Ecco le opere pubbliche fiorentine di Tracey Emin in occasione della sua grande mostra a Palazzo Strozzi

La scultura “I Followed You To The End” vista dall'ingresso principale. Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Le opere pubbliche di Tracey Emin a Firenze
Collocate in occasione della personale Sex and Solitude

Entrando nel cortile di Palazzo Strozzi dall’ingresso principale (quello che si apre sulla piazza omonima), il grande monumento di Tracey Emin che occupa la porzione di suolo a cielo aperto, sembra una figura femminile nuda che, in ginocchio ma con il busto completamente a terra, tenta di avanzare. In realtà le tonnellate di bronzo ricoperte di avvallamenti e cunette (come argilla appena modellata da mani gigantesche) già da quella angolazione lasciano spazio a qualche dubbio sulla natura del soggetto rappresentato, che sembra emergere dal suolo mentre faticosamente procede a carponi, in bilico tra figurazione e astrazione, tra sfacciata determinazione e goffaggine. Tra “Sesso e Solitudine”, appunto.

Se poi si cambia punto di vista, “I Followed You To The End” (“Ti ho seguito fino alla fine”, 2024), installata a Firenze in occasione della personale “Sex and Solitude”(“Sesso e Solitudine”; che con oltre sessanta opere è la più grande mostra mai dedicata in Italia a Tracey Emin), muta forma fino ad evocare: due figure distese l’una accanto all’altra, un corpo mutilato sul punto di liquefarsi, la schiena di un gigante colpito a morte, uno strano rettile dall’aria bonaria e chissà cos’altro. Forse queste immagini sono solo suggestioni (come quando si gioca a nominare la sagoma delle nuvole), di certo però questa grande scultura che riesce a dare all’intimità un aspetto monumentale, a momenti sfiorata persino da un respiro epico, è quanto di più lontano ci sia dall’arte pubblica tradizionale. Niente certezze, pigli vittoriosi, celebrazioni e uomini su piedistalli. Al loro posto uno strano mix di testardaggine e vulnerabilità condensati in un corpo femminile ferito, esposto, quasi sul punto di perdere consistenza, ma risoluto a continuare il proprio cammino. Eppure è un opera pubblica.

Quando ero più giovane- ha detto Tracey Emin intervistata dal direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino- l’arte pubblica mi faceva infuriare. La trovavo troppo maschile, pretenziosa, spesso poco attraente e un po’ imbarazzante se non estremamente conservatrice. Non riuscivo a capire perché non esistessero opere d’arte pubblica più appaganti dal punto di vista emotivo. Poi ho capito: il fatto è che c’è poco spazio per l’emozione nella sfera pubblica o quantomeno è un sentimento che viene considerato pericoloso”.

Una visione laterale della scultura “I Followed You To The End”. Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Io comunque volevo provarci” ha continuato. E c’è riuscita con una serie di opere minute, poetiche e profondamente femminili che ha descritto lei stessa: “Ho iniziato a fare sculture pubbliche di dimensioni ridotte, come Roman Standard (Insegna romana) che è il mio uccellino su un palo ed è molto piccolo. Poi ci sono quelle di Sydney: sessantotto sculture di uccellini posati lungo una strada nel Central Business District. A Folkestone ho installato Baby Things (Cose da bambini): sculture di abiti e oggetti per neonati lasciate in diversi luoghi della città. Volevo creare un impatto emotivo con sculture pubbliche che fossero piccole e femminili”. Finché non è approdata alla scultura monumentale: “Poi ho deciso di fare l’esatto contrario, evitando però di fare il macho e mantenendo un’impronta spiccatamente femminile. Così ora, a Oslo, c’è una mia scultura alta nove metri dal titolo The Mother (La madre) che rappresenta essenzialmente mia madre: una donna anziana in ginocchio. Non ho mai visto una scultura pubblica o una statua di una vecchia prima d’ora, quindi penso di aver fatto davvero qualcosa di nuovo e in un certo modo sensazionale” (si tratta di un’opera in bronzo alta nove metri collocata davanti al Munch Museum di Oslo).

Malgrado non sia stata creata per Palazzo Strozzi né per uno spazio collettivo in genere, “I Followed You To The End” (che mercoledì scorso è stata calata direttamente al centro del cortile con una grande gru), a Firenze è un’opera pubblica. Le persone possono entrare nel cortile dell’edificio rinascimentale e guardarla, girarle intorno, fotografarla o farsi un selfie accanto a lei (anche decidendo di non visitare la personale).

