I variopinti dipinti di Pacita Abad che mixavano pittura, quilting, lustrini e arte globale

Pacita Abad. You Have to Blend In, before You Stand Out . 1995. Olio, tela dipinta, paillettes, bottoni su tela cucita e imbottita. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate

Conosciuta per i suoi “trapuntos”, opere d’arte concepite per essere trasportate in cui i confini tra pittura e quilting si fondono, l’artista filippino-americana, Pacita Abad, dopo essere stata a lungo dimenticata, sta conoscendo una crescente fama postuma. Non solo le sue quotazioni nelle aste di Sotherby’s e Christi’s in Asia, da qualche anno a questa parte, superano le attese, ma Abad, dopo essere stata protagonista lo scorso anno di un’importante retrospettiva al Walker Art Center di Minneapolis (in Minnesota), verrà celebrata dal MoMA PS1 di New York, mentre Adriano Pedrosa ha incluso il suo lavoro in “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere” la 60esima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Del resto già nel 2020 Google l’aveva commemorata con uno dei suoi Doodles.

Non che, Pacita Abad, nata nel ’46 nelle isole Batanes al nord delle Filippine da una famiglia di politici Ivatan (un gruppo etno-linguistico specifico della zona e diverso rispetto al resto del Paese) e in seguito diventata cittadina degli Stati Uniti, in vita sia stata completamente ignorata. Ha fatto anzi mostre in tutto il mondo ed è stata la prima donna ad aggiudicarsi un importante premio assegnato agli artisti nelle Filippine (il TOYM Award), Tuttavia la fama vera non è mai arrivata e dopo la prematura morte (è mancata nel 2004, a soli 58 anni, per un tumore ai polmoni) l’artista fu dimenticata. Eppure Abad, che ha lasciato ben 4mila e 500 opere, per lo più di grandi dimensioni, non ha mai smesso di sperimentare. I “trapuntos”, che lei creava imbottendo e trapuntando la tela (anziché fissarla ad un telaio) per poi dipingerla con colori vivaci e accostamenti cromatici allegri, oltre a inserire perline, paillettes, conchiglie, elementi di bigiotteria e sovrapporre tessuti, sono le sue opere più note, ma l’artista ha spaziato dall’uso della carta alla lavorazione della ceramica e del vetro, fino ai costumi. A Singapore c’è persino un ponte da lei dipinto.

Abad, che immediatamente dopo il suo arrivo negli Stati Uniti (nel ’71) è stata sposata per un breve periodo con il pittore George Kleinmen (il suo lavoro in qualche modo risentirà anche di questo rapporto) si sarebbe presto legata all’economista dello sviluppo, Jack Garrity, e, insieme a lui, avrebbe viaggiato e vissuto in 60 Paesi nel mondo, incorporando nella sua pratica artistica quello che, di volta in volta, imparava dalle popolazioni locali. Tra le altre cose: ricami a specchio del Rajasthan, ornamenti di conchiglie di ciprea papuasi, pittura coreana con pennello a inchiostro e batik indonesiano.

Uno sforzo che non poteva portarle, però, il riconoscimento del mondo dell’arte: "In un certo senso- ha detto Garrity a New York Times lo scorso anno- era come una corrispondente estera, che diceva alla gente, questo è quello che sta succedendo in questi posti". Lei la chiamava “vita ai margini”. Niente di più distante dal gusto dell’epoca in occidente che tra gli anni ’80 e ’90 disdegnava il ricamo ed era dominato da un’estetica minimale.

Quando le chiesero cosa il suo lavoro avesse portato agli Stati Uniti, rispose: “Il colore”. E sono proprio i colori (tanti, pulsanti e tropicali), concentrati nelle grandi composizioni insieme a una moltitudine di segni diversi, il filo conduttore della sua produzione, che altrimenti spazia senza scomporsi dalla figurazione all’astrattismo, dalle profondità sottomarine animati da pesci e coralli ai volti dei migranti, da ammassi di frutti variopinti alle maschere rituali, da composizioni fatte da migliaia di punti, o pennellate similia a liane, a divinità dall’incerta origine.

La sua pratica artistica onnivora e innovativa ha fatto nascere la leggenda che Abad fosse una professionista ingenua, quasi un’autodidatta sotto acculturata. In realtà, si era laureata in scienze politiche nelle Filippine dove aveva cominciato anche giurisprudenza, sia suo padre che sua madre avevano ricoperto ruoli politici importanti (la sua famiglia si era presto trasferita a Manila), una volta negli Stati Uniti aveva conseguito un master in storia asiatica e le era anche stata offerta una borsa di studio per il corso di legge a Berkeley. Quando poi aveva deciso di dedicarsi all’arte a tempo pieno aveva preso lezioni di pittura sia alla Corcoran School of Art che alla Art Students League di New York. Ma è vero pure, che Abad, in ogni viaggio che compiva, si faceva insegnare tecniche artistiche ed artigiane tradizionali dalla gente del luogo oltre ad apprendere tratti della cultura locale.

