L'enorme eco-graffito di Saype nel parco fotovoltaico del deserto dell'Oman

All images © Saype

L’artista franco-svizzero Saype ha realizzato una nuova monumentale opera di street art nel cuore di uno dei più grandi parco fotovoltaici del mondo. Siamo nel deserto dell’Oman e il graffito, del tutto ecocompatibile, si estende su 11mila e 250 metri quadri di suolo.

Conosciuto per gli enormi dipinti che si possono vedere dal cielo, Guillaume Legros in arte Saype (dalla contrazione delle parole say e peace), utilizza vernici destinate a sciogliersi nel terreno nel giro di un breve lasso di tempo. Queste ultime, composte di acqua, gesso, carbone e caseina, sono loro stesse opera dell’ingegno dello street artist (anche se lui anzichè i muri usa i prati o la terra come supporto), che le ha inventate dopo varie prove ed errori.

A Legros, infatti, sta a cuore l’ambiente e lo mette sempre al centro del suo lavoro, quando non cerca di veicolare un messaggio di amicizia tra i popoli. E’ così anche nel caso del suo ultimo graffito, realizzato nel Sultanato dell’Oman (penisola arabica), su commissione dell’Ambasciata svizzera, per celbrare la cinquantennale partnership tra i due Paesi.

L’opera, occupa una porzione di suolo desertico non ingombrata dai pannelli solari, in uno dei più grandi parco fotovoltaici del pianeta (130mila metri quadri, pari a 18 campi da calcio), e rappresenta un bambino che accende una lampadina con l’energia prodotta dall’impianto.

L’immagine in bianco e nero, con tanto di ombre, in prospettiva appare tridimensionale. Così il bimbo dipinto a spruzzo da Saype sembra guardare l’orizzonte, che si scorge lontano, in fondo a un mare di pannelli solari.

" È pensando - ha spiegato Saype- alle grandi questioni ecologiche del nostro tempo che ho scelto di dipingere in uno dei più grandi parchi solari del Medio Oriente (11,3 km²). Consapevole che la soluzione è incentrata su un mix energetico complesso, ho scelto di dipingere questo bambino che gioca con la magia dell'energia solare. Guardando verso l'orizzonte, simboleggia il rinnovamento di una civiltà che ora deve reinventarsi senza distruggere il pianeta".

Le monumentali opere outdoor di Saype sono effimere, ma lui realizza anche lavori su supporti trandizionali (come tela o plexiglas) destinati alla vendita (che, ad esempio, a fine mese saranno esposti alla fiera Art Paris). Gli altri graffiti fuoriscala dell’artista si possono vedere sul suo sito internet.

Veduta aerea di un particolare dell’opera, con l’artista sdraiato accanto

Saype decide in pianta dove mettere i picchetti che delimetanno l’area da dipingere

Nella foto: pannelli solari, l’artista, l’opera e di nuovo i pannelli solari

L'iperrealismo in bianco e nero profumato di salsedine dei disegni di Serse

Serse: A fior d'Acqua, 2014, grafite su carta su alluminio, 100x142 cm Courtesy: l'artista e Galleria Continua

Nato nel ‘52 a San Polo del Piave, Fabrizio Roma in arte Serse, fa dei disegni che sembrano fotografie. Lavora con grafite nera su carta bianca che poi appiccica ad un supporto in alluminio. Gli piace rappresentare la superficie del mare in movimento. Il suo iperrealismo è silenzioso, atemporale e spesso talmente minuzioso da rasentare l’astrazione.

Richiede una pazienza tale da far pensare alla mistica orientale (spesso cercata, infatti, all’interno della pratica pittorica da artisti asiatici). Ma Serse, che adesso vive a Trieste, ha una formazione scientifica e vede la questione da un punto di vista diverso. Per lui si tratta di una lotta con se stesso, una continua affermazione della propria capacità espressiva attraverso il disegno.

In ogni caso, non rappresenta mai figure, solo paesaggi. Una serie l’ha pure dedicata ai diamanti (perchè sia loro che la grafite, usata dall’artista per disegnare, sono a base di carbonio). Ma, in genere, si focalizza su particolari del paesaggio, a volte rubati alla fotografia o alle riprese video, che per qualche istante fanno perdere l’orientamento all’osservatore, lascindolo in bilico tra iperrealismo ed astrazione. Tra materia, così pervicacemente, minuziosamente riprodotta, e sensazione, moto dell’animo.

Quest’ultimo aspetto dell’opera dell’artista veneto, si sovrappone al suo interesse per la pittura romantica. Che nella serie “Cartoline di Mare” diventa esplicito, mettendo in scena scorci di costa resi maestosi dalla luce del sole che si fa strada tra le nuvole. In questo gruppo di opere, Serse, unisce l’interesse per il tema del paesaggio, a una nota più pop e, volendo, nostalgica: le piccole carte, infatti, sono tutte delle dimensioni di una cartolina postale (tredici per diciotto centimetri).

L’artista affronta piccoli formati anche nella serie “Fogli d’acqua” ma, in genere, predilige grandi superfici, che fissa su sottili lastre di alluminio. Poi riempie completamente questi ampi rettangoli bianchi, con le infinite sfumature comprese tra il nero più profondo e il colore della carta.

Uno dei suoi soggetti più conosciuti e riusciti, è la superficie del mare appena increspato dalle onde e animato da infiniti giochi di luce.

Nella sua produzione ci sono decine di opere così. Tutte diverse, indistinguibili da fotografie in bianco e nero, che generalmente vengono esposte in gruppi, l’una di fianco all’altra. Curiosamente però, prima che questi disegni vengano completati, in una non precisata fase intermedia del lavoro, le immagini ricordano delle mappe o le intricate trame di fili dei ricami. Quasi nascondessero un racconto segreto che si conclude con la vista degli oceani.

Serse, il cui lavoro è seguito da Galleria Continua, ha appena terminato una personale nella sede parigina dalla galleria nata a San Gimignano. Attualmente qualche sua opera è stata inserita anche nella collettiva “Giotto a il Novecento”, al Mart di Rovereto (fino al 19 marzo). Mentre il 22 aprile inaugurerà una nuova personale: “Serse. Bianchi e Neri”.

Curata da Didi Bozzini, “Serse. Bianchi e Neri”, si terrà nella splendida cornice della Reggia di Colorno (Parma) e si potrà ammirare fino all’11 giugno 2023.

Serse: A fior d'Acqua, 2014, grafite su carta su alluminio, 100x142 cm Courtesy: l'artista e Galleria Continua

Serse: Paesaggio Romantico, 1996-2015, grafite su carta su alluminio, 92x142 cm Courtesy: l'artista e Galleria Continua

Serse: Canneti, 2016, grafite su carta su alluminio, 90x134 cm Courtesy: l'artista e Galleria Continua

Serse: Canneti, 2016, grafite su carta su alluminio, 90x134 cm Courtesy: l'artista e Galleria Continua

L'essenza inafferrabile degli autoritratti di Vivian Maier a Palazzo Sarcinelli di Conegliano

Self portrait Estate of Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY

La scomparsa fotografa statunitense, Vivian Maier, conosciuta per aver lavorato come babysitter per mantenersi (nonostante oggi sia considerata una figura cardine della street-photography del ‘900), nella sua vita scattò un gran numero di autoritratti. Si tratta di immagini particolari, veloci eppure strutturate, molto enigmatiche, in cui lei appare e scompare, svelando poco di se (come, del resto, pare fosse solita fare anche di persona). Queste fotografie di Maier, saranno al centro della mostra “Vivian Maier. Shadows and Mirrors”, che si inaugurerà il prossimo 23 marzo, al Palazzo Sarcinelli di Conegliano (in provincia di Treviso).

Scoperta solo dopo la sua morte e presentata al grande pubblico come la tata-fotografa americana, Vivian Maier, di origini austro-francesi ma nata negli Stati Uniti dove trascorse tutta la sua vita adulta, morì in miseria pur non avendo mai smesso di fotografare. Chi l’ha conosciuta l’ha descritta così: eccentrica, forte, supponente, intellettuale e molto riservata. Pare indossasse sempre un cappello floscio, un abito lungo, un cappotto di lana e scarpe da uomo. Aveva anche un passo deciso con cui percorreva le strade di Chicago e New York raccontando le città attaverso i suoi scatti e contemporaneamente un’epoca.

Aveva perso i genitori da giovane e dopo essersi sopostata tra Europa e Stati Uniti mise radici nel Nuovo Continente. Lì si manteneva facendo la babysitter e la badante. Non si sarebbe mai sposata ne avrebbe mai stretto relazioni intime con nessuno. Viaggiò, diventò un’accumulatrice di oggetti di poco conto ed ebbe sempre problemi con i soldi. Problemi seri con i soldi. Tanto che da anziana a salvarla dal finire senza un tetto furono alcuni dei bambini che aveva cresciuto. Eppure nel 2007, solo due anni prima della morte, il contenuto del magazzino dove conservava le sue fotografie venne venduto: c’era un debito da saldare.

Gli scatoloni di rullini della Maier finirono all’asta, dove fruttarono subito 20mila dollari. Da quel momento in avanti il loro valore si sarebbe alzato e il lavoro della fotografa statunitense sarebbe diventato famoso in tutto il mondo. La vendita fu una circostanza fortunata, perchè il materiale avrebbe potuto finire nell’immmondizia. Peccato che l’autrice non ne trasse alcun beneficio

La scoperta tardiva del lavoro di Vivian Maier- ha scritto la curatrice della mostra di Cornegliano, Anne Morin- che avrebbe potuto facilmente scomparire o addirittura essere distrutto, è stata quasi una contraddizione. Ha comportato un completo capovolgimento del suo destino, perché grazie a quel ritrovamento, una semplice Vivian Maier, la tata, è riuscita a diventare, postuma, Vivian Maier la fotografa

Vivian Maier avrebbe lasciato oltre 120mila negativi, filmati super 8mm, tantissimi rullini mai sviluppati, foto e registrazioni audio. Scattò sia in bianco e nero che a colori. In una carriera ultra quarantennale.

Nel vasto archivio fotografico della Maier sono molti anche gli autoritratti. Questi ultimi tradiscono inquietudine e hanno un essenza ineffabile. Maier infatti scattava in esterni e aveva l’abitudine di fotografare la propria ombra o se stessa riflessa in specchi e superfici varie. Nonostante sia il soggetto delle immagini, Maier appare condizionata dall’ambiente che la circonda, a volte fusa ad esso. Come se diventasse invisibile.

L’abilità con cui coglie i giochi di luce e i piani che si formano nella bidimensonalità della fotografia, rendono le immagini incredibilmente sfaccettate. Ma non ci dicono assolutamente nulla su Maier come soggetto di se stessa, anzi, a volte, quest’ultima scompare quasi del tutto.

"Vivian Maier -scrive di nuovo Anne Morin-si destreggiava con una versione di sé sul confine tra la sparizione e l'apparizione del suo doppio, riconoscendo forse che un autoritratto è "una presenza in terza persona (che) indica la simultaneità di quella presenza e della sua assenza".

La mostra degli autoritratti di Vivian Maier, “Vivian Maier. Shadows and Mirrors”, è stata organizzata da ARTIKA in sinergia con diChroma Photography ed è curata da Anne Morin. Sarà a Palazzo Sarcinelli di Conegliano dal 23 marzo all'11 giugno 2023.

Self portrait Chicago 1970 Estate of Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY

New-York, October 18 1953 Estate of Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY

Self portrait NewYork, 1953 Estate of Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY

Self portrait 1959 Estate of Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY

Self portrait NewYork, 1955 Estate of Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY