Biennale di Venezia| L’acqua è il filo conduttore del poetico Padiglione Gran Bretagna di Sir John Akomfrah RA

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

Poetico, monumentale ed epico al tempo stesso. Il Padiglione Gran Bretagna, “Listening All Night To The Rain” di Sir John Akomfrah RA per la a 60esima Esposizione Internazionale d'Arte - La Biennale di Venezia, in un certo senso è inafferrabile. Tante sono le storie, le immagini e i suoni che lo compongono. Si tratta di video ma anche di rumori, melodie, parole. C’è, ad esempio, la morte di David Oluwale , un britannico-nigeriano, annegato in un fiume dello Yorkshire (“lo Yorkshire-scrivono gli organizzatori- insieme alle Highlands scozzesi, sono luoghi cardine di tutta l'opera e fungono da dimora mitica per i vari personaggi”) dopo essere stato picchiato dalla polizia nel 1969, l’insetticida fumigato su un quartiere povero in anni non lontani, il botanico ed ecologista britannico, David Bellamy, che negli anni ’70 spiegava il riscaldamento globale in spezzoni di vecchi filmati, lavoratori di colore in una fabbrica di biciclette e poi l’acqua di un ruscello che scorre su fiori, perle e fotografie; il mare, la pioggia che cade, scene da un’alluvione in terre lontane, da un temporale e poi acqua, altre storie, filmati e ancora acqua. Un fiume di racconti e suggestioni talmente vasto da non poterlo interamente abbracciare con lo sguardo, l’udito, e persino con il pensiero.

D’altra parte all’artista britannico di origini ghanesi e ai suoi collaboratori hanno impiegato decenni nella ricerca di documenti storici per “contestualizzare la nostra esperienza del presente” e costruire questa mostra.

Commissionato dal British Council, “Listening All Night To The Rain”, è un’installazione video multicanale formata da otto diverse opere multimediali e sonore che “si intersecano e si sovrappongono” a partire dalla facciata del padiglione fino a ognuna delle diverse stanze a cui si accede dall’ingresso posteriore dell’edificio. Il titolo della mostra è quello di una poesia dello scrittore e artista cinese dell'XI secolo Su Dongpo, in cui l’autore esplorava la natura transitoria della vita durante un periodo di esilio politico. Si tratta di un componimento breve e toccante che recita: “Sono come una barchetta/ Che percepisce una distesa/ Di acqua infinita/ Qui sotto boschetti di alberi/ Faccia a faccia in camera da letto/ Ascoltando tutta la notte la pioggia.” Già perché l’acqua, nel padiglione di Akomfrah, è un elemento portante, un tema ricorrente e un filo conduttore. L’artista ha detto che "Se l'acqua non ha memoria, certamente può essere sequestrata per parlare poeticamente di questioni di memoria." Senza contare che l’acqua (spesso utilizzata da Akomfrah nel suo lavoro per via delle tratte degli schiavi e delle rotte migratorie) in Biennale simboleggia anche Venezia con la sua laguna, il mare, i commerci del passato, il fragile ecosistema del presente. Oltre allo scorrere della Storia.

E poi, quale elemento migliore per legare post-colonialismo e crisi ambientale? Temi di cui l’artista parla diffusamente, risalendo alle loro radici storiche, in quelli che lui stesso ha definito collage-visivi.

Listening All Night To The Rain” si sofferma anche sul potere evocativo della storia dell’arte, al di fuori di fotografia e riprese cinematografiche. Prima di tutto la pittura religiosa chiamata in causa dall’installazione degli schermi ed ispirata alle pale d’altare, per suscitare nel pubblico un “senso di contemplazione e fantasticheria”. Poi c’è la scelta dei colori di cui sono state dipinte le pareti del padiglione (rosso, giallo senape, blu oltremare, blu profondo), che prende a modello la tavolozza dello statunitense Mark Rothko, per “evidenziare i modi in cui l'astrazione può rappresentare la natura fondamentale del dramma umano”. Per finire, in mostra c’è un’installazione in cui vecchi strumenti tecnologici audio, appesi e lasciati fluttuare come una nuvola nostalgica, richiamano alla mente una lunga fila di scultori che hanno affidato la loro opera agli oggetti trovati.

