Ecco le opere pubbliche fiorentine di Tracey Emin in occasione della sua grande mostra a Palazzo Strozzi

La scultura “I Followed You To The End” vista dall'ingresso principale. Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Le opere pubbliche di Tracey Emin a Firenze
Collocate in occasione della personale Sex and Solitude

Entrando nel cortile di Palazzo Strozzi dall’ingresso principale (quello che si apre sulla piazza omonima), il grande monumento di Tracey Emin che occupa la porzione di suolo a cielo aperto, sembra una figura femminile nuda che, in ginocchio ma con il busto completamente a terra, tenta di avanzare. In realtà le tonnellate di bronzo ricoperte di avvallamenti e cunette (come argilla appena modellata da mani gigantesche) già da quella angolazione lasciano spazio a qualche dubbio sulla natura del soggetto rappresentato, che sembra emergere dal suolo mentre faticosamente procede a carponi, in bilico tra figurazione e astrazione, tra sfacciata determinazione e goffaggine. Tra “Sesso e Solitudine”, appunto.

Se poi si cambia punto di vista, “I Followed You To The End” (“Ti ho seguito fino alla fine”, 2024), installata a Firenze in occasione della personale “Sex and Solitude”(“Sesso e Solitudine”; che con oltre sessanta opere è la più grande mostra mai dedicata in Italia a Tracey Emin), muta forma fino ad evocare: due figure distese l’una accanto all’altra, un corpo mutilato sul punto di liquefarsi, la schiena di un gigante colpito a morte, uno strano rettile dall’aria bonaria e chissà cos’altro. Forse queste immagini sono solo suggestioni (come quando si gioca a nominare la sagoma delle nuvole), di certo però questa grande scultura che riesce a dare all’intimità un aspetto monumentale, a momenti sfiorata persino da un respiro epico, è quanto di più lontano ci sia dall’arte pubblica tradizionale. Niente certezze, pigli vittoriosi, celebrazioni e uomini su piedistalli. Al loro posto uno strano mix di testardaggine e vulnerabilità condensati in un corpo femminile ferito, esposto, quasi sul punto di perdere consistenza, ma risoluto a continuare il proprio cammino. Eppure è un opera pubblica.

Quando ero più giovane- ha detto Tracey Emin intervistata dal direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino- l’arte pubblica mi faceva infuriare. La trovavo troppo maschile, pretenziosa, spesso poco attraente e un po’ imbarazzante se non estremamente conservatrice. Non riuscivo a capire perché non esistessero opere d’arte pubblica più appaganti dal punto di vista emotivo. Poi ho capito: il fatto è che c’è poco spazio per l’emozione nella sfera pubblica o quantomeno è un sentimento che viene considerato pericoloso”.

Una visione laterale della scultura “I Followed You To The End”. Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Io comunque volevo provarci” ha continuato. E c’è riuscita con una serie di opere minute, poetiche e profondamente femminili che ha descritto lei stessa: “Ho iniziato a fare sculture pubbliche di dimensioni ridotte, come Roman Standard (Insegna romana) che è il mio uccellino su un palo ed è molto piccolo. Poi ci sono quelle di Sydney: sessantotto sculture di uccellini posati lungo una strada nel Central Business District. A Folkestone ho installato Baby Things (Cose da bambini): sculture di abiti e oggetti per neonati lasciate in diversi luoghi della città. Volevo creare un impatto emotivo con sculture pubbliche che fossero piccole e femminili”. Finché non è approdata alla scultura monumentale: “Poi ho deciso di fare l’esatto contrario, evitando però di fare il macho e mantenendo un’impronta spiccatamente femminile. Così ora, a Oslo, c’è una mia scultura alta nove metri dal titolo The Mother (La madre) che rappresenta essenzialmente mia madre: una donna anziana in ginocchio. Non ho mai visto una scultura pubblica o una statua di una vecchia prima d’ora, quindi penso di aver fatto davvero qualcosa di nuovo e in un certo modo sensazionale” (si tratta di un’opera in bronzo alta nove metri collocata davanti al Munch Museum di Oslo).

