcuni studiosi, è stato "uno dei più grandi innovatori del XX secolo”). Anche se, parlando di Cruz Diez, aggiungerlo è superfluo: visto che, per lui, l’arte era indivisibile dal colore.

Ma Galleria Continua (che adesso rappresenta il suo lavoro per conto della Fondazione Carlos Cruz Diez) non ha dimenticato il centenario dell’artista e gli ha dedicato una mostra approfondita, nella sede di San Gimignano (quella più grande, un ex-cinema-teatro con tanto di giardino privato, tra gli spazi a sua disposizione nel borgo simbolo della bellezza dei colli senesi). L’esposizione si intitola “L’euforia del colore” e ripercorre la carriera di Cruz-Diez attraverso tutte le sue serie di opere.

Ben otto (Couleur Additive, Physichromie, Induction Chromatique, Chromointerférence, Transchromie, Chromosaturation, Chromoscope e Couleur à l’Espace), che rappresentano altrettante linee di ricerca dell’artista sul colore e sulla reazione dell’occhio umano a determinati accostamenti cromatici. Ci sono i quadri (il più delle volte di grandi dimensioni) ma anche due opere ambientali fatte per essere, attraversate, vissute e persino manipolate (è il caso di “Environnement Chromointerférent”) o modificate dalla luce viva del sole, dal meteo, e dal paesaggio circostante (“L’Environnement de Transchromie Circulaire”). E un’installazione in Piazza delle Erbe, concepita dall’artista (che, nel tempo, ne ha progettate e realizzate parecchie, in scorci spesso prestigiosi), per alterare l’esperienza e la percezione dell’ambiente urbano.

Cruz-Diaz, infatti, credeva in un colore libero dalla forma e dal concetto, capace, da solo, di modificare lo spazio (sia quello della tela che quello della realtà), la percezione del tempo e perfino lo spettatore stesso.

A proposito ha affermato: “Il colore non è semplicemente il colore delle cose che ci circondano, né il colore delle forme. È una situazione evolutiva, una realtà che reagisce sull’essere umano con la stessa intensità del freddo, del caldo o del suono, per esempio. È una percezione di base che la nostra tradizione culturale ci impedisce di isolare dal colore artistico e dalla sua nozione esoterica o aneddotica.

Le sue cromie scintillanti, formate da colori primari accostati tra loro per produrre il fenomeno della sintesi additiva o sottrattiva, danno vita a toni inesistenti che lo spettatore scopre muovendosi e cambiando il punto di vista sull’opera. Oltre a sfarfallii e vibrazioni dell’immagine capaci di destabilizzarlo. Come se ogni singola creazione si moltiplicasse per il solo fatto d’essere guardata e l’esperienza della visione si facesse personale.

Cruz-Diez, che ha lavorato anche sul colore riflesso, d’altra parte, non lasciava nulla al caso, presentando dipinti, sculture o ambienti, studiati fin nel minimo dettaglio e, spesso, realizzati con una tecnica sorprendente (a volte dipingeva, altre accostava e giustapponeva fettucce colorate di materiali diversi, poste in orizzontale e verticale). Sapeva sempre quale sarebbe stato l’effetto sortito. Anche se, nei primi decenni della sua attività, dopo aver pensato un’opera, non poteva fare altro che aspettare di finirla per scoprire se la sua intuizione era azzeccata (gli schizzi non rendevano l’idea, e se il risultato non era all’altezza la rifaceva da capo). Poi in studio avrebbe preso il suo posto il computer e tutto sarebbe stato più semplice.

Perché i supporti che sono riuscito a strutturare sono fonte di sorpresa e sono imponderabili... Nelle mie opere nulla è lasciato al caso; tutto è previsto, pianificato e programmato (…) Io non mi lascio ispirare rifletto

Figlio di Mariana Adelaida Diez de Cruz e Eduardo Cruz-Lander, Carlos Eduardo Cruz-Diez, ha descritto il padre come un poeta intellettuale che per guadagnarsi da vivere lavorava in una fabbrica di bibite. Ed è qui che il piccolo Carlos ebbe la sua prima chiamata al colore: aveva 9 anni quando le proiezioni rosse sulla sua camicia bianca, causate dalla luce del sole che filtrava attraverso le bottiglie di cola, lo lasciarono senza parole.

L’origine di una carriera, il germe di un’epifania creativa che, tuttavia si svilupperà solo anni dopo, a Parigi, città in cui l’artista si trasferisce nel 1960. Nel mezzo, Cruz Diez, farà di tutto: pittore realista, disegnerà fumetti, sarà un illustratore di successo per riviste e agenzie pubblicitarie, e, una volta in Francia, oltre a fare l’artista, progetterà cataloghi per la sua galleria dell’epoca. Dirà in un’intervista rilasciata alla rivista Bomb: “Ho disegnato cataloghi anche per molte altre gallerie. Quando Sonnabend ha aperto a Parigi, ho disegnato cataloghi per Rauschenberg e Jim Dine, oltre a poster per Lichtenstein. È così che ho conosciuto tutte quelle persone”.

Tuttavia, il successo arriverà in fretta e con esso la necessità di fare altro si esaurirà. Già nel ’61, infatti, ritroviamo Cruz-Diez tra gli artisti scelti dallo Stedelijk Museum di Amsterdam per la prima importante ricognizione sull’arte ottica; mentre nel ’65 il Moma di New York, lo inserirà nell’esposizione su Op Art, Arte Cinetica e Programmatica, “The Responsive Eye”, ora considerata simbolo di quel periodo storico. Senza contare che, pochi anni dopo (nel 1970), rappresenterà il Venezuela alla 35esima Biennale di Venezia.

Oggi a Caracas c’è un museo che porta il suo nome (Museo de la Estampa y del Diseño Carlos Cruz Diez ) e le sue opere sono conservate in alcune delle più prestigiose collezioni pubbliche e private dal mondo. Tra loro quella del MoMA di New York, della Tate Modern di Londra, del Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris e del Centre Pompidou di Parigi.

Ha detto in più occasioni di aver sperimentato una vera e propria “euforia creativa”, una volta arrivato a Parigi. Emozione, frutto del fiorire contemporaneo di movimenti in competizione tra loro come Arte Povera, Pop Art e Fluxus o Op Art e Arte Cinetica . Sempre a Bomb ha inoltre spiegato: “Quello che ho trovato qui [a Parigi ndr] è stato eccezionale. Non ho altra spiegazione se non coincidenze generazionali. Perché mi sono venute in mente idee a Caracas nello stesso momento in cui le avevano anche artisti in Brasile, Argentina, Israele, Inghilterra e Italia? Ci è capitato di coincidere tutti qui a Parigi”.

La mostra di Carlos Cruz-Diez “L’euforia del Colore”, il cui titolo è un riferimento alle parole dell’artista e all’oggetto della sua opera, proseguirà fino al 10 settembre 2023, nella sede di San Gimignano di Galleria Continua.

Carlos Cruz-Diez, L'Euforia del Colore, vedute della mostra Galleria Continua, San Gimignano Photo by: Ela Bialkowska OKNO Studio Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA Copyright Line: © Carlos Cruz-Diez / Bridgeman Images 2023

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