La mostra è composta, come già detto, da otto lavori multimediali che l’artista ha chiamato “Cantos”, facendo riferimento al poema incompiuto dello scrittore statunitense Ezra Pound ma anche alla radice latina della parola canzone. I suoni, infatti, qui sono fondamentali: voci canzoni, musiche, rumori, c’è di tutto. Perché come ha detto lo stesso Akomfrah in un’intervista: “L’atto di ascoltare presuppone sempre un altrove. Il suono chiama da un aldilà.”

Nato ad Accra nel ’57, John Akomfrah, vive in Gran Bretagna fin dall’infanzia e si sente sinceramente inglese. Figlio di un politico che lavorava nel gabinetto di Kwame Nkrumah, primo Primo Ministro dopo la liberazione del Ghana dal giogo coloniale, sembrava destinato a un futuro radioso in patria, ma le cose presero presto una brutta piega. Il padre venne assassinato nel periodo immediatamente precedente al colpo di stato del ’66, così lui (che allora aveva otto anni) e la madre fuggirono prima negli Stati Uniti poi in Gran Bretagna. Ha studiato con risultati eccellenti in Inghilterra, dove si e fatto notare già nell’86 con il film “Handsworth Songs”. L’opera di cui era regista, parlava delle conseguenze delle rivolte di Handsworth (un quartiere vicino a Brixton, che fu a sua volta coinvolto nelle sommosse, per questo da noi l’evento è ricordato come Rivolta di Brixton dell’81) ed era radicale sia nella forma che nella sostanza. Handsworth Songs si aggiudicò un premio e da quel momento la fama di John Akomfrah non fece che crescere.

Gli argomenti di cui si occupa l’artista però non sono mai cambiati (razzismo, problemi post-coloniali, migrazioni) a modificarsi è stato l’atteggiamento dell’autore verso la sua patria d’adozione che nel tempo si è fatto più maturo e riflessivo, mentre la sua opera assumeva sfumature via via più poetiche; a tratti oniriche. Nel frattempo Akomfrah è stato nominato Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico e, tra le altre cose, gli è stato assegnato il premio Principessa Margaret (in ricordo della sorella della scomparsa regina). Adesso si chiama Sir John Akomfrah RA.

Per concludere il padiglione britannico di John Akomfrah, “Listening All Night To The Rain”, curato da Tarini Malik, è sicuramente molto bello. Ma quando lo si visita bisogna tenere presente che i video e gli audio-collages, non sono fatti per essere visti o ascoltati dall’inizio alla fine, perchè sono lunghissimi (il film al piano superiore, per esempio, dura diverse ore da solo) e strutturati in modo ondivago. Come gli altri resterà aperto per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024.

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah,  Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council. All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

John Akomfrah, Canto I, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah,  Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council. All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

John Akomfrah, Canto III, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah,  Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council. All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

John Akomfrah, Canto IV, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

John Akomfrah, Canto VII, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

John Akomfrah, Canto VIII, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

John Akomfrah and Tarini Malik. British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

Biennale di Venezia| “Super Superior Civilizations” il Padiglione Svizzera colorato, barocco e sovversivo di Guerreiro do Divino Amor

Installation view of Super Superior Civilizations by Guerreiro do Divino Amor at the Pavilion of Switzerland at the Biennale Arte 2024. Photo by Samuele Cherubini.

Coloratissimo, barocco, ironico e sovversivo il Padiglione SvizzeraSuper Superior Civilizations” dell’elvetico-brasiliano, Guerreiro do Divino Amor, per la Biennale di Venezia 2024, rappresenta una copia di capitoli nel grande progetto a cui l’artista si dedica da 20 anni ("Superfictional World Atlas") e che prevede di destrutturare in maniera sistematica gli stereotipi che modellano (e deformano) le identità nazionali. In laguna è stata la volta della Svizzera e dell’Italia (attraverso la sua capitale). Ma anche dell’Occidente in generale, che do Divino Amor critica, irridendo i simboli della superiorità morale, politica e intellettuale di Roma.

Singolare documentarista- ha detto il curatore italiano del padiglione, Andrea Bellini- dall’immaginazione barocca e straordinario creatore di mondi, Guerreiro do Divino Amor ci invita a ridere con spirito benevolo del nostro sciovinismo e di quei cliché con i quali rappresentiamo il mondo e noi stessi. Atteggiamento quest’ultimo che ci sembra di fondamentale importanza in un periodo di crescente polarizzazione della politica e di contrapposizioni radicali come quello che stiamo vivendo.”

Nato a Ginevra nell’83 da uno storico del protestantesimo di origine Svizzera e da una brasiliana, Guerreiro do Divino Amor, è cresciuto un po’ a Ginevra, un po’ in Francia, un po’ in Belgio, un po’ in Brasile e adesso abita a Rio de Janeiro. E’ laureato in architettura sperimentale mentre come artista è autodidatta. Il suo progetto "Superfictional World Atlas" è un atlante composto prevalentemente da film (ma non solo) delle ''super fictions” cioè quelle sovra- narrazioni, spesso basate su luoghi comuni, approssimazioni e persino invenzioni, che i Paesi usano per raccontare sé stessi agli altri ma anche per autodefinirsi (ad esempio: la Svizzera è una nazione in cui la giustizia viene prima di tutto o l’Italia ha un primato culturale che le viene dall’antica Roma). Naturalmente, l’artista, oltre a documentare queste storie autocelebrative, le indebolisce con la forza dell’ironia. Per farlo guarda spot e materiale pubblicitario destinato al mercato turistico ma si stabilisce anche nel Paese di cui ha intenzione di occuparsi (prima di mettersi al lavoro sulla pagina italiana di “Super Superior Civilizations” è rimasto nella capitale per cinque mesi).

Il Padiglione Svizzera è composto da “Il Miracolo di Helvetia”, un video panoramico proiettato sul soffitto (per l’occasione tramutato in cupola), che i visitatori possono ammirare stendendosi su delle lunghe sedute, e da “Roma Talismano”, senza contare la moltitudine di sculture e installazioni che rendono le sale pullulanti di riferimenti all’estetica delle telenovelas, della tv spazzatura, del carnevale e dei videogiochi. Ne “Il Miracolo di Helvetia” un pantheon di figure femminili si riunisce a sostegno di una nazione del doppio volto (da una parte patria della democrazia e dell’equità, dalla moralità superiore, dall’altra cieca e sorda di fronte alle ingiustizie che comprometterebbero la propria economia), In “Roma Talismano”, invece, un ologramma a grandezza naturale, interpretato dalla diva transessuale brasiliana Ventura Profana, intona una canzone molto orecchiabile (scritta dall’artista), che racconta dei simboli della città eterna (la lupa, l’agnello e l’aquila) e di come, attraverso i secoli, hanno plasmato l’immagine di superiorità occidentale.

Il padiglione svizzero, “Super Superior Civilizations” di Guerreiro do Divino Amor (curato da Andrea Bellini) per la 60esima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di VeneziaStranieri Ovunque- Foreigners Everywere” è stato commissionato dalla Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia e si potrà visitare fino al 24 novembre 2024. Va visto, prima di tutto, perché mette a nudo in modo molto piacevole stereotipi in cui tutti noi siamo talmente immersi da finire per confondere acriticamente con la verità. Ma anche perché, durante la Biennale della decolonizzazione, dà anche all’Italia responsabilità nel processo della colonizzazione, cosa di cui il Paese sembra sinceramente e completamente inconsapevole.

Installation view of Super Superior Civilizations by Guerreiro do Divino Amor at the Pavilion of Switzerland at the Biennale Arte 2024. Photo by Samuele Cherubini.

Installation view of Super Superior Civilizations by Guerreiro do Divino Amor at the Pavilion of Switzerland at the Biennale Arte 2024. Photo by Samuele Cherubini.

Installation view of Super Superior Civilizations by Guerreiro do Divino Amor at the Pavilion of Switzerland at the Biennale Arte 2024. Photo by Samuele Cherubini.

Installation view of Super Superior Civilizations by Guerreiro do Divino Amor at the Pavilion of Switzerland at the Biennale Arte 2024. Photo by Samuele Cherubini.

Installation view of Super Superior Civilizations by Guerreiro do Divino Amor at the Pavilion of Switzerland at the Biennale Arte 2024. Photo by Samuele Cherubini.

Installation view of Super Superior Civilizations by Guerreiro do Divino Amor at the Pavilion of Switzerland at the Biennale Arte 2024. Photo by Samuele Cherubini.

Guerreiro do Divino Amor and Andrea Bellini, Artist and Curator of the exhibition at the Swiss Pavilion at the 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia Photo: © Samuele Cherubini 

Daliland, al cinema il glamour e gli eccessi degli ultimi anni di Salvador Dalì

Dal prossimo 25 maggio al cinema uscirà “Daliland”. Un film che, tra glamour, genio e sregolatezza, racconterà gli ultimi anni del famosissimo artista, Salvador Dalì.

Uno dei primi ad aver costruito su se stesso un personaggio, ad aver lavorato non solo con pittura e scultura ma anche con cinema e fotografia, oltre a svariate discipline minori come grafica e pubblicità (disegnerà tra l’altro il logo dei lecca-lecca Chupa Chups). Ammirato, tra gli altri, da un giovanissimo e sconosciuto, Jeff Koons, che dalla Pennsylvania volò a New York, nella speranza di incontrarlo. E da Andy Warhol che riconobbe l’influsso delle sue intuizioni sulla Pop Art.

Daliland”, firmato dalla regista canadese Mary Harron, vedrà il Premio Oscar, Sir Ben Kingsley (“Gandhi”, “Hugo Cabret”), nei panni di Dalì. E già questo basterebbe per prendere in considerazione l’idea di andare a vedere il film. Senza contare che, l’attore indiano-britannico, verrà affiancato da Barbara Sukowa, Ezra Miller e Christopher Briney.

La storia racconta, con attenzione agli aspetti psicologici ed umani della vicenda, la paura del futuro dell’ormai anziano artista, la sua eccentrica quotidianità, i problemi economici (Dalì, ricco fin dalla nascita, aveva guadagnato molto con il suo lavoro ma amava il lusso e spedeva altrettanto) e lo stravagante legame con la moglie Gala.

Questa la trama: "New York 1974, James lavora presso la galleria d’arte che ospiterà la prossima esibizione del genio Salvador Dalí. Quando l’artista in persona gli propone di diventare suo assistente, il ragazzo pensa di coronare il sogno della sua vita, ma presto scopre che non è tutto oro quel che luccica”.

Era proprio il gennaio del ‘74 quando Koons sbarcò nella Grande Mela per incontrare Dalì. E chissà che non sia stato proprio quest’episodio ad aver ispirato l’intreccio di “Daliland”.

“Dietro allo stile di vita sgargiante- continua la trama- al glamour e ai party sontuosi, un grande vuoto consuma l’ormai anziano pittore, divorato dalla paura di invecchiare e dal dolore per il rapporto logoro con la dispotica moglie Gala, un tempo sua musa e ora circondata da giovani amanti e ossessionata dal denaro".

Gala e Dalì, si sposarono due volte (nel ‘34 con rito civile e nel ‘58 con quello cattolico), ma ebbero quasi sempre un rapporto platonico. Infatti, l’artista catalano, aveva letto un opuscolo sulle malattie sessualmente trasmissibili e ne era rimasto traumatizzato.

Daliland” con Ben Kingsley, nei panni di Salvador Dalì, e Barbara Sukowa, in quelli della moglie Gala, è distribuito dalla Plaion Pictures. E' stato presentato al Toronto International Film Festival 2022 e fuori concorso al 40° Torino Film Festival.