Malgrado non sia stata creata per Palazzo Strozzi né per uno spazio collettivo in genere, “I Followed You To The End” (che mercoledì scorso è stata calata direttamente al centro del cortile con una grande gru), a Firenze è un’opera pubblica. Le persone possono entrare nel cortile dell’edificio rinascimentale e guardarla, girarle intorno, fotografarla o farsi un selfie accanto a lei (anche decidendo di non visitare la personale).

Il neon “Sex and Solitude” di Tracey Emin spento durante il giorno. Photo © artbooms

Nonostante in occasione delle grandi mostre contemporanee il museo abbia l’abitudine di installare un lavoro di dimensioni monumentali nel proprio cortile (durante il giorno è sempre aperto e la gente a volte lo usa per spostarsi da Piazza Strozzi alla via parallela, o si ferma alla caffetteria sotto il loggiato a bere qualcosa), è inconsueto che faccia di più. In questo caso invece ha esposto anche un'altra opera pubblica: un neon creato appositamente per l’evento.

Collocato sulla facciata recita con la calligrafia veloce e graziosa della signora Emin il titolo della mostra (“Sex and Solitude”), in un azzurro pop e raffinato, pensato per sposarsi col cielo terso al di sopra dell’edificio ma anche per evocare la purezza cromatica dell’arte rinascimentale e ricordare il mare. Infatti Tracey Emin, nata a Croydon e cresciuta a Margate (una cittadina costiera inglese nella contea di Kent), usa spesso questo materiale per ricordare le atmosfere balneari della sua infanzia. Ha spiegato: “Sono cresciuta circondata da neon: erano ovunque a Margate. Oggi lì ne sono rimasti pochi, ma nel resto del mondo sono tantissimi. Io ho iniziato a farli perché volevo vederne di più in giro”. Anche se Margate, con le sue enormi spiagge sabbiose e i suoi tramonti rosati capaci di stregare Turner, allora non fosse una meta molto gettonata per le villeggiature (era anzi diventata teatro di guerre tra bande dopo aver attraversato periodi felici in cui attirava centinaia di vacanzieri). Ma lei, che sulle prime aveva fatto di tutto per lasciarla (comprensibilmente, visto che da bambina le capitò di tutto: dal rimanere senza tetto allo essere stuprata), non se l’è mai dimenticata. Tant’è vero che un altro suo neon è collocato stabilmente sulla facciata della Droit House a Margate (dove hanno anche sede: lo Tracey Emin Museum; le Tracey Emin Artist Recidencies, una scuola d’arte che ha ridato vita ad un ex-stabilimento balneare; gli Tracey Emin Studios, cioè spazi di lavoro per artisti a prezzi agevolati; oltre ad uno studio, un archivio, un appartamento, un roof garden e una piscina solo per lei). Il neon di Margate è rosa (per fare il paio con i suoi tramonti) e dice “I Never Stopped Loving You”.

Il neon "Sex and Solitude" acceso la sera. Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Anche se quella di Margate è un’opera particolarmente sentita per i riferimenti biografici evocati dalla collocazione (e la poetica di Emin è legata a filo doppio alla sua storia personale) ha molto in comune con il neon “Sex and Solitude” di Palazzo Strozzi. Entrambi si accendono al buio e restano spenti durante il giorno ma soprattutto ognuno di essi si trova su edifici d’epoca (in realtà quello di Margate è solo la ricostruzione di uno stabile ottocentesco) dal carattere celebrativo, che le parole di Emin rendono personali, persino intimi.

Ma le opere ad accesso pubblico in occasione della mostra “Sex and Solitude” non finiscono qui. Difatti, a Palazzo Gucci (in Piazza della Signoria) si potrà anche godersi gratuitamente una selezione di video realizzati tra il ’97 e il 2005 dall’artista inglese. La signora Emin che li ha rivisti mercoledì scorso dopo tanto tempo ha detto: “Me li ero completamente dimenticati!