La retrospettiva dedicata a Pacita Abad del MoMa Ps1 di New York ripercorrerà 32 anni di carriera dell’artista attraverso oltre 50 opere (la maggior parte delle quali mai esposte al pubblico), provenienti da collezioni private e pubbliche d’Asia, Europa e Stati Uniti. Si inaugurerà il prossimo 4 aprile (fino al 2 settembre 2024). “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere” la Biennale d’Arte di Adriano Pedrosa, in cui si potranno ammirare le creazioni di Abad (all’Arsenale) insieme a quelle di molti altri artisti indigeni ed, in generale, originari del sud del mondo, si terrà invece a Venezia tra il 20 aprile e il 22 novembre 2024.

Pacita Abad. LA Libertà. 1992. Acrilico, filo di cotone, bottoni di plastica, specchi, filo d'oro, tela dipinta su tela cucita e imbottita. Collezione Walker Art Center, Minneapolis; TB Walker Acquisition Fund, 2022. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate e Spike Island, Bristol. foto: Max McClure

Pacita Abad. Spring is Coming . 2001. Olio, tela dipinta su tela cucita. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate

Veduta dell'installazione di Pacita Abad: A Million Things to Say al Museum of Contemporary Art and Design, Manila, De La Salle-College of Saint Benilde, 2018. Courtesy Pacita Abad Art Estate e MCAD Manila. Foto: presso Maculangan/PioneerStudio

Pacita Abad. European Mask . 1990. Acrilico, serigrafia, filo su tela. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate e Tate. Foto: A Maculangan/Pioneer Studios

Pacita Abad. Cross-cultural Dressing (Julia, Amina, Maya, and Sammy) . 1993. Olio, stoffa, bottoni in plastica su tela cucita e imbottita. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate e Spike Island, Bristol. Foto: Max McClure

Pacita Abad con Bacongo I (1983) nel suo studio di Washington, DC. 1986. Per gentile concessione di Pacita Abad Art Estate

Gli arazzi di Melissa Cody che shakerano simboli navajo, colori psichedelici e glitch, al MoMA Ps1

Melissa Cody. 4th Dimension. 2016. 3-ply aniline dyed wool. 26 × 28″ (66 × 71.1 cm). Courtesy the artist

L’artista nativa americana, Melissa Cody, crea dei complessi arazzi dai colori vivaci che mixano abilmente simboli tradizionali Navajo\ Diné (letteralmente Il Popolo, che è il modo in cui i navajo fanno riferimento a se stessi), elementi di storia personale e di cultura pop.

Cody, che lo scorso anno è stata ospite del Museum of Art of São Paulo Assis Chateaubriand (MASP) diretto da Adriano Pedrosa (curatore della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia, “Stranieri Ovunque- Foreigners Everywhere”), dal 4 aprile sarà al MoMA PS1 di New York con la personale: “Melissa Cody: Webbed Skies

Nata nell’83 a No Water Mesa in Arizona, Cody, è un’artista tessile di quarta generazione e una fuoriclasse della tessitura Germantown Revival (si chiama così, perché a metà ‘800, quando questa tecnica nacque, i nativi americani disfavano, per poi filarle nuovamente, le coperte fornite loro dai mulini di Germantown in Pennsylvania). Non solo utilizza un telaio tradizionale Navajo, di cui lei stessa ha detto: “una volta che un pezzo è completo, non posso tornare indietro e rifarlo”, ma, a volte, lavora in modo intuitivo (cioè decide cosa rappresentare mentre opera), oltre ad usare colori di origine naturale (dalle tonalità accese, quasi psichedeliche), fatti a mano da lei stessa.

Del resto, Cody, ha cominciato a tessere quando aveva appena 5 anni.

Laureata in arte e studi museali all'Institute of American Indian Arts di Santa Fe e poi stagista al Museum of International Folk Art di Santa Fe e al Museo Nazionale degli Indiani d'America di Washington, si è spostata per gli Stati Uniti e adesso vive a Long Beach in California. Cody, insomma, è una nativa americana contemporanea, fortemente legata alla propria cultura d’origine ma anche una statunitense di oggi. Questo elemento della biografia, spesso si riflette sulle sue opere, creando dei vitali cortocircuiti, come quando la nostalgia per i videogiochi vintage si insinua tra i motivi a rombi tradizionali, oppure: la grafica computerizzata, i glitch delle macchine, l’estetica costruttivista e i tratti del paesaggio, guadagnano un posto d’onore nelle sue creazioni.

