L'allegra malinconia dei mosaici di galloni gialli di Serge Attukwei Clottey sospesi sulla laguna di Venezia per la Biennale d'Architettura

Serge Attukwei Clottey, Time and Chance 18. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Inserito nella sezione "Dangerous liaisons" della Biennale d'Architettura di Venezia 2023, l'artista di Accra Serge Attukwei Clottey, ha presentato uno dei suoi mosaici di taniche di plastica gialla (i galloni Kufuor). L’opera si intitola "Time and Chance" ed è stata sospesa alle Gaggiandre (Arsenale), direttamente sull’acqua della laguna. consentendole di riflettersi nelle onde. La scultura allude ai problemi di approviggionamento idrico dei popoli africani ma anche alla circolarità della Storia ed alla coesione delle comunità ghanesi.

Viste da lontano le opere di Serge Attukwei Clottey sembrano sontuose, ricordano ad un tempo i mosaici bizantini, gli strascichi di antiche regine o gli abiti di arcani cavalieri. Possono dare persino l’impressione di incorporare pagine scritte in uno stratificarsi di segni ricco di storia. Ma si tratta di un’illusione. Serge Attukwei Clottey, infatti, ultilizza soltanto vecchie taniche di plastica gialla, tagliate, forate e legate insieme con fili di rame e altri elementi di recupero. Anche se questo non impedisce, comunque, al materiale di raccontare vicende umane e narrare la sua ormai pluridecennale storia.

Chiamati galloni Kufuor (dal nome di un ex-presidente ghanese, sotto il cui mandato il paese africano conobbe una severa crisi idrica), o più semplicemente galloni (di qui, Attukwei Clottey. ha ricavato il nome di “Afrogallonism” per descrivere la sua pratica artistica), questi contenitori, di litri ne raccolgono ben 10 e sono diffusissimi nel Ghana ma anche in altre parti dell’Africa. Usati originariamente per trasportare olio, sono giunti lì da Occidente. La gente da allora li usa per recuperarare acqua qua e là, quando i rubinetti smettono di funzionare (pare che accada spessissiamo), e poi li abbandona in giro, certa che di lì a pochi giorni ritorneranno nuovamente utili. Ma a volte, tanti e talmente malmessi sono, finiscono nei fiumi e poi negli oceani, contribuendo all’inquinamento.

Serge Attukwei Clottey, sulla loro storia, ha costruito una serie di sculture, dalle dimensoni monumentali e dai risvolti epici. Non sempre, certo, ma nel tempo ne ha create di grandissime, le ha appese ad un’alta formazione rocciosa nel deserto dell’Arabia Saudita, gli ha dato forme architettoniche nella valle di Coachella in California, oltre ad averle usate per lastricare le strade di un’ampia zona di Accra. Spesso ha pagato per i galloni, coinvolgendo intere comunità nella sua opera, mettendone in luce la resilienza ma anche l’allegra malinconia. Le dinamiche che regolano la società africana, infatti, sono uno degli argomenti al centro della sua pratica.

Non più, naturalmente, dei problemi nell’approvvigionamento idrico, dell’ecologia, del rapporto tra Africa e Occidente e dell’urbanistica di città come Accra.

Curata dall’architetto ghanese-scozzese, Lesley Lokko, la 18esima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, ha un focus particolare sull’Africa.  Con 89 partecipanti (di cui oltre la metà provenienti dall’Africa o dalla diaspora africana), "The Laboratory of the Future", si divide in sei parti. Una delle quali è appunto "Dangerous liaisons", in cui sono raccolti i progetti speciali della curatrice.

Serge Attukwei Clottey, con il suo stile semplice ma dall’estetica ricercata, capace di parlare allo stesso tempo di una serie di argomenti importanti per definire l’Africa contemporanea, in questo capitolo della Biennale stà benissimo. E oltre alla grande installazione a pelo d’acqua delle Gaggiandre, ha anche collocato uno dei suoi mosaici all’interno dell’Arsenale. Le opere si potranno visitare per tutta la durata della Biennale d’Architettura (fino a domenica 26 novembre 2023).

Serge Attukwei Clottey, Time and Chance 18. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Serge Attukwei Clottey, Time and Chance 18. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Serge Attukwei Clottey, Time and Chance 18. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Serge Attukwei Clottey, Time and Chance 18. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, The laboratory of the Future Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Il nuovo Gilder Center completa l’American Museum of Natural History di New York con l’architettura sorprendente di Jeanne Gang e vetri a prova di volo d’uccello

Kenneth C. Griffin Exploration Atrium. Photo by Alvaro Keding. All images © AMNH

Disegnato dall’interno verso l’esterno, il Gilder Center, un nuovo edificio che completa e migliora lo storico complesso dell’American Museum of Natural History di New York City, ha un’architettura meravigliosa e sorprendente. Con interni che sembrano caverne erose dal vento e scavate dal fluire e defluire delle maree, disegnati dallo Studio Gang di Chicago, ospita collezioni di ogni tipo, oltre ad una biblioteca, ad un alveare interattivo e un vivaio di farfalle.

All’esterno le linee curve delle pareti in granito rosa di Milford (lo stesso usato nell’ingresso principale del museo) incontrano le ampie finestre, spesso racchiuse in cavità irregolari e avvolgenti. Ma soprattutto il vetro è stato studiato per evitare le collisioni con gli uccellini.

Lo Studio Gang, fondato dall’architetto di Chicago Jeanne Gang, che si era già fatto notare fin dai suoi esordi per l’Aqua Tower della downtown Chicago (il palazzo oltre al magnifico design è stato l’edificio più alto del mondo progettato da una donna, superato nel 2020 dal vicino St. Regis sempre firmato dallo Studio Gang). E con il Gilder Center tocca vette di inventiva visionaria e pragmatismo progettuale. La nuova sede del museo, infatti, è una vera e propria scultura, pensata per instillare nei visitatori la voglia di esplorare l’edificio e la collezione. Oltre a proiettarsi e giocare con il verde del parco antistante in maniera armoniosa. Ma soprattutto, la sede museale corregge dei problemi di comunicazione tra i vari edifici (ne collega ben 10 tra loro, stabilendo dozzine di nuovi percorsi), che costituiscono il campus del museo e rende più facile alle persone spostarsi da una parte all’altra. Cosa non da poco sulle distanze del complesso che costituisce l’American Museum of Natural History (riempie 4 isolati e comprende più di 25 edifici accumulatisi in oltre 150 anni).

Del resto, il solo Gilder Center si estende su 5 piani e occupa più di 70mila metri quadri di superficie. Con ampie sale espositive, una biblioteca dal design particolare (l’effetto è quello di consultare libri sotto un enorme fungo), un teatro e un luminoso atrio. Oltre a percorsi curvilinei sempre nuovi.

L'architettura- ha detto Jeanne Gang- attinge al desiderio di esplorazione e scoperta che è così emblematico della scienza e anche una parte così importante dell'essere umano".

E all’interno del Gilder Center da esplorare c’è parecchio. Tanto per cominciare, la bellezza di circa 4 milioni di fossili, scheletri e altri oggetti. Le immancabili attrazioni didattiche interattive (qui, tra l’altro, c’è un enorme alveare digitale). Un lnsettario, che conta una dozzina di specie d’insetti vivi e “una delle più grandi esposizioni al mondo di formiche tagliafoglie vive- scrive il museo- con un'area di foraggiamento, un ponte sospeso trasparente e un giardino di funghi dove puoi osservare come questa colonia di formiche lavora insieme come un ‘superorganismo’”. Ma soprattutto il vivaio delle farfalle, con le piante esotiche e il microclima tropicale che ospita mille insetti dalle ali multicolore. 80 specie di farfalle diurne e un ambiente a parte per le falene (tra cui la falena atlante, uno dei più grandi insetti del pianeta). Più una nursery con bruchi e crisalidi.

Il Gilder Center è stato realizzato con calcestruzzo proiettato, una tecnica usata di solito per le infrastrutture in cui il calcestruzzo viene spruzzato direttamente sulle armature (modellate digitalmente e piegate su misura).

Le vetrate, invece, sono in fritted glass, un materiale poroso, translucido che tende a non abbagliare e riduce i costi energetici. Ma soprattutto un tipo di vetro che gli uccelli dovrebbero individuare riducendo drasticamente la possibilità che si uccidano sbattendoci contro in volo.

The Gilder Center. Photo by Iwan Baan

The Kenneth C. Griffin Exploration Atrium. Photo by Iwan Baan

Il secondo piano della Louis V. Gerstner, Jr. Collections Core. Photo by Iwan Baan

Collegamenti al ponte del quarto piano. Photo by Iwan Baan

The Hive nello Susan and Peter J. Solomon Family Insectarium. Photo by Alvaro Keding

Un punto di  osservzione delle farfalle nello Davis Family Butterfly Vivarium. Photo by Denis Finnin

Varsavia venne ricostruita con materiali di recupero. Questa storia è al centro di una mostra, insieme ad opere d'arte contemporanea

La mostra "Warsaw 1945-1949: Rising from Rubble", in corso al Museo di Varsavia (Muzeum Warszawy), racconta con reperti vari ed eterogenei, la ricostruzione post-bellica della capitale polacca. Che avvenne attraverso materiali di recupero. Del resto, da riutilizzare c’era parecchio, visto che il conflitto si lasciò dietro 22milioni di metri cubi di macerie.

In mostra ci sono mattoni, resti di vasi, sculture e quant’altro, oltre a fotografie, disegni e quadri. Ma anche opere contemporanee, che suggeriscono che questa pagina della Storia del Paese, abbia influenzato in maniera indelebile anche l’arte, oltre all’architettura della Polonia.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le città di tutta Europa, fecero ricorso a grandi quantità di materiali edilizi, per ricostruire tutto ciò che era andato distrutto nei bombardamenti. In genere, si utilizzavano materie prime prodotte sul territorio e in qualche modo emblematiche. Ma, appunto, non fu così per Varsavia.

"Il marmo di Carrara a Roma - spiega il curatore della mostra, Adam Przywara - il calcare di Portland a Londra o la 'pietra di Parigi' a Parigi: le storie di molte capitali europee possono essere decifrate osservando i materiali con cui sono state costruite. Nella seconda metà del XX secolo, Varsavia si distingueva anche per il suo carattere materiale unico: la città è stata ricostruita dalle macerie".

Sulle prime, anche i polacchi non pensavano ad altro che a buttare quella massa apparentemente inesauribile di macerie. Ma dopo un po’, cominciarono a raccogliere le rovine e ad utilizzarle per produrre nuovi materiali da costruzione. Si recuperavano mattoni e ferro, e si producevano blocchi di cemento e pietrisco. Fu un lavoro durissimo, massacrante (compiuto anche da squadre di donne), che il regime comunista, trasformò nel simbolo del futuro radioso che spettava al popolo polacco.

Tuttavia, oggi, questa storia, secondo gli organizzatori di "Warsaw 1945-1949: Rising from Rubble", ha qualcosa da insegnarci, per l’involontaria sostenibilità del monumentale progetto portato a termine in quegli anni.

La storia della rivalutazione delle macerie- continua Adam Przywara- può servire come riferimento diretto al dibattito contemporaneo sull'edilizia sostenibile al tempo della crisi climatica, basata sul recupero e il riciclo dei materiali. Il principio delle 3R (vale a dire ridurre, riutilizzare, riciclare) è stato applicato su vasta scala nella Varsavia del dopoguerra ".

"Warsaw 1945-1949: Rising from Rubble", conta su oltre 500 reperti, distribuiti in sette sale. La narrazione procede in ordine cronologico, dalle immagini della capitale devastata dai bombardamenti, le demolizioni, fino al riutilizzo delle macerie di cemento. La mostra si chiude con uno sguardo al paesaggio urbano di Varsavia, che ha subito un'importante trasformazione, evidente nella griglia stradale e nello sviluppo edilizio. Adesso della capitale polacca fanno parte anche il Warsaw Uprising Mound, il Moczydłowska e la Szczęśliwicka Hill (tutti fatti di macerie).

Oltre alle macerie originali e ai materiali utilizzati durante la ricostruzione della città, fotografie, cartoline, mariali video e mappe sono esposte anche opere di artisti del tempo (Zofia Chomętowska , Jan Bułhak , Alfred Funkiewicz , Wojciech Fangor , Antoni Suchanek) . Ma anche lavori d'arte contempornea di: Monika Sosnowska (particolamente interessante in questa cornice, perchè Sosnowska, che qui presenta un’installazione site-specific, è una scultrice che si appropria di materiali da costruzione), Tymek Borowski o Diana Lelonek (anche lei presente con un lavoro fatto per l’occasione, in cui riflette sulla collezione del Museo di Varsavia, composta da 300mila pezzi, e sulla vita quotidiana degli oggetti tutelati).

"Warsaw 1945-1949: Rising from Rubble", rimarrà al Museo di Varsavia (Muzeum Warszawy) fino al 3 settembre 2023. Organizzata anche per celebrare il settantesimo anniversario della ricostruzione, la mostra, è affiancata da un nutrito programma di eventi collaterali. Tra i quali, va citato un tour in bicicletta, sulle orme dell'architettura e dei paesaggi urbani del primo periodo della ricostruzione, guidato dal curatore dell’esposizione (si terrà a giugno).

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor

Zofia Chom ®towska, Rubble clearance effort at the site of the Blank Palace on Theatre Square, 1945, Museum of Warsaw

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor

Alfred Funkiewicz, Demolition of houses on Wilcza Street, 1945, Museum of Warsaw

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor

Tymek Borowski, Rubble above Warsaw, 2015, Museum of Warsaw

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor

Alfred Funkiewicz, Three Crosses Square, 1947, Museum of Warsaw

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor

Alfred Funkiewicz, Clearing the Warsaw Ghetto of rubble, 1947, Museum of Warsaw

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor

Fragments of porcelain vase (17th-18th ct.), Museum of Warsaw, collection of Barbara Baziõska (1925-2015), phot. A. Czechowski

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor

Warsaw 1945-1949 Rising from Rubble, exhibiton view. Phot. T. Kaczor