Le opere pubbliche tuttavia sono solo una piccola parte del percorso nell’arte di Tracey Emin che i visitatori di “Sex and Solitude” intraprenderanno. Con oltre sessanta opere provenienti da più continenti, infatti, la personale a Palazzo Strozzi curata da Arturo Galansino sarà la più grande mostra a lei mai dedicata in Italia (ne parleremo presto). E uno dei suoi pochi show ammirabili in generale, visto che da dopo il cancro (è stata operata nel 2020) li seleziona con cura e ne fa al massimo due all’anno.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

L’universo esoterico di Paulina Olowska, a cui piacciono le cose polverose e i vecchi neon sovietici:

Paulina Olowska, The Revenge of the Wise Woman, 2011 oil on canvas, 200x220cm Private collection

Quello di Paulina Olowska è un universo caleidoscopico, nostalgico ed allegro. Vagamente esoterico. Dove l’artista dissemina le opere del presente con scampoli di passato; si appropria della pubblicità per metterla al servizio dell’arte; cita la moda; introduce un approccio femminista all’interno di un’ottica prettamente maschile. Perché lei è così, le piace giocare di punti di vista, rovesciare le prospettive e poi raddrizzarle.

Ma tutto è cominciato con le insegne al neon di Varsavia nei primi anni 2000. Oscurate e inutilizzate, in una capitale polacca che accusava ancora i postumi della fine di un’Era. La ‘neonizzazione’ della città, infatti, era stata pianificata a livello centrale tra gli anni ’50 e il decennio successivo, per ridare animo alla popolazione stremata. E le insegne luminose erano fiorite ovunque: bar, ristoranti, negozi, persino le facciate delle scuole avevano il loro bravo neon. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, insieme agli altri simboli del Socialismo, i neon non interessavano più a nessuno.

Ma Olowska non se ne faceva una ragione.

(…) Nel 2001 sono tornato in Polonia- ha detto in un’intervista- mi interessava esplorare la nostalgia dell'architettura post-sovietica e il sentimento post-sovietico all'interno della società. Per molte ragioni politiche gran parte di ciò veniva respinto (…) Uno dei miei obiettivi era quello di sensibilizzare l'opinione pubblica su specifici design di luci al neon e su alcuni aspetti della moda che esistevano, e anche portare l'attenzione sulla comunità del lavoro collaborativo che era molto più presente negli anni '60 e '70. (…) Attraverso il mio lavoro, cerco di affrontare le cose che a volte ignoriamo perché il mondo ‘sta andando avanti’.”

Così ha prima fondato un’associazione (“Beautiful Neons”) per negoziare la sopravvivenza di ogni insegna luminosa minacciata e poi ha cominciato a inserirle nelle sue opere. Lo fa ancora adesso. Ma i neon non sono i soli oggetti passati di moda a interessarle. In generale, si tratta di forme di modernismo utopiche (come il cabaret polacco, il Bauhaus, l’avanguardia russa, persino l’Esperanto) ma non soltanto. Le interessa tutto ciò che stà diventando polveroso. In “Naughty Nymphs” presentata all’Art Institute di Chicago nel 2022, ad esempio, mette in scena una performance ispirata allo stile soft porn di VIVA, una rivista per adulti destinata alle donne, che veniva pubblicata negli Stati Uniti durante gli anni ‘70.

Questa performance (interpretata dalla cantante Pat Dudek), Olowska, la presenterà anche giovedì 2 novembre a Torino in occasione dell’inaugurazione di “Visual Persuasion” alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Ispirato tra l’altro dalla pittrice e autrice di immagini al confine tra erotismo e pornografia, scomparsa nel ‘78, Maja Berezowska (un altro pallino di Olowska: ridare lustro ad autori che si vanno dimenticando), il progetto, oltre a mettere in fila lavori esistenti e nuove produzioni dell’artista polacca la vedrà anche in veste di curatrice.

Si tratterà della più ampia rassegna mai dedicata a Paulina Olowska da una istituzione italiana e ruba il titolo a un libro pubblicato nel ‘61 dall’austriaco Stephen Baker. In quest’ultimo, Baker, parlava dei media e di come la comunicazione visiva possa agire sul subconscio (come si persuade qualcuno a fare qualcosa senza che se ne accorga? Come si genera desiderio?). Inutile dire che Olowska ha usato il testo di Baker come terreno fertile, su cui è germinata e cresciuta l’intera esposizione. E visto che dal desiderio inconscio (seppur di tipo commerciale) alla figura femminile come stereotipo, oggetto e soggetto della seduzione, il passo è breve, Olowska, si gioca questa carta senza pensarci due volte. D’altra parte, più spesso i protagonisti dei suoi dipinti sono donne.

Nata a Danzica nel ’76, Paulina Olowska, utilizza diverse tecniche espressive (come pittura, collage, installazione, performance, moda e musica). Figlia di uno scrittore di discorsi per il movimento Solidarność (e per il leader Lech Walesa) rifugiatosi negli Stati Uniti, Olowaska, da bambina ha vissuto a Chicago un anno soltanto (poi il matrimonio dei genitori è finito e lei è tornata in Polonia). Sarà di nuovo a Chicago, tra il ’95 e il ’96 per studiare alla School of the Art Institute of Chicago, mentre tra il ’97 e il 2000 approfondirà pittura e stampa all’Accademia di Danzica. Di lì in poi viaggerà parecchio e il suo lavoro si guadagnerà in fretta un posto nella ribalta internazionale. Oggi ha opere conservate al Centre Pompidou di Parigi, al MoMA di New York e alla Tate Modern di Londra, oltre ad aver vinto premi ed esposto in mostre importanti (ad esempio, la Biennale di Venezia).

Olowska affianca da tempo la pratica curatoriale a quella artistica. A Torino, infatti, ci sarà anche una selezione curata dall’artista polacca di opere dalla collezione Sandretto Re Rebaudengo che comprenderà lavori di: Tauba Auberbach, Vanessa Beecroft, Berlinde De Bruyckere, Trisha Donnelly, Peter Fischli and David Weiss, Sylvie Fleury, Nan Goldin, Dominique Gonzalez-Foerster, Mona Hatoum, Thomas Hirschhorn, Piotr Janas, Elena Kovylina, Barbara Kruger, Sherrie Levine, Sarah Lucas, Tracey Moffatt, Catherine Opie, Diego Perrone, Charles Ray, Cindy Sherman, Simon Starling e Richard Wentworth. Ma ce ne saranno anche di recuperati altrimenti da Olowska (oltre a opere delle già citate Berezowska e Dudek compaiono anche i nomi di Walerian Borowczyk, Irini Karayannopoulou, Sylvere Lotringer e Julie Verhoeven).

Tuttavia la protagonista sarà lei. E viene da se che non mancheranno certo i neon.

La mostra “Visual Persuasion” di Paulina Olowska rimarrà alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino fino al 25 febbraio 2024.

Paulina Olowska, Seductress, 2020 oil on canvas, 170x110cm Christen Sveaas Art Collection

Paulina Olowska, The Thychy Plant, 2013 oil and collage on canvas, 220x200cm  Collection of Contemporary Art

Paulina Olowska, Weeds, 2017 oil on canvas, 110x78x2,5cm Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

Paulina Olowska, Spider Painters, 2020 gouache, oil printed transparency film and embroidery on canvas, 160x140cm Courtesy of the artist and Pace Gallery

Paulina Olowska, Loveress, 2020 oil on canvas, 160x110cm Collection Philippe Dutilleul-Francoeur

Come macro coralli ed enormi meduse le installazioni luminose di Adela Andrea

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L’artista rumena Adela Andrea adesso vive in Texas, Ed è proprio negli Stati Uniti che realizza con luci al neon, LED e lenti d’ingrandimento, la maggior parte delle sue installazioni. Opere immersive, grandi, apparentemente caotiche ma anche armoniose che l’autrice definisce “futuristiche”.
Le installazioni di Adela Andrea a prima vista fanno pensare alle esplosioni e ai fuochi d’artificio, anche se l’artista trae ispirazione da forme biologiche che niente hanno a che vedere con le guerre, i festeggiamenti rumorosi e la fantascienza. Coralli, meduse, pesci luminosi e forme varie di vita sottomarina, oltre agli iceberg, fanno da spiriti guida a quest’universo luminoso e  un po’sfacciato. 

Che per Andrea è anche la rappresentazione visiva dello spirito d’adattamento e della capacità di crescita del genere umano.
"Le numerose transizioni della mia vita mi hanno fatto riflettere sull'enorme capacità delle persone di adattarsi alle situazioni- spiega l’artista- e ancora di più, di cercare possibilità di sviluppo personale attraverso le nuove esperienze".

Per vedere altre installazioni di Adela Andrea si può ricorrere al suo sito internet. (via The Jealous Curator)

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