Sembra un castello medioevale Fjordenhus, il primo edificio firmato dall'artista Olafur Eliasson

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Fjordenhus assomiglia a un castello medioevale ma non ha bisogno del fossato perché sorge direttamente dall’acqua del fiordo di Vejle. E’ il primo edificio firmato interamente dallo studio dell’artista danese-islandese Olafur Eliasson. Per realizzarlo sono serviti 970mila mattoni e 10 anni di lavoro (compresa la progettazione).

Olafur Eliasson lo considera un’opera d’arte totale e immersiva. Che sia vero o meno, si tratta di un edificio notevole. Composto da quattro cilindri che si intersecano e altissimi archi che scavando la superficie le regalano punti di fuga inaspettati e una certa leggerezza. Al movimento e a giocare con i colori del suggestivo ambiente circostante ci pensano i mattoni: 15 sfumature di terracotta, ma soprattutto i laterizi smaltati in blu, verde e argento, il cui accostamento è stato studiato uno ad uno (gli accostamenti cambiano anche a seconda delle facciate a della luce che riceveranno e, all'interno, alla destinazione d’uso degli ambienti) .

Fjordenhus è collegato alla riva da un ponte e da un passaggio sotterraneo. Ma non è la residenza di un misterioso sovrano. Molto più prosaicamente è un palazzo per uffici, sede della società d’investimenti KIRK KAPITAL (i proprietari sono i diretti discendenti del fondatore della LEGO). E’ chiuso al pubblico quindi. A parte l’atrio al piano terra dove Olafur Eliasson ha posizionato delle installazioni che tutti potranno ammirare. I mobili, invece, (a loro volta disegnati dallo Studio Eliasson), li potranno guardare i soli clienti e impiegati della holding.

Per vedere altri progetti dello Studio di Olafur Eliasson o tenersi aggiornati sulla vasta attività espositiva dell’artista si può visitare il suo sito internet. (via Dezeen)

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L’artista Esther Traugot che sferruzza minuscole guaine di filo dorato per semi, uova, insetti, conchiglie e rami

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L’artista statunitense Esther Traugot veste con minuscoli indumenti aderenti giallo vivo tutto ciò che trova abbandonato e che evoca il paesaggio. Rami secchi, conchiglie ma anche semi, uova cadute dal nido, castagne, perfino insetti morti. 

Confeziona lei all’uncinetto direttamente indosso al soggetto ognuna di queste guaine. Tinge persino i fili personalmente per essere certa che abbiano una particolare tonalità a cavallo tra l’oro e l’ocra. Un colore molto simile a quello del polline di alcuni fiori (non a caso tra gli artisti che ama c'è Wolfgang Laib).

Esther Traugot con questo lavoro minuzioso cerca di recuperare e curare ma anche enfatizzare e controllare cio’ che è stato abbandonato o per qualche motivo si è rotto.

"Il meticoloso lavoro all’uncinetto imita l'istinto di coltivare e proteggere ciò che è vitale, ciò che sta diventando prezioso- spiega l’artista sul suo sito web- Anche nella doratura, queste false pelli, conferiscono agli oggetti una presunta desiderabilità o valore; l'involucro diventa un atto di venerazione. Anche se inutile nel suo tentativo di archiviare e conservare, suggerisce un senso di ottimismo. "

Esther Traugot  vive a Sebastopol in California, lavora sul tavolo del soggiorno, dove conserva anche i fili e i numerosi oggetti che di volta in volta decide di incapsulare all’uncinetto. E’ cresciuta in una comunità rurale costruita sull’utopia del ritorno alla natura (i genitori facevano parte del movimento ‘Back to the land’ degli anni ’70).

A proposito di questo ha dichiarato in un’intervista (rilasciata al magazine online ‘In the Make’): “Da bambina ho sviluppato un modo particolare di relazionarmi con il mondo intorno a me, non avrei mai calpestato una pozzanghera ghiacciata, o la neve appena caduta, perchè non volevo disturbare quello che c'era. E anche adesso non calpesterei mai le formiche, né ucciderei una vespa che ha trovato il modo di entrare in casa mia, ma la catturerei con un barattolo per poi portarla fuori”.

Per vedere altre minuscole opere realizzate da Esther Traugot con l’ uncinetto e tanta pazienza c’è il suo sito internet. (via Colossal)

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Le fotografie aeree che catturano tutta la bellezza dei cimiteri di biciclette cinesi

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Recentemente The Guardian ha pubblicato una galleria di immagini, composta prevalentemente da fotografie aeree, che focalizza l’attenzione sui cimiteri di biciclette cinesi.

Mettendo in evidenza tutta la bellezza di questi luoghi simbolo di uno sviluppo frenetico ed ingenuo.

I siti, più grandi di un campo da calcio, sono riservati ai mezzi che venivano usati per il bike sharing fino a poco prima in città come Pechino, Nanjing, Wuhan e Shanghai. Questi depositi a cielo aperto sono spesso stipati con più strati di biciclette, fino a raggiungere un’altezza tale da rendere necessario l’intervento di una gru per movimentare il materiale. Eppure l’accumularsi di oggetti sempre uguali, disposti in una sorta di ordine, crea dei motivi decorativi involontari che si ripetono e conferiscono a questi luoghi una bellezza autentica e inaspettata.

Certo, a rendere distopica questa bellezza resta il fatto che le biciclette accumulate non sono quasi mai carcasse. Vuoi perché l’industria del bike sharing in Cina è nata e fiorita troppo in fretta e con un eccesso di ottimismo imprenditoriale (ben tre le compagnie leaders nel settore; tra cui la recentemente defunta Buegogo). Vuoi perché si è scelto di dare totale libertà al cliente: è possibile noleggiarle con una app sul telefonino e si possono lasciare ovunque. Così vengono spesso sequestrate.

E poi ce ne sono tantissime. Talmente tante che i marciapiedi delle grandi città cinesi erano diventati impraticabili per i pedoni.

Da questa sproporzione tra domanda e offerta, dal fallimento di uno dei tre colossi del bike sharing cinese e dal consistente numero di sequestri, nascono i cimiteri delle biciclette in affitto cinesi. Così piacevoli da guardare e al tempo stesso così incomprensibili per noi occidentali da essere quasi un simbolo della distanza che ci divide dal gigante orientale. (via Faith is Torment)

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