Liu Bolin -The Invisible Man, nascosto tra le bellezze italiane al Vittoriano

Liu Bolin, Sala del Trono, Reggia di Caserta, 2017, Courtesy Boxart, Verona

Liu Bolin, Sala del Trono, Reggia di Caserta, 2017, Courtesy Boxart, Verona

Il Complesso Vittoriano di Roma in questi giorni sta celebrando con una grande mostra Liu Bolin, detto anche ‘l’uomo invisibile’ (ne ho parlato qui e qui), l’artista cinese più sfuggente di sempre. Oltre ad essere tra quelli più corteggiati dai brand d’alta moda, ovviamente.
Si intitola, appunto, ‘Liu Bolin. The invisible man’ e oltre ad essere la prima esposizione-evento italiana focalizzata sull’opera del maestro del camouflage orientale, presenta anche due opere in anteprima mondiale. Si tratta delle fotografie delle performance di Bolin che si sono recentemente tenute al Colosseo e alla Reggia di Caserta.

Ma facciamo un passo indietro. 

Liu Bolin, classe ‘73, anni fa, si è inventato un intervento che è diventato il suo marchio di fabbrica e che per la straordinaria duttilità concettuale lo ha accompagnato per tutto questo tempo. In sostanza, Bolin, si dipinge volto, mani e abiti con i colori del paesaggio a cui si giustappone. E lì, immobile, resta, finchè non sono state scattate alcune foto in cui l’artista si intravede appena. Quasi del tutto invisibile, perfettamente mimetizzato come un camaleonte.

Questa serie di interventi che mixano performance, pittura, body painting e fotografia, sono nati per denunciare il governo cinese. Nel 2005, infatti, l’amministrazione di Pechino decise di abbattere il Suojia Village, un quartiere dove avevano sede gli studi di molti artisti, tra cui quello di Liu Bolin. Che si sentì non considerato, trasparente, appunto. 

Da quella prima amara fotografia dell’artista camuffato in modo da sembrare invisibile tra le rovine ne sono seguite molte altre. La tecnica si è affinata, gli assistenti e gli studi preliminari moltiplicati, il malessere scomparso. E Liu Bolin ha cominciato a fare quest’intervento per sottolineare le abitudini contemporanee, puntare l’attenzione sul patrimonio culturale, eventi storici ecc. Ha collaborato spesso con aziende della moda ma non solo. E’ recente il lavoro svolto per il marchio di champagne Ruinart.

Liu Bolin ha viaggiato in tutto il mondo ma l’Italia segna gran parte del suo percorso. Si è mimetizzato un po’ dappertutto. Dall’Arena alla Scala della Ragione di Verona; dal Duomo al contemporaneo Palazzo Lombardia, passando per il Teatro alla Scala di Milano; dal Ponte di Rialto a Piazza San Marco di Venezia; dalla Villa dei Misteri al Tempio di Apollo di Pompei; dal Ponte Sant’Angelo alla Paolina della Galleria Borghese e al Colosseo di Roma; per finire con la Reggia di Caserta.

Liu Bolin. The invisible man’ parla di tutto questo attraverso 70 opere divise in sette sezioni. Qui potete dare uno sguardo a parte del percorso italiano di Liu Bolin Per vedere il resto al complesso Vittoriano c’è tempo fino al primo luglio.

Liu Bolin, Colosseo n°2, Roma, 2017, Courtesy Boxart, Verona

Liu Bolin, Colosseo n°2, Roma, 2017, Courtesy Boxart, Verona

Liu Bolin, Teatro di Corte Reggia di Caserta, Courtesy Boxart, Verona

Liu Bolin, Teatro di Corte Reggia di Caserta, Courtesy Boxart, Verona

Liu Bolin, Scalone d'Onore Reggia di Caserta, Courtesy Boxart, Verona

Liu Bolin, Scalone d'Onore Reggia di Caserta, Courtesy Boxart, Verona

Liu Bolin, Colosseo n°1, Roma, 2017, Courtesy Boxart, Verona

Liu Bolin, Colosseo n°1, Roma, 2017, Courtesy Boxart, Verona

Liu Bolin, Paolina Borghese Bonaparte, Galleria Borghese, Roma. Curtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Paolina Borghese Bonaparte, Galleria Borghese, Roma. Curtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Ponte Sant'Angelo, Roma, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Ponte Sant'Angelo, Roma, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Villa dei Misteri, Pompei, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Villa dei Misteri, Pompei, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Ponte dei Conzafelzi, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Ponte dei Conzafelzi, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Teatro alla Scala  No.2, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Teatro alla Scala  No.2, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Piazza San Marco, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Piazza San Marco, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Teatro alla Scala  No.1, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Teatro alla Scala  No.1, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Canal Grande, Ponte di Rialto, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Canal Grande, Ponte di Rialto, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Scala della Ragione, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Scala della Ragione, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Ponte di Castelvecchio, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Ponte di Castelvecchio, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Loggia di Fra Giocondo, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Loggia di Fra Giocondo, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Palazzo Lombardia, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Palazzo Lombardia, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Arena di Verona, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin, Arena di Verona, Courtesy Boxart Verona

Liu Bolin alla mostra 'Liu Bolin. The invisible man'; foto Iskra Coronelli per Arthemisia

Liu Bolin alla mostra 'Liu Bolin. The invisible man'; foto Iskra Coronelli per Arthemisia

Zhang Dali, il provocatorio papà della street-art made in Cina, che imparò a fare i murales a Bologna

Zhang Dali, AK-47 (H8), 2008, acrylic on canvas

Zhang Dali, AK-47 (H8), 2008, acrylic on canvas

Pittore, scultore, performer ma soprattutto padre della street-art cinese, Zhang Dali è stato il primo artista dopo Keith Haring e Jackson Pollock ad apparire sulla copertina di Times. Ma si è guadagnato anche quella di Newsweek oltre a mostre nei più importanti musei e gallerie del mondo (dal MoMa di New York alla Saatchi Gallery di Londra allo Smart Museum di Chicago). 

Però tutto è iniziato a Bologna nell‘89 dove Zhang Dali ha vissuto e  imparato a fare street-art. Adesso, a oltre 20 anni dalla sua partenza dall‘Italia, Bologna gli dedica ‘Meta-Morphosis’ (dal 23 marzo  al 24 giugno). Organizzata da Fondazione Carisbo e Genus Bononiae. Musei nella Città, è curata da Marina Timoteo e si compone di ben 220 opere (divise in nove sezioni)

L‘esposizione, che ha il sapore dei grandi eventi, si terrà a Palazzo Fava, in pieno centro. Sotto i soffitti affrescati da Annibale Carracci. E sarà la prima antologica italiana di Zhang Dali.

Zhang Dali è il padre della street-art cinese. Che detta così può sembrare una piccola cosa. Ma a Pechino in pieni anni ‘90, quei graffiti  (serie 'Dialogue and Demolition) che apparivano sugli edifici destinati alla demolizione scatenarono un vero putiferio. I media ne parlavano in continuazione, c’era chi proponeva 20 anni di prigione per l‘autore. Ma nessuno sapeva chi era. E il tempo passò finchè quelle opere così provocatorie non si trasformarono in immagini alla moda. Allora Zhang Dali smise di farle.

Zhang Dali, Dialogue and demolition; Demolition: Forbidden City

Zhang Dali, Dialogue and demolition; Demolition: Forbidden City

La sua è la Cina raccontata dal regista Zhang Yimou prima di convertirsi ai colossal epici. Quella dei quartieri tradizionali che vanno giù per fare spazio ai grattacieli, quella della migrazione incessante e silenziosa dalle campagne alle città. Quella che giorno dopo giorno si è liberata della sua memoria.
Pechino in origine era una capitale imperiale, una città ben strutturata- ha detto in un’intervista pubblicata dal sito Asiancha- Ora, a causa dello sviluppo economico e di vari accordi di potere, è stata completamente distrutta. Quando ho visto la città demolita, ho sentito dolore. Chiunque fosse colto o educato penserebbe a questo problema: cioè, siamo assolutamente spietati a demolire la nostra cultura.”

Meta-Morphosis tratteggia tutto il percorso di Zhang Dali, durante il quale l'artista ha usato medium espressivi diversi e si è soffermato su aspetti differenti del mondo che aveva intorno. 

Ma tutte le serie di opere sono unite da un'accorata riflessione sulla memoria e sulla sua perdita.

Zhang Dali, A second History, immagine di propaganda maoista

Zhang Dali, A second History, immagine di propaganda maoista

Zhang Dali, A second History, foto originale dell'evento

Zhang Dali, A second History, foto originale dell'evento

A Second History: Questa serie è costata a Zhang Dali sette anni di lavoro. Sette anni trascorsi negli archivi per accostare le immagini di propaganda (che erano molto in uso dal regime durante il governo di Mao Zedong) alle fotografie originali. "Ho iniziato questa ricerca perché mi chiedevo come esplorare ciò che non è chiaramente visibile- ha detto in un'intervista riportata da Chinaphotoeducationmi chiedevo come entrare nella testa di qualcun altro  (i censori, in questo caso). Il mio progetto fotografico ha rivelato alcune cose inaspettate: la principale, quella propaganda è molto più complessa di quanto sembri. Non si limita a fare un punto politico: ciò che facevano i censori non era semplicemente la falsificazione dei documenti, ma obbedivano anche ai requisiti estetici dell'epoca.  Gli occhi stretti si allargano, le persone che sembrano troppo trasandate nelle scene di campagna venivano cancellate del tutto ".

Zhang Dali, AK-47 (H8), 2008, acrilico su tela (particolare)

Zhang Dali, AK-47 (H8), 2008, acrilico su tela (particolare)

AK-47: la sigla del kalashnikov, simbolo universale di guerra e sopraffazione, compone i ritratti  pittorici di uomini e donne, svelando la violenza quale elemento integrante e tessuto connettivo delle esistenze.

Zhang Dali, Slogan, acrilico su tela

Zhang Dali, Slogan, acrilico su tela

Slogan: Di nuovo pittura, semplice e corale nel ripetersi dei volti. Qui gli ideogrammi che compongono gli slogan della Repubblica Popolare rivelano, grazie alle variazioni di scale cromatiche, le foto-segnaletiche di uomini e donne.

Zhang Dali, Cianotipo su tela

Zhang Dali, Cianotipo su tela

Zhang Dali, Cianotipo, Bamboo

Zhang Dali, Cianotipo, Bamboo

World's Shadows: realizzata con l’antico processo fotografico della cianotipia, che disegna su tela di cotone o carta di riso delicate ombre umane, animali e vegetali. La cianotipia si realizza applicando un'emulsione sul tessuto che viene successivamente esposto alla luce ultravioletta. Spesso l'artista appoggia direttamente degli oggetti sulla base per far apparire le loro sagome. "Il mondo materiale costruisce e controlla il nostro sistema nervoso e può farci sentire agitati e turbati- commenta l'artista sempre su chinaphotoeducation- Quando manteniamo la calma e la tranquillità, ci rendiamo conto che il mondo sotto il nostro controllo è solo una piccola parte dell'universo, certamente non il tutto. Le ombre che documento esistono solo per pochissimo tempo, ma attraverso la fotografia le catturo, in modo che possano esistere per un tempo molto più lungo, davanti ai nostri occhi e sotto il nostro sguardo. "

Zhang Dali, Chinese Offspring, installazione

Zhang Dali, Chinese Offspring, installazione

Chinese Offspring: famosa serie di sculture colate in vetroresina dei mingong (i lavoratori migrati dalle campagne verso le grandi città cinesi). Una selva di sculture appese a testa in giù, a significare la mancanza di controllo che queste persone hanno sulla propria vita

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Ai Weiwei pianta degli enormi alberi di ferro nel parco del Museo di Israele

ai weiwei: maybe, maybe not; ‘iron tree’all images © eli posner

ai weiwei: maybe, maybe not; ‘iron tree’
all images © eli posner

L’estate per l’artista ed attivista cinese Ai Weiwei non sarà un periodo di vacanza, in attesa del grande progetto che lo vedrà protagonista in autunno a New York (“Good fences make good neighbours”). Anzi.

Ai Weiwei, infatti, ha appena inaugurato “Maybe, maybe not” (“potrebbe essere, potrebbe non essere“) al Museo di Israele a Gerusalemme. Una grande mostra che mette in fila alcune tra le installazioni monumentali più importanti realizzate negli ultimi anni e le affianca ad opere nuove.

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Si comincia proprio con delle sculture create da Ai Weiwei per la personale. Si chiamano “Iron trees” e sono appunto degli alberi di ferro. Degli enormi alberi di ferro (8 metri d’altezza per un peso di 14 tonnellate). Posizionate nel percorso che conduce al Museo di Israele, le opere, si integrano alla vegetazione circostante (composta prevalentemente da ulivi e arbusti) sia per la forma che per il colore (creato dalla naturale l’ossidazione del metallo).

Gli “Iron trees”, che conducono lo spettatore verso la mostra vera e propria, fanno riferimento a un’altra famosa installazione di Ai Weiwei (“Trees“, 2009; in esposizione una versione del 2010).
Sembrano semplicemente dei grandi tronchi dai rami ricurvi, ma sono in realtà frutto dell’assemblaggio di tanti calchi in ferro (rami, tronchi, radici), ricavati da alberi raccolti nel sud della Cina e venduti nei mercati di Jingdezhen.
“Maybe or maybe not” è proprio una riflessione sulla molteplicità che diventa un unico elemento e sul suo rapporto con l’individuo. Come nella società in cui tante persone vengono percepite come un corpo collettivo ma mantengono una tensione all’unicità.

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In quest’ottica è stata inserita nella mostra del Museo di Israele anche l’installazione che consacrò Ai Weiwei alla fama internazionale: “Sunflower seeds” del 2010. La scultura monumentale, che venne esposta alla Tate Modern, è composta da milioni di semi di girasole in porcellana, fatti a mano e dipinti uno per uno dagli artigiani dello Jingdezhen.
Bisogna aggiungere che, come nel caso dei granchi di fiume (vedi qui), i semi di girasole sono molto apprezzati dai cinesi e questo li accomuna agli abitanti di Israele.

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Altre opere importanti sono esposte al Museo di Israele come: “Soft ground” (tappeto, 2009), “dropping a han dynasty urn” (mosaico in mattoncini lego, 2016)  e “Trees” (parti d’albero riassemblate, 2010). “Maybe or maybe not” di Ai Weiwei è curata da Mira Lapidot, Yulla e Jacques Lipchitz e sarà possibile visitarla fino al 28 ottobre 2017. (via Designboom)

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