Il neon “Sex and Solitude” di Tracey Emin spento durante il giorno. Photo © artbooms

Nonostante in occasione delle grandi mostre contemporanee il museo abbia l’abitudine di installare un lavoro di dimensioni monumentali nel proprio cortile (durante il giorno è sempre aperto e la gente a volte lo usa per spostarsi da Piazza Strozzi alla via parallela, o si ferma alla caffetteria sotto il loggiato a bere qualcosa), è inconsueto che faccia di più. In questo caso invece ha esposto anche un'altra opera pubblica: un neon creato appositamente per l’evento.

Collocato sulla facciata recita con la calligrafia veloce e graziosa della signora Emin il titolo della mostra (“Sex and Solitude”), in un azzurro pop e raffinato, pensato per sposarsi col cielo terso al di sopra dell’edificio ma anche per evocare la purezza cromatica dell’arte rinascimentale e ricordare il mare. Infatti Tracey Emin, nata a Croydon e cresciuta a Margate (una cittadina costiera inglese nella contea di Kent), usa spesso questo materiale per ricordare le atmosfere balneari della sua infanzia. Ha spiegato: “Sono cresciuta circondata da neon: erano ovunque a Margate. Oggi lì ne sono rimasti pochi, ma nel resto del mondo sono tantissimi. Io ho iniziato a farli perché volevo vederne di più in giro”. Anche se Margate, con le sue enormi spiagge sabbiose e i suoi tramonti rosati capaci di stregare Turner, allora non fosse una meta molto gettonata per le villeggiature (era anzi diventata teatro di guerre tra bande dopo aver attraversato periodi felici in cui attirava centinaia di vacanzieri). Ma lei, che sulle prime aveva fatto di tutto per lasciarla (comprensibilmente, visto che da bambina le capitò di tutto: dal rimanere senza tetto allo essere stuprata), non se l’è mai dimenticata. Tant’è vero che un altro suo neon è collocato stabilmente sulla facciata della Droit House a Margate (dove hanno anche sede: lo Tracey Emin Museum; le Tracey Emin Artist Recidencies, una scuola d’arte che ha ridato vita ad un ex-stabilimento balneare; gli Tracey Emin Studios, cioè spazi di lavoro per artisti a prezzi agevolati; oltre ad uno studio, un archivio, un appartamento, un roof garden e una piscina solo per lei). Il neon di Margate è rosa (per fare il paio con i suoi tramonti) e dice “I Never Stopped Loving You”.

Il neon "Sex and Solitude" acceso la sera. Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Anche se quella di Margate è un’opera particolarmente sentita per i riferimenti biografici evocati dalla collocazione (e la poetica di Emin è legata a filo doppio alla sua storia personale) ha molto in comune con il neon “Sex and Solitude” di Palazzo Strozzi. Entrambi si accendono al buio e restano spenti durante il giorno ma soprattutto ognuno di essi si trova su edifici d’epoca (in realtà quello di Margate è solo la ricostruzione di uno stabile ottocentesco) dal carattere celebrativo, che le parole di Emin rendono personali, persino intimi.

Ma le opere ad accesso pubblico in occasione della mostra “Sex and Solitude” non finiscono qui. Difatti, a Palazzo Gucci (in Piazza della Signoria) si potrà anche godersi gratuitamente una selezione di video realizzati tra il ’97 e il 2005 dall’artista inglese. La signora Emin che li ha rivisti mercoledì scorso dopo tanto tempo ha detto: “Me li ero completamente dimenticati!

Le opere pubbliche tuttavia sono solo una piccola parte del percorso nell’arte di Tracey Emin che i visitatori di “Sex and Solitude” intraprenderanno. Con oltre sessanta opere provenienti da più continenti, infatti, la personale a Palazzo Strozzi curata da Arturo Galansino sarà la più grande mostra a lei mai dedicata in Italia (ne parleremo presto). E uno dei suoi pochi show ammirabili in generale, visto che da dopo il cancro (è stata operata nel 2020) li seleziona con cura e ne fa al massimo due all’anno.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Barbara Chase-Riboud, prima artista vivente nella storia, espone in 8 musei parigini contemporaneamente (tra loro il Louvre)

