Le opere di Antonio Santin sembrano installazioni. Nient’altro che tappeti persiani drappeggiati ed appesi ad una parete. Arazzi dai complessi motivi decorativi. E invece sono dipinti iperrealisti.
Enormi testimonianze di pazienza e metodo che riproducono esattamente, punto a punto, la tessitura di un tappeto.
Antonio Santin usa la storica tecnica dell’olio su tela e un numero imprecisato di ferme e minuscole pennellate, per raggiungere il risultato desiderato: l’iperrealismo. Cioè un completo mimetismo, una completa indistinguibilità del soggetto dalla rappresentazione.
E se già di per se l’impresa non è semplice, Antonio Santin, ha voluto renderla ancora più complessa stropicciando un po’ i suoi tappeti. In questo modo, infatti, le opere assumono movimento e una sorta di tridimensionalità ma le sfumature cangianti aumentano esponenzialmente la difficoltà di ogni quadro. E la dose si pazienza che l’artista è costretto a profondere in ogni dipinto.
Antonio Santin, classe 1978 è madrileno, ha studiato alla Universidad Complutense de Madrid e con la capitale spagnola continua a lavorare ma si è trasferito a New York. Da bravo sud-europeo ha fatto fatica a disfarsi del fastoso passato artistico della sua nazione e, oltre a non abbandonare la pittura, dipingeva figure. Immagini di still life che non lo soddisfacevano. Alla fine ha deciso di seppellire i suoi ex-soggetti sotto i tappeti (facendo così, a mio modo di vedere, contemporaneamente un omaggio alla nota creepy che attraversa la Storia dell’Arte spagnola e alla tradizione della letteratura gialla inglese). Ha spiegato all’edizione statunitense di The Creators Project che è stato per lui un modo di sbarazzarsi delle figure, mentre ancora le loro forme si aggrappavano alle sue rappresentazioni. Tanto che chiama le sue opere “dipinti figurativi senza figura.”