A volte, invece, la dualità si manifesta in modo sofferto ed intimo come in “Dopamine Regression” (Regressione della dopamina del 2010), creato per il padre affetto dal morbo di Parkinson, in cui le croci nere nella rappresentazione simboleggiano il profondo dolore della figlia, mentre quelle rosse fanno riferimento sia all’ambito medico che alla dea Navajo, Spider Woman (divinità benevola e forte che insegna l’arte della tessitura). O come in “Deep Brain Stimulation” (Stimolazione cerebrale profonda del 2011) di nuovo dedicato al padre, in cui l’artista trasforma il trattamento neurale per la malattia del genitore in un arcobaleno di colori.

Lei della sua pratica ha detto: “La mia generazione sta portando la tessitura verso un percorso successivo: inserendola in un contesto artistico e utilizzandola anche come strumento per insegnare la storia del nostro popolo

Melissa Cody: Webbed Skies” (dove i cieli del titolo voglio essere elemento unificante delle differenze culturali) al MoMA PS1 di New York, abbraccia l’ultimo decennio di’attività dell’artista nativa americana, con oltre 30 arazzi e presenta tre nuove importanti commissioni. “La mostra- ha scritto il museo statunitense- promuove il dibattito sul futuro indigeno e fornisce un contesto per esplorare la complessità dei materiali, delle tecniche e delle cosmologie indigene”. Organizzata in collaborazione al MASP, è curata da Isabella Rjeille (curatrice MASP) e Ruba Katrib (curatrice e direttrice degli affari curatoriali al MoMA PS1) e si potrà visitare fino al 2 settembre 2024.

Melissa Cody non ha un sito internet ma, a volte, condivide tappe e particolari del suo lavoro su Instagram.

Melissa Cody. World Traveler. 2014. Wool warp, weft, selvedge cords, and aniline dyes. 90 x 48 7/8 in. (228.6 x 124.1 cm). Courtesy the artist

Melissa Cody. Woven in the Stones. 2018. Wool warp, weft, selvedge cords, and aniline dyes. 39 1/4 x 23 5/8 in. (99.7 x 60 cm). Courtesy the artist 

Melissa Cody. Deep Brain Stimulation. 2011. Wool warp, weft, selvedge cords, and aniline dyes. 40 x 30 3/4 in. (101.6 x 78.1 cm). Courtesy the artist 

Melissa Cody. Path of the Snake. 2013. 3-ply aniline dyed wool. 36 × 24″ (91.4 × 61 cm). Courtesy the artist

Melissa Cody. White Out. 2012. 3-ply aniline dyed wool. 17 × 24″ (43.2 × 61 cm). Courtesy the artist


Il Moma realizza un libro da colorare per adulti e bambini con l'artista Louise Lawler. Da scaricare gratis!

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L’iconico Moma, chiuso come gran parte dei musei del mondo per l’emergenza coronavirus, ha realizzato insieme alla fotografa statunitense Louise Lawler un libro da colorare che ritrae opere d’arte contemporanea. Adatto ad adulti e bambini, ça va sans dire. E’ già sul sito del museo e si può scaricare gratuitamente.

Louise Lawler, che nel 2017 proprio al Moma ha presentato la mostra “Why Pictures Now” (curata da Roxana Marcoci e Kelly Sidley) usa prevalentemente la fotografia per indagare lo spazio in cui arte e mercato si intersecano. Le sue immagini ritraggono opere d’arte contemporanea esposte nei musei e nelle gallerie o collocate nelle case dei collezionisti.

Il libro da colorare 'Louise Lawler's Tracings for You' si basa su disegni in bianco e nero che l’artista ha fatto rivisitando proprio quelle fotografie. In totale sono 12 tavole in cui compaiono un dipinto della magnifica serie Today di On Kawara, uno dei primi Rabbit di Jeff Koons oltre a lavori di Lucio Fontana, John Baldessari e Takashi Murakami.

A regalare libri da colorare qualche mese fa era stata The New York Accademy of Medicine Library che con l’iniziativa “Color our Collections” ne aveva raccolti di provenienti da oltre 100 musei del mondo. Ma il libro del Moma e Louise Lawler è l’unico che ha come soggetto l’arte contemporanea.

Il sito del Moma mette, inoltre a disposizione una gran quantità di risorse interessanti e per niente criptiche. Ci sono video, articoli, un glossario, podcast e lezioni. Tutto gratuito e in alcuni casi persino sottotitolato in italiano. Sono da spulciare assoltamente la sezione "Audio” e i corsi online.

Moma, infine, non solo permette di scaricare il libro da colorare di Louise Lawler ma incoraggia tutti a condividere i risultati dei propri sforzi su Instagram senza dimenticarsi di taggare le immagini #drawingwithmoma. (via Tatler)

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楓 posted on Instagram: "MoMA の塗り絵 フリーで誰でも使える塗り絵素材。MoMA ホームページよりPDF形式でダウンロードできる。 お子様に。ストレスフルな大人に。 #drawingwithmoma #moma..." * See 417 photos and videos on their profile.

Aitche Keton posted on Instagram: "My 12 year old daughter's take on #LouiseLawler #drawingwithmoma #quarantineart" * See 369 photos and videos on their profile.