Barbara Chase-Riboud. Les baigneurs. FNAC 9805. Centre national des arts plastiques_and Time Wom. Pivate Coll USA_Expo musée d’Orsay 2024 © Barbara Chase-Riboud_Cnap

Fan e amica dello scultore svizzero-italiano, Alberto Giacometti (era nato non molto lontano dal confine, la famiglia aveva radici italiane), Barbara Chase-Riboud, è francese d’adozione (vive nel VI arrondissement di Parigi in un edificio art-decò) ma ha speso parte della sua vita in Italia, nonostante ciò non è una delle artiste più conosciute nel nostro Paese. Ed è strano perché, pluripremiata poetessa, famosa scrittrice, è una scultrice dalla carriera settantennale alle spalle. Di più: in seconde nozze ha sposato il critico italiano Sergio Tosi e da decenni il suo studio ha sede a Roma, dove visse un anno (dal ’56 al ’57) per studiare all’Accademia Americana. E poi lei (che padroneggia parecchie lingue) dice di imprecare in italiano.

In realtà, Chase-Riboud è poco nota come artista visuale anche altrove. Probabilmente per via del successo letterario che ha adombrato la sua non meno importante attività scultorea. In Francia, tuttavia, dove non esponeva dal lontano ’74, si è deciso di porre rimedio alla lacuna. Alla maniera d’oltralpe: in grande stile!

Insignita della Legion d’Onore dal governo francese nel 2022, Chase-Riboud, infatti, da inizio ottobre viene celebrata contemporaneamente da otto musei parigini (tra loro il Louvre, il Centre Pompidou, il Museé d’Orsay e il Palais de Tokyo). E’ il primo artista vivente cui viene tributato quest’onore.

D’altra parte la sua carriera, cominciata con l’acquisto di una xilografia che aveva fatto a soli quindici anni da parte del MoMa di New York e la sua storia personale (basta dire che fu Jacqueline Kennedy Onassis a spronarla a scrivere il suo primo romanzo), sono del tutto fuori dall’ordinario.

Barbara Chase-Riboud and Bathers, La Chenillère, France 1969 © Photograph by Marc Riboud

Barbara Chase-Riboud nasce nel 1939 a Philadelphia in Pennsylvania (lo stato confina con quello di New York anche se Philadelphia è piuttosto vicina a Washington) da una famiglia afroamericana della classe media. Fin da bambina manifesta uno spiccato talento per le arti, tanto che a soltanto 8 anni comincia a frequentare la Fleisher Art Memorial School. Si sarebbe poi diplomata con il massimo dei voti alla Philadelphia High School for Girls (avrebbe però anche seguito dei corsi alla scuola d’arte del museo di Philadelphia) per poi laurearsi in Belle Arti alla Tyler School della Temple University. Dopo questo periodo crea le sue prime sculture in bronzo, comincia a esporre i suoi lavori e studia un anno all’Accademia Americana di Roma (aveva vinto una borsa di studio, però, per guadagnare qualche soldo in più, ha partecipato come comparsa in costume al film Ben-Hur e Cinecittà la ha selezionata per prendere parte ad altre produzioni) ma soprattutto consegue un master in belle arti alla Yale University (ai tempi le afroamericane ad averla frequentata si contavano sulle dita delle mani).

In seguito di Yale avrebbe detto: “C'erano tre donne nere alla scuola di specializzazione a Yale nel '57. Una in filosofia, una in legge e poi c'ero io. Ma l'ho semplicemente ignorato", ha poi aggiunto: “E naturalmente, ero già stata all'accademia di Roma, che era la stessa situazione: era tutto maschile”.

Chase-Riboud in quegli anni sognava l’Europa. L’idea era quella di trasferirsi a Londra (i mitici Swinging Sxties si stavano avvicinando, e chi non avrebbe voluto essere nella capitale inglese in quel periodo?!) ma durante un soggiorno in Francia conosce il fotografo dell’agenzia Magnum, Marc Riboud (è talentuoso e viene anche da una ricca famiglia): si fidanzano, si sposano, fanno due figli e rimangono a Parigi. Barbara, che ai tempi aveva già viaggiato parecchio (sia in Occidente che in Africa), vive con la valigia sempre pronta. In merito dirà: “Sono andata ovunque perché all'epoca ero sposata con Marc Riboud, un fotografo e membro della Magnum Photos, che ha coperto il mondo. In molti di questi viaggi, ero solo lì per il viaggio. Ma che viaggio è stato! Ho scoperto tutti i tipi di nuove civiltà e nuovi modi di guardare il mondo che non avevo idea avrei mai conosciuto”. E commentando quei viaggi che l’avrebbero portata tra gli altri luoghi in Cina, Nord Africa, Europa orientale e Mongolia, ha aggiunto: “Sono stata la prima donna americana a essere invitata in Cina dopo la rivoluzione. Ho partecipato a una cena con il presidente Mao Zedong. Io e 5.000 cittadini cinesi. È stata un'avventura straordinaria”.

Non a caso, anche dopo il divorzio (nell’81) e il secondo matrimonio con Tosi lei continuerà a mantenere accanto al suo il cognome del primo coniuge, sposato il giorno di Natale di vent’anni prima.

Barbara Chase-Riboud. Portrait © Virginia Harold. Courtesy Pulitzer Arts Foundation-jpg

Nel frattempo Chase-Riboud lavora instancabilmente. Usa vari medium ma quello che la definisce meglio è anche quello per cui è più conosciuta: la scultura. Al principio risente molto l’influsso di Giacometti e modella figure per poi dedicarsi all’astrazione. Il suo materiale prediletto è il bronzo: “Il bronzo è senza tempo. È intriso di storia, è il materiale degli artigiani del Regno del Benin e del Barocco". Usa un metodo a cera persa che affonda le sue origini, appunto, nella storia di antiche civiltà ma che sostanzialmente lei ha creato di testa sua: manipola dei grandi fogli di cera rossa, poi fonde i prototipi in bronzo e li drappeggia con matasse di seta o lana intrecciati. Le sue opere, il più delle volte dalle dimensioni imponenti, sono un mix di immobile e sacrale monumentalità con tensioni al movimento a volte frementi, altre violentemente legate all’affermazione e alla forza, altre ancora biomorfe, capaci far apparire il metallo in via di liquefarsi. I tessuti fanno da contrappunto morbido e tattile alla solidità del bronzo. E poi c’è la grazia di pieghe e intrecci, lo sfarzo dell’oro, l’irrompere inaspettato del rosso.

Sul perché, Chase-Riboud non ha dubbi: “Si crea arte per creare bellezza; non c'è nessun altro motivo. Qualsiasi altro motivo è davvero autoindulgente, per quanto mi riguarda".

Barbara Chase-Riboud. Zanzibar (Brown Element)1974-75_Expo 2024 Palais Porte dorée © Anne Volery Palais de la Porte Dorée

Molte sue sculture, tuttavia, fanno riferimento a personaggi della storia recente. Ad esempio, una delle sue prime serie distintive (siamo nel ’69 quando l’ha cominciata) è dedicata al leader afroamericano assassinato nel ’65, Malcom X. Queste opere (una delle quali è attualmente esposta al Centre Pompidou) hanno dimensioni imponenti e sono, tra l’altro, ispirate alle antiche pratiche funerarie egizie. Mentre recentemente ha presentato quella che rende omaggio a Josephine Baker (non molto tempo prima, infatti, il nome di Baker era entrato nel Panthéon, quinta donna nella storia a meritare tale onore e prima nera in assoluto). Ma i suoi memoriali hanno commemorato anche a Lady Mcbeth o Cleopatra. In generale queste opere spingono a chiedersi secondo quale principio si decida a chi rendere omaggio e perché.

Alle pareti del Louvre ci sono anche dei versi di Chase-Riboud. Come poetessa lei è conosciuta già dal ’74, quando pubblicò una raccolta curata dalla premio Pulitzer, Toni Morrison. Ma la fama in campo letterario l’ha ottenuta con il romanzo storico "Sally Hemings" (è proprio questo che Jackie Kennedy la esortò a scrivere) e le polemiche che ne seguirono. Il libro parla, infatti, della schiava con cui Thomas Jefferson (terzo presidente degli Stati Uniti dal 1801 al 1809) visse da concubino e da cui ebbe sei figli (siamo nel ’79, qualche storico mette in dubbio la relazione di Jefferson, la CBS viene spinta a non mandare in onda una serie Tv sull’argomento; anni dopo il dna accerterà che i figli erano effettivamente di Jefferson). Comunque per Chase-Riboud fu tutta pubblicità, dopo questo primo successo avrebbe scritto molti altri romanzi storici e sarebbe arrivata a superare le 3milioni di copie vendute in tutto il mondo.

Le mostra parigina di Barbara Chase-Riboud in più musei, si concluderà a gennaio 2025. La data precisa dipende dall’istituzione culturale: si va dal 5 del Palais de Tokyo o dal 6 di Louvre e Centre Pompidue al 13 del Musée du quai Branly - Jacques Chirac. Mentre il Musée d’Orsay (che aveva installato le sue opere prima degli altri) terminerà il suo tributo all’artista franco-statunitense già il 15 dicembre 2024.

Barbara Chase-Riboud. Mao's Organ, 2007. Private collection_Expo 2024 Musée Guimet © Barbara Chase-Riboud

Barbara Chase-Riboud. Cleopatra s Cape_Expo 2024 Musée du Louvre © Collection of the Studio Museum in Harlem, New York

Barbara Chase-Riboud. Cleopatra s Cape_Expo 2024 Musée du Louvre ©Musée du Louvre_AViger

Barbara Chase-Riboud. Time Womb Jacqueline, 1970_Private collection USA_Expo musée d’Orsay 2024 © Barbara Chase-Riboud_Cnap

Barbara Chase-Riboud. Les baigneurs. FNAC 9805. Centre national des arts plastiques_Expo musée d’Orsay 2024 © Barbara Chase-Riboud_Cnap

Barbara Chase-Riboud. Cleopatra s bed_Expo 2024 Musée du Louvre © Musée du Louvre_AViger

Barbara Chase-Riboud. Zanzibar (Brown Element), 1974-75. Private collection_ Expo 2024 Palais Porte Dorée © Jo Underhil

Barbara Chase-Riboud avec La Musica Josephine RedBlack 2021. Private collection_Expo 2024 Cité de la musique © Grace Roselli

Palimpsest: lo stupefacente memoriale di Doris Salcedo impresso nella sabbia e scritto con l'acqua alla Fondazione Beyeler

Doris Salcedo, Palimpsest, 2013–2017 Installation view, Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2022 Hydraulic equipment, ground marble, resin, corundum, sand and water; dimensions variable © the artist photo: Mark Niedermann

Frutto di dieci anni di lavoro, l’installazione Palimpsest dell’artista colombiana Doris Salcedo, attualmente in mostra alla Fondazione Beyeler (nel comune di Riehen, nei pressi di Basilea, in Svizzera), è davvero stupefacente. Si tratta di un semplice memoriale a pavimento. Ma i nomi dei defunti, anzichè essere incisi nella pietra o nel metallo, sono impressi nella sabbia o si formano dall’unirisi di piccolissime gocce d’acqua.

Palimpsest è dedicata alle persone morte in mare durante i movimenti migratori verso l’Europa. Salcedo, infatti, vista la sua storia personale (i membri della sua stessa famiglia sparirono durante un momento travagliato della storia colombiana), da sempre focalizza la sua opera sul ciclo di violenza, indignazione, ricordo e oblio. E in quest’opera usa un linguaggio poeticamente carico ma anche in grado di stupire, basato sulla forza simbolica di acqua e sabbia.

Nata nel 1958 a Bogotà in Colombia, dove abita tutt’ora dopo un periodo negli Stati Uniti, Doris Salcedo, è un’artista internazionale molto nota. Tra le sedi più prestigiose in cui sono stati esposti suoi lavori ci sono sia la Tate Modern che la Tate Britain di Londra, documenta di Kassel, il  Museum of Contemporary Art di Chicago, il Guggenheim Museum di New York, oltre al Castello di Rivoli a Torino e al MAXXI (Roma). Iconici sono diventati, i suoi assemblaggi dolenti di oggetti della quotidianità e i suoi mobili mal in arnese riempiti di cemento. Al centro del suo lavoro sempre il dolore della perdita che scaturisce da un evento violento e le successive fasi di elaborazione del lutto (personali ma soprattutto collettive) fino alla perdita del ricordo. Salcedo ha, inoltre, da tempo adottato un approccio “giornalistico” alla preparazione dell’opera: intervistando famigliari delle vittime, visitando obitori e luoghi di un disastro.

Anche per preparare Palimpsest, difatti, l’artista colombiana ha passato 5 anni a fare ricerche. A dire il vero, in questo caso, i tempi avrebbero potuto essere sensibilmente più brevi se l’Unione Europea, a cui Salcedo aveva chiesto l’elenco dei nomi delle vittime, glielo avesse fornito. Ma non lo ha fatto. Così lei è partita scandagliando i social media, per incrociare poi i risultati con gli articoi di giornale ed arrivare in seguito ai contatti con sopravvissuti e parenti. Alla fine ha messo insieme 300 nomi.

Alla Fondazione Beyeler tuttavia se ne possono leggere 171. I nomi sono distribuiti su 66 lastre di pietra (posate, a loro volta, su una superficie di circa 400 metri quadrati), che compongono la base del memoriale. Una scultura fragile e raffinata al tempo stesso, che ha avuto bisogno di atri 5 anni per essere realizzata.

L’installazione Palimpsest (in italiano Palinsesto), prende il nome dalla parola di origine greca che si usa per indicare un manoscritto con parole cancellate e coperte da nuove frasi. Anche l’opera di Salcedo, infatti, si compone di due cicli di nomi sovrapposti. Nel primo, i nomi dei migranti morti antecedentemente al 2010, sono impressi nella sabbia fine che ricopre le lastre di pietra. Nel secondo, quelli delle persone che hanno perso la vita in mare tra il 2011 e il 2016, appaiono lentamente sopra gli altri. Dapprima come fossero solo minuscole gocce d’acqua, che poi però si uniscono componendo delle nuove lettere. In questo modo l’artista fa riferimento all’affievolirsi della memoria collettiva fino all’oblio. Tant’è vero, che anche i nomi scritti con l’acqua sono destinati ad avere vita breve, riassorbiti dalla sabbia.

Doris Salcedo, che ha cominciato la sua carriera parlando delle tragedie che hanno segnato la Colombia, nel tempo ha dedicato la sua opera anche ad eventi luttuosi in altre parti del mondo, come le vittime delle armi negli Stati Uniti. Ha detto che a colpirla nella storia dei migranti, non è solo il doloroso epilogo ma l’incompiutezza. Come se il viaggio, anzichè essere un ponte era il prima e il dopo nella vita di queste persone, fosse una parentesi a se stante, e scomparire senza raggiungere la meta diventasse metafora di esistenze sospese.

Il memoriale Palimpsest, realizzato dal museo svizzero in stretta collaborazione con l'artista, il suo studio, e la galleria White Cube, è coordinato dall’Associate Curator, Fiona Esse, e rimarrà alla Fondazione Bayeler fino al 17 settembre 2023. Quest’ultima, il prossimo autunno, a Doris Salcedo dedicherà anche un’importante restrospettiva.

Le gocce d’acqua si uniscono lentamente per formare i nomi delle persone scomparse in mare. Immagine da video

Doris Salcedo, Palimpsest, 2013–2017 Installation view, Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2022 Hydraulic equipment, ground marble, resin, corundum, sand and water; dimensions variable © the artist photo: Mark Niedermann

Doris Salcedo, Palimpsest, 2013–2017 Installation view, Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2022 Hydraulic equipment, ground marble, resin, corundum, sand and water; dimensions variable © the artist photo: Mark Niedermann

Doris Salcedo, Palimpsest, 2013–2017 Installation view, Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2022 Hydraulic equipment, ground marble, resin, corundum, sand and water; dimensions variable © the artist photo: Mark Niedermann

Doris Salcedo, Palimpsest, 2013–2017 Installation view, Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2022 Hydraulic equipment, ground marble, resin, corundum, sand and water; dimensions variable © the artist photo: Mark Niedermann

Doris Salcedo, Palimpsest, 2013–2017 Installation view, Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2022 Hydraulic equipment, ground marble, resin, corundum, sand and water; dimensions variable © the artist photo: Mark Niedermann

Doris Salcedo, Palimpsest, 2013–2017 Installation view, Fondation Beyeler, Riehen/Basel, 2022 Hydraulic equipment, ground marble, resin, corundum, sand and water; dimensions variable © the artist photo: Mark Niedermann

Le gocce d’acqua si uniscono lentamente per formare i nomi delle persone scomparse in mare. Immagine da video

The Fondation Beyeler in winter. Photo: Mark Niedermann