Biennale di Venezia| Con 7 milioni di perline Kapwani Kiwanga ha trasformato il Padiglione Canada

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Non è necessario tardare più di tanto per trovare la fila davanti a “Trinket” (cioè “Paccottiglia”) la mostra della franco- canadese Kapwani Kiwanga che quest’anno rappresenta il suo paese natale (il Canada) alla 60esima Esposizione Internazionale d’Arte. Di solito sono le video installazioni a rallentare il flusso di visitatori alla Biennale di Venezia ma il padiglione canadese è luminoso e silenziosissimo, di film nemmeno l’ombra. Se ci si avvicina abbastanza tuttavia, si può cogliere un lieve rumore, simile a un tintinnio che si perde immediatamente nel canto degli uccelli, tra le chiacchiere e i passi sulla ghiaia dei visitatori, nel movimento delle fronde degli alberi dei Giardini. Sono perline, migliaia e migliaia di perline di vetro, infilate a mano, una ad una, ed appese a comporre monumentali tendaggi sia all’interno che all’esterno del padiglione. Per questo possono entrare solo poche persone alla volta: per non fare danni. Certo però che è bello il Padiglione Canada, simile a una scultura e così diverso dal solito, rivestito com’è di colori intensi e cangianti allo stesso tempo, che tremolano nella luce intensa dell’estate. E che invece, quando osservati da certi punti di vista, scompaiono all’improvviso.

Kiwanga, nata ad Hamilton nel ’78 e cresciuta nella vicina Brantford (entrambe le città sono in Ontario) dove ha studiato antropologia e religione comparata, ha origini tanzaniane e adