Barbara Chase-Riboud, prima artista vivente nella storia, espone in 8 musei parigini contemporaneamente (tra loro il Louvre)

Barbara Chase-Riboud. Les baigneurs. FNAC 9805. Centre national des arts plastiques_and Time Wom. Pivate Coll USA_Expo musée d’Orsay 2024 © Barbara Chase-Riboud_Cnap

Fan e amica dello scultore svizzero-italiano, Alberto Giacometti (era nato non molto lontano dal confine, la famiglia aveva radici italiane), Barbara Chase-Riboud, è francese d’adozione (vive nel VI arrondissement di Parigi in un edificio art-decò) ma ha speso parte della sua vita in Italia, nonostante ciò non è una delle artiste più conosciute nel nostro Paese. Ed è strano perché, pluripremiata poetessa, famosa scrittrice, è una scultrice dalla carriera settantennale alle spalle. Di più: in seconde nozze ha sposato il critico italiano Sergio Tosi e da decenni il suo studio ha sede a Roma, dove visse un anno (dal ’56 al ’57) per studiare all’Accademia Americana. E poi lei (che padroneggia parecchie lingue) dice di imprecare in italiano.

In realtà, Chase-Riboud è poco nota come artista visuale anche altrove. Probabilmente per via del successo letterario che ha adombrato la sua non meno importante attività scultorea. In Francia, tuttavia, dove non esponeva dal lontano ’74, si è deciso di porre rimedio alla lacuna. Alla maniera d’oltralpe: in grande stile!

Insignita della Legion d’Onore dal governo francese nel 2022, Chase-Riboud, infatti, da inizio ottobre viene celebrata contemporaneamente da otto musei parigini (tra loro il Louvre, il Centre Pompidou, il Museé d’Orsay e il Palais de Tokyo). E’ il primo artista vivente cui viene tributato quest’onore.

D’altra parte la sua carriera, cominciata con l’acquisto di una xilografia che aveva fatto a soli quindici anni da parte del MoMa di New York e la sua storia personale (basta dire che fu Jacqueline Kennedy Onassis a spronarla a scrivere il suo primo romanzo), sono del tutto fuori dall’ordinario.

Barbara Chase-Riboud and Bathers, La Chenillère, France 1969 © Photograph by Marc Riboud

Barbara Chase-Riboud nasce nel 1939 a Philadelphia in Pennsylvania (lo stato confina con quello di New York anche se Philadelphia è piuttosto vicina a Washington) da una famiglia afroamericana della classe media. Fin da bambina manifesta uno spiccato talento per le arti, tanto che a soltanto 8 anni comincia a frequentare la Fleisher Art Memorial School. Si sarebbe poi diplomata con il massimo dei voti alla Philadelphia High School for Girls (avrebbe però anche seguito dei corsi alla scuola d’arte del museo di Philadelphia) per poi laurearsi in Belle Arti alla Tyler School della Temple University. Dopo questo periodo crea le sue prime sculture in bronzo, comincia a esporre i suoi lavori e studia un anno all’Accademia Americana di Roma (aveva vinto una borsa di studio, però, per guadagnare qualche soldo in più, ha partecipato come comparsa in costume al film Ben-Hur e Cinecittà la ha selezionata per prendere parte ad altre produzioni) ma soprattutto consegue un master in belle arti alla Yale University (ai tempi le afroamericane ad averla frequentata si contavano sulle dita delle mani).

In seguito di Yale avrebbe detto: “C'erano tre donne nere alla scuola di specializzazione a Yale nel '57. Una in filosofia, una in legge e poi c'ero io. Ma l'ho semplicemente ignorato", ha poi aggiunto: “E naturalmente, ero già stata all'accademia di Roma, che era la stessa situazione: era tutto maschile”.

Chase-Riboud in quegli anni sognava l’Europa. L’idea era quella di trasferirsi a Londra (i mitici Swinging Sxties si stavano avvicinando, e chi non avrebbe voluto essere nella capitale inglese in quel periodo?!) ma durante un soggiorno in Francia conosce il fotografo dell’agenzia Magnum, Marc Riboud (è talentuoso e viene anche da una ricca famiglia): si fidanzano, si sposano, fanno due figli e rimangono a Parigi. Barbara, che ai tempi aveva già viaggiato parecchio (sia in Occidente che in Africa), vive con la valigia sempre pronta. In merito dirà: “Sono andata ovunque perché all'epoca ero sposata con Marc Riboud, un fotografo e membro della Magnum Photos, che ha coperto il mondo. In molti di questi viaggi, ero solo lì per il viaggio. Ma che viaggio è stato! Ho scoperto tutti i tipi di nuove civiltà e nuovi modi di guardare il mondo che non avevo idea avrei mai conosciuto”. E commentando quei viaggi che l’avrebbero portata tra gli altri luoghi in Cina, Nord Africa, Europa orientale e Mongolia, ha aggiunto: “Sono stata la prima donna americana a essere invitata in Cina dopo la rivoluzione. Ho partecipato a una cena con il presidente Mao Zedong. Io e 5.000 cittadini cinesi. È stata un'avventura straordinaria”.

Non a caso, anche dopo il divorzio (nell’81) e il secondo matrimonio con Tosi lei continuerà a mantenere accanto al suo il cognome del primo coniuge, sposato il giorno di Natale di vent’anni prima.

Barbara Chase-Riboud. Portrait © Virginia Harold. Courtesy Pulitzer Arts Foundation-jpg

Nel frattempo Chase-Riboud lavora instancabilmente. Usa vari medium ma quello che la definisce meglio è anche quello per cui è più conosciuta: la scultura. Al principio risente molto l’influsso di Giacometti e modella figure per poi dedicarsi all’astrazione. Il suo materiale prediletto è il bronzo: “Il bronzo è senza tempo. È intriso di storia, è il materiale degli artigiani del Regno del Benin e del Barocco". Usa un metodo a cera persa che affonda le sue origini, appunto, nella storia di antiche civiltà ma che sostanzialmente lei ha creato di testa sua: manipola dei grandi fogli di cera rossa, poi fonde i prototipi in bronzo e li drappeggia con matasse di seta o lana intrecciati. Le sue opere, il più delle volte dalle dimensioni imponenti, sono un mix di immobile e sacrale monumentalità con tensioni al movimento a volte frementi, altre violentemente legate all’affermazione e alla forza, altre ancora biomorfe, capaci far apparire il metallo in via di liquefarsi. I tessuti fanno da contrappunto morbido e tattile alla solidità del bronzo. E poi c’è la grazia di pieghe e intrecci, lo sfarzo dell’oro, l’irrompere inaspettato del rosso.

Sul perché, Chase-Riboud non ha dubbi: “Si crea arte per creare bellezza; non c'è nessun altro motivo. Qualsiasi altro motivo è davvero autoindulgente, per quanto mi riguarda".

Barbara Chase-Riboud. Zanzibar (Brown Element)1974-75_Expo 2024 Palais Porte dorée © Anne Volery Palais de la Porte Dorée

Molte sue sculture, tuttavia, fanno riferimento a personaggi della storia recente. Ad esempio, una delle sue prime serie distintive (siamo nel ’69 quando l’ha cominciata) è dedicata al leader afroamericano assassinato nel ’65, Malcom X. Queste opere (una delle quali è attualmente esposta al Centre Pompidou) hanno dimensioni imponenti e sono, tra l’altro, ispirate alle antiche pratiche funerarie egizie. Mentre recentemente ha presentato quella che rende omaggio a Josephine Baker (non molto tempo prima, infatti, il nome di Baker era entrato nel Panthéon, quinta donna nella storia a meritare tale onore e prima nera in assoluto). Ma i suoi memoriali hanno commemorato anche a Lady Mcbeth o Cleopatra. In generale queste opere spingono a chiedersi secondo quale principio si decida a chi rendere omaggio e perché.

Alle pareti del Louvre ci sono anche dei versi di Chase-Riboud. Come poetessa lei è conosciuta già dal ’74, quando pubblicò una raccolta curata dalla premio Pulitzer, Toni Morrison. Ma la fama in campo letterario l’ha ottenuta con il romanzo storico "Sally Hemings" (è proprio questo che Jackie Kennedy la esortò a scrivere) e le polemiche che ne seguirono. Il libro parla, infatti, della schiava con cui Thomas Jefferson (terzo presidente degli Stati Uniti dal 1801 al 1809) visse da concubino e da cui ebbe sei figli (siamo nel ’79, qualche storico mette in dubbio la relazione di Jefferson, la CBS viene spinta a non mandare in onda una serie Tv sull’argomento; anni dopo il dna accerterà che i figli erano effettivamente di Jefferson). Comunque per Chase-Riboud fu tutta pubblicità, dopo questo primo successo avrebbe scritto molti altri romanzi storici e sarebbe arrivata a superare le 3milioni di copie vendute in tutto il mondo.

Le mostra parigina di Barbara Chase-Riboud in più musei, si concluderà a gennaio 2025. La data precisa dipende dall’istituzione culturale: si va dal 5 del Palais de Tokyo o dal 6 di Louvre e Centre Pompidue al 13 del Musée du quai Branly - Jacques Chirac. Mentre il Musée d’Orsay (che aveva installato le sue opere prima degli altri) terminerà il suo tributo all’artista franco-statunitense già il 15 dicembre 2024.

Barbara Chase-Riboud. Mao's Organ, 2007. Private collection_Expo 2024 Musée Guimet © Barbara Chase-Riboud

Barbara Chase-Riboud. Cleopatra s Cape_Expo 2024 Musée du Louvre © Collection of the Studio Museum in Harlem, New York

Barbara Chase-Riboud. Cleopatra s Cape_Expo 2024 Musée du Louvre ©Musée du Louvre_AViger

Barbara Chase-Riboud. Time Womb Jacqueline, 1970_Private collection USA_Expo musée d’Orsay 2024 © Barbara Chase-Riboud_Cnap

Barbara Chase-Riboud. Les baigneurs. FNAC 9805. Centre national des arts plastiques_Expo musée d’Orsay 2024 © Barbara Chase-Riboud_Cnap

Barbara Chase-Riboud. Cleopatra s bed_Expo 2024 Musée du Louvre © Musée du Louvre_AViger

Barbara Chase-Riboud. Zanzibar (Brown Element), 1974-75. Private collection_ Expo 2024 Palais Porte Dorée © Jo Underhil

Barbara Chase-Riboud avec La Musica Josephine RedBlack 2021. Private collection_Expo 2024 Cité de la musique © Grace Roselli

Biennale di Venezia| Il coloratissimo Padiglione Stati Uniti, americano e indigeno, di Jeffrey Gibson

Exterior view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Forecourt sculpture: the space in which to place me (2024). Photograph by Timothy Schenck.

Il Padiglione Stati Uniti “The Space in Which to Place me”di Jeffrey Gibson è sicuramente uno dei migliori della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia 2024. E basta passarci davanti casualmente per accorgersene: l’edificio palladiano è stato ridipinto con una vernice lucida in un tono di rosso scintillante, ai lati del piazzale (anche lui tinteggiato di rosso) otto bandiere (un simbolo su cui Gibson si è soffermato spesso perché ha a che fare con l’identità e l’appartenenza), multicolori, come i murali su cui si stagliano. In cima alle facciate, due frasi realizzate con i caratteri inventanti dall’artista, che si guardano e completano vicendevolmente (sulla sinistra il titolo della mostra, mentre sulla destra l’esordio della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, "Riteniamo che queste verità siano evidenti”).

C’è anche una scultura fatta di piedistalli di varie altezze e dimensioni accostati tra loro, su cui il pubblico può arrampicarsi per farsi fotografare o riposare un momento. L’opera è rossa a propria volta e ha lo stesso titolo della mostra. "Ho iniziato a pensare al padiglione come a una macchina in cui le persone entrano ed escono cambiate" ha detto, Abigail Winograd, la curatrice indipendente che insieme a Kathleen Ash-Milby (curatrice per l'arte dei nativi americani presso il Portland Art Museum) ha presieduto al progetto.

Ash-Milby, di origine Navajo, è la prima curatrice nativo americana del Padiglione Stati Uniti. Il titolo inoltre fa riferimento a una poesia di Layli Long Soldier, poetessa Oglala Lakota. Ma soprattutto il protagonista, Jeffrey Gibson, con sangue Choctaw e Cherokee, è il primo artista indigeno a rappresentare gli USA da solista in oltre novant’anni di storia del palazzo creato agli inizi del secolo scorso dagli architetti William Adams Delano e Chester Holmes Aldrich. Negli anni ci sono state mostre collaterali certo, e nel 1932, nell'ambito di una collettiva dedicata ai pittori dell'ovest americano, vennero presentati diversi artisti nativi (per lo più rimasti senza nome, insieme a dipinti di: i Ma Pe Wi, Oqwa Pi, Tonita Peña, Awa Tsireh, Julian Martinez, Tse Ye Mu, Otis Polelonema e Fred Kabotie). Anche se il riconoscimento più importante ad un’artista nativo, fino a quest’anno, era venuto dalla Biennale stessa, che nel 2019 aveva assegnato il Leone d’oro alla Carriera a Jimmie Durham (nato Cherokee ha vissuto parecchi anni a Napoli).

Il lavoro di Jeffrey Gibson, del resto, insieme ad assonanze chiare all’opera di Suor Corita Kent (artista pop statunitense, attiva nel movimento per i diritti civili, scomparsa nell’86, che quest’anno torna in Biennale nel Padiglione Santa Sede), risuona della ricerca visionaria e costante di Durham (quest’ultimo, da parte sua, gli aveva riservato parole di stima). Nell’alfabeto difficilmente leggibile di Gibson, fatto di rette ma soprattutto figure geometriche coloratissime, poi, si potrebbero anche rivedere gli arazzi di Alighiero Boetti. Del resto la sua opera cerca proprio di trovare un punto di convergenza tra l’arte tradizionale del suo popolo e quella della contemporaneità. Come se la prima si fosse sviluppata parallelamente alla seconda. In un’intervista rilasciata qualche anno fa ha spiegato: “Colleziono oggetti (indigeni ndr) della prima metà del XX secolo (…). Questo è il momento in cui modelli, colori e influenze globali iniziano a manifestarsi, e questo mi aiuta a costruire un ponte tra l'immagine storicizzata dei nativi e chi so che siamo oggi”.

Ne viene fuori una festa di colori: vivaci, gioiosi, intensi, a tratti psichedelici. Ci sono i toni cangianti degli intricati e stratificati ricami di perline che vibrano ricoprendo sculture e abiti, i coni argentei delle danze powwow, poi, fibbie, borse e altri oggetti indigeni d’epoca che l’artista ha scovato nei mercatini (una curiosità: li ha acquistati come oggetti fatti da autori ignoti ma li ha inseriti nei lavori in modo da poterli estrarre e replicare se qualcuno ne rivendicasse la paternità). E la pittura naturalmente (lui ha sempre dichiarato di considerarsi prima di tutto un pittore), che in alcune opere raggiunge picchi da oltre 150 diverse sfumature di colore, per di più spesso affidati a laboriose composizioni di fettucce intrecciate.

Ma Gibson dissemina anche di citazioni praticamente ogni sua opera, le fonti vanno dai proverbi Dakota alle canzoni di Nina Simone, fino brani di documenti legislativi e discorsi di leader carismatici.

La musica e la moda, infatti, sono due punti di riferimento importanti per Gibson, anche se a Venezia ha privilegiato brani di vari documenti fondanti della più importante democrazia del pianeta. C’è, per esempio, l’Indian Citizenship Act del 1924 (una legge che concede i diritti fondamentali alle popolazioni indigene), e il Civil Rights Act del 1866 (la prima legge federale che definisce la cittadinanza e rivendica l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge). Ed è proprio per un brano di una lettera d’epoca, in cui un Commissario per gli affari indiani metteva in guardia un sovrintendente californiano sull’importanza di far tagliare i capelli ai maschi nativi, che tutte le sculture in mostra hanno fluenti e lunghe chiome.

Non si può quindi negare che l’opera di Gibson abbia una chiave di lettura politica (risolta tuttavia con grazia ed equilibrio) ma ce ne sono anche altre. I sacchi da box ricamati, per esempio, sono frutto degli allenamenti a cui si era sottoposto su consiglio del suo terapista per elaborare la rabbia (in laguna ce n’è esposto uno stupendo, con fitte frange multicolore che arrivano fino a terra e gli conferiscono un’aria regale).

D’altra parte, figlio di un ingegnere civile che lavorava per il Dipartimento della Difesa, Jeffrey Gibson, è un nativo fuori dagli stereotipi. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza viaggiando per gli Stati Uniti ma anche in Germania e Corea, dopo si è laureato alla School of the Art Institute of Chicago per poi ripartire verso il Royal College of Art di Londra (dove ha conseguito un master sponsorizzato dalla sua comunità, la Mississippi Band of Choctaw Indians). Gay, Gibson, incontrò proprio lì quello che sarebbe diventato suo marito (l’artista norvegese Rune Olsen, con cui ha due figli).

La sua carriera non è sempre stata in salita (ha raccontato che, una volta, per lo scoramento, gli è capitato di buttare tutte le sue opere in lavatrice e avviare la macchina). Adesso però ha un gande studio a Georgetown (NY) in una ex-scuola ristrutturata, con un team composto da 15 assistenti (per preparare l’appuntamento in laguna sono saliti a 20). Ha fatto mostre importanti e il suo stesso Padiglione Stati Uniti è presentato dal Portland Art Museum (Oregon) e dal SITE Santa Fe (New Mexico).

Riguardo la propria appartenenza ha detto: “Beh, sono americano. Ho vissuto in molti altri paesi dove quell'identità sostituisce la mia identità di nativo americano nella percezione locale. (...) So cosa vuol dire essere un indigeno negli Stati Uniti, ma come americano, so anche cosa vuol dire essere uno straniero in altri paesi. (…) L’esperienza di essere straniero è stata positiva per me. C'è un'umiltà che deriva dall'essere in un ambiente in cui non posso andare avanti con assoluta fiducia, dove devo ascoltare e prestare molta attenzione, dove non ho il comando e non posso condurre le conversazioni. È il momento di fare un passo indietro, il che è salutare per me, e direi anche che è salutare per la maggior parte delle persone”.

In mostrs ci sono sculture, dipinti e murali. In conclusione anche un video che omaggia il matriarcato indigeno e il potere curativo dell’arte attraverso una irrefrenabile Jingle Dance (un ballo eseguito dalle donne durante i powwow per invocare gli antenati) il ritmo martellante su cui si muovono le ballerine è quello di The Halluci Nation (un gruppo musicale delle Prime Nazioni).

 “The Space in Which to Place me”, il Padiglione Stati Uniti di Jeffrey Gibson è ai Giardini e si potrà visitare per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024Stranieri Ovunque- Foreigners Everywhere” (fino al 24 novembre).

Exterior view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Forecourt sculpture: the space in which to place me (2024).Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. From left to right: IF NOT NOW THEN WHEN (2024); The Enforcer (2024); WE WANT TO BE FREE (2024) Mural: WE ARE MADE BY HISTORY (2024) Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. From left to right: The Enforcer (2024); WE WANT TO BE FREE (2024); Mural: WE ARE MADE BY HISTORY (2024) Photograph by Timothy Schenck.

The Space in Which to Place me, Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, Installation view. Photo: © artbooms.com

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Birds from left to right: we are the witnesses (2024); if there is no struggle there is no progress (2024). Wall works from left to right: BIRDS FLYING HIGH YOU KNOW HOW I FEEL (2024); IF YOU WANT TO LIFT YOURSELF UP LIFT UP SOMEONE ELSE (2024). Photograph by Timothy Schenck

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Wall works from left to right: GIVE MY LIFE SOMETHING EXTRA (2024); THE RIGHT OF THE PEOPLE PEACEABLY TO ASSEMBLE, 2024. Birds from left to right: if there is no struggle there is no progress (2024); we are the witnesses (2024). Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024.  Center: WE HOLD THESE TRUTHS TO BE SELF-EVIDENT (2024) Photograph by Timothy Schenck.

The Space in Which to Place me, Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, Installation view. Photo: © artbooms.com

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Wall works from left to right: WE WILL BE KNOWN FOREVER BY THE TRACKS WE LEAVE (2024); THE RETURNED MALE STUDENT FAR TOO FREQUENTLY GOES BACK TO THE RESERVATION AND FALLS INTO THE OLD CUSTOM OF LETTING HIS HAIR GROW LONG (2024); LIBERTY WHEN IT BEGINS TO TAKE ROOT IS A PLANT OF RAPID GROWTH (2024); THE GREAT SPIRIT IS IN ALL THINGS (2024). Bust: I’M A NATURAL MAN (2024). Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. From left to right: She Never Dances Alone (2020); WHEREAS IT IS ESSENTIAL TO JUST GOVERNMENT WE RECOGNIZE THE EQUALITY OF ALL PEOPLE BEFORE THE LAW (2024). Photograph by Timothy Schenck

Exterior view of gallery one of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Photograph by Timothy Schenck.

(L-R) Louis Grachos, Jeffrey Gibson, Kathleen Ash-Milby, and Abigail Winograd. Photo by Cara Romero.

I variopinti dipinti di Pacita Abad che mixavano pittura, quilting, lustrini e arte globale

Pacita Abad. You Have to Blend In, before You Stand Out . 1995. Olio, tela dipinta, paillettes, bottoni su tela cucita e imbottita. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate

Conosciuta per i suoi “trapuntos”, opere d’arte concepite per essere trasportate in cui i confini tra pittura e quilting si fondono, l’artista filippino-americana, Pacita Abad, dopo essere stata a lungo dimenticata, sta conoscendo una crescente fama postuma. Non solo le sue quotazioni nelle aste di Sotherby’s e Christi’s in Asia, da qualche anno a questa parte, superano le attese, ma Abad, dopo essere stata protagonista lo scorso anno di un’importante retrospettiva al Walker Art Center di Minneapolis (in Minnesota), verrà celebrata dal MoMA PS1 di New York, mentre Adriano Pedrosa ha incluso il suo lavoro in “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere” la 60esima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Del resto già nel 2020 Google l’aveva commemorata con uno dei suoi Doodles.

Non che, Pacita Abad, nata nel ’46 nelle isole Batanes al nord delle Filippine da una famiglia di politici Ivatan (un gruppo etno-linguistico specifico della zona e diverso rispetto al resto del Paese) e in seguito diventata cittadina degli Stati Uniti, in vita sia stata completamente ignorata. Ha fatto anzi mostre in tutto il mondo ed è stata la prima donna ad aggiudicarsi un importante premio assegnato agli artisti nelle Filippine (il TOYM Award), Tuttavia la fama vera non è mai arrivata e dopo la prematura morte (è mancata nel 2004, a soli 58 anni, per un tumore ai polmoni) l’artista fu dimenticata. Eppure Abad, che ha lasciato ben 4mila e 500 opere, per lo più di grandi dimensioni, non ha mai smesso di sperimentare. I “trapuntos”, che lei creava imbottendo e trapuntando la tela (anziché fissarla ad un telaio) per poi dipingerla con colori vivaci e accostamenti cromatici allegri, oltre a inserire perline, paillettes, conchiglie, elementi di bigiotteria e sovrapporre tessuti, sono le sue opere più note, ma l’artista ha spaziato dall’uso della carta alla lavorazione della ceramica e del vetro, fino ai costumi. A Singapore c’è persino un ponte da lei dipinto.

Abad, che immediatamente dopo il suo arrivo negli Stati Uniti (nel ’71) è stata sposata per un breve periodo con il pittore George Kleinmen (il suo lavoro in qualche modo risentirà anche di questo rapporto) si sarebbe presto legata all’economista dello sviluppo, Jack Garrity, e, insieme a lui, avrebbe viaggiato e vissuto in 60 Paesi nel mondo, incorporando nella sua pratica artistica quello che, di volta in volta, imparava dalle popolazioni locali. Tra le altre cose: ricami a specchio del Rajasthan, ornamenti di conchiglie di ciprea papuasi, pittura coreana con pennello a inchiostro e batik indonesiano.

Uno sforzo che non poteva portarle, però, il riconoscimento del mondo dell’arte: "In un certo senso- ha detto Garrity a New York Times lo scorso anno- era come una corrispondente estera, che diceva alla gente, questo è quello che sta succedendo in questi posti". Lei la chiamava “vita ai margini”. Niente di più distante dal gusto dell’epoca in occidente che tra gli anni ’80 e ’90 disdegnava il ricamo ed era dominato da un’estetica minimale.

Quando le chiesero cosa il suo lavoro avesse portato agli Stati Uniti, rispose: “Il colore”. E sono proprio i colori (tanti, pulsanti e tropicali), concentrati nelle grandi composizioni insieme a una moltitudine di segni diversi, il filo conduttore della sua produzione, che altrimenti spazia senza scomporsi dalla figurazione all’astrattismo, dalle profondità sottomarine animati da pesci e coralli ai volti dei migranti, da ammassi di frutti variopinti alle maschere rituali, da composizioni fatte da migliaia di punti, o pennellate similia a liane, a divinità dall’incerta origine.

La sua pratica artistica onnivora e innovativa ha fatto nascere la leggenda che Abad fosse una professionista ingenua, quasi un’autodidatta sotto acculturata. In realtà, si era laureata in scienze politiche nelle Filippine dove aveva cominciato anche giurisprudenza, sia suo padre che sua madre avevano ricoperto ruoli politici importanti (la sua famiglia si era presto trasferita a Manila), una volta negli Stati Uniti aveva conseguito un master in storia asiatica e le era anche stata offerta una borsa di studio per il corso di legge a Berkeley. Quando poi aveva deciso di dedicarsi all’arte a tempo pieno aveva preso lezioni di pittura sia alla Corcoran School of Art che alla Art Students League di New York. Ma è vero pure, che Abad, in ogni viaggio che compiva, si faceva insegnare tecniche artistiche ed artigiane tradizionali dalla gente del luogo oltre ad apprendere tratti della cultura locale.

La retrospettiva dedicata a Pacita Abad del MoMa Ps1 di New York ripercorrerà 32 anni di carriera dell’artista attraverso oltre 50 opere (la maggior parte delle quali mai esposte al pubblico), provenienti da collezioni private e pubbliche d’Asia, Europa e Stati Uniti. Si inaugurerà il prossimo 4 aprile (fino al 2 settembre 2024). “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere” la Biennale d’Arte di Adriano Pedrosa, in cui si potranno ammirare le creazioni di Abad (all’Arsenale) insieme a quelle di molti altri artisti indigeni ed, in generale, originari del sud del mondo, si terrà invece a Venezia tra il 20 aprile e il 22 novembre 2024.

Pacita Abad. LA Libertà. 1992. Acrilico, filo di cotone, bottoni di plastica, specchi, filo d'oro, tela dipinta su tela cucita e imbottita. Collezione Walker Art Center, Minneapolis; TB Walker Acquisition Fund, 2022. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate e Spike Island, Bristol. foto: Max McClure

Pacita Abad. Spring is Coming . 2001. Olio, tela dipinta su tela cucita. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate

Veduta dell'installazione di Pacita Abad: A Million Things to Say al Museum of Contemporary Art and Design, Manila, De La Salle-College of Saint Benilde, 2018. Courtesy Pacita Abad Art Estate e MCAD Manila. Foto: presso Maculangan/PioneerStudio

Pacita Abad. European Mask . 1990. Acrilico, serigrafia, filo su tela. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate e Tate. Foto: A Maculangan/Pioneer Studios

Pacita Abad. Cross-cultural Dressing (Julia, Amina, Maya, and Sammy) . 1993. Olio, stoffa, bottoni in plastica su tela cucita e imbottita. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate e Spike Island, Bristol. Foto: Max McClure

Pacita Abad con Bacongo I (1983) nel suo studio di Washington, DC. 1986. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate