La mostra di Werner Bischof, “Unseen Colour”, da poco inaugurata al Masi (Museo d’arte della Svizzera italiana) di Lugano, getta uno sguardo inedito su uno dei grandi della storia della fotografia. E per celebrarlo espone un’infilata di immagini mai viste. Dai colori inaspettati.
Bischof, infatti, era un maestro nell’uso del colore Che fino a poco tempo fa si pensava essere solo uomo da bianco e nero.
Nato a Zurigo nel 1916, lo svizzero Werner Bischof, fu uno dei più grandi fotografi del suo tempo. Entrò nell’agenzia Magnum Photos quando ne facevano parte solo: Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, George Rodger, David Seymour e Ernst Haas. Di lui si pensava di sapere tutto: dallo sguardo umanista ma crudo sulla realtà, dell’Europa devastata dalla guerra prima e del resto del mondo poi, fino al virtuosismo nel padroneggiare sia la composizione che la macchina fotografica. D’altra parte, Bischof, a soli 38 anni se ne andò inghiottito da un dirupo sulle Ande. Troppo giovane, troppo famoso, per lasciare zone d’ombra nella sua carriera o materiale inedito. E invece no. Un aspetto nascosto c’era eccome: il colore (che l’artista svizzero usava già quando era considerato un vezzo da fotografi di moda, anzichè mezzo espressivo per un vero fotoreporter). E insieme a quest’ultimo anche scatole su scatole di negativi (tutti scattati tra 1939 e il 1949). Ritrovati dal nipote, Marco Bischof, solo nel 2016.
C’era persino un mistero. Per ogni foto, infatti, sono stati recuperati tre negativi identici, e non se ne capiva il motivo. La risposta stava nella macchina che usava Bischof all’epoca: la preziosa la Devin Tri-Color Camera (normalmente esposta al Musée suisse de l’appareil photographique di Vevey e attualmente in mostra a Lugano), comperata apposta per lui nella seconda metà degli anni ‘30, dall’editore di due famose riviste d’oltralpe dei tempi.
La Devin Tri-Color Camera, infatti, non era solo costosissima e poco o niente maneggevole ma anche prodigiosa.
"Necessitava- spiegano dal museo- di lastre di vetro, considerate più stabili rispetto alle pellicole di celluloide, che, tra l'altro, erano difficili da reperire durante il periodo bellico. Ma soprattutto, il vetro garantiva fotografie di altissima risoluzione e perfezione ottica".
E usava la tecnica della tricromia one-shot. Che se oggi può sembrare complicata, ai tempi era avveniristica. Funzionava così: "L’immagine viene trasmessa simultaneamente a tre lastre di vetro, ognuna delle quali registra, tramite un filtro, un singolo colore (rosso, verde, blu). Per ottenere una stampa a colori è poi necessario unire le informazioni registrate dai tre negativi".
Per “Unseen Colour” il Masi ha restaurato, scansionato e stampato quei negativi, trovandone la giusta successione, oltre a cercare di non prendere abbagli. E questo ha significato studio e ricerca: . “Dovevamo ritrovare il linguaggio visivo, il linguaggio di quelle immagini. Per ritrovarlo, occorreva studiare e guardare il materiale dell'epoca. Fare uno sforzo di interpretazione. In particolare sono state fatte ricerche sulle copertine a colori della rivista “Du”, con cui il fotografo svizzero collaborava.”
Oltre alle immagini inedite, su cui ha lavorato un team del Masi coordinato da Marco Bischof (composto da: Rolf Veraguth, fotografo ed esperto di tecnica fotografica e Ursula Heidelberger insieme ai suoi collaboratori, del Laboratorium di Zurigo), “Unseen Colour”, espone anche molti altri scatti a colori di Bischof dei decenni successivi.
Inutile dire che, con gli anni, cambiano le macchine fotografiche (prima una Rolleiflex 6x6, poi un'iconica Leica) e con loro tutto il resto. Lo spirito del tempo, sempre intercettato da Bischof e tradotto in immagini via via più libere e puntuali anche se sempre formalmente perfette, la composizione, l’angolazione degli scatti. E il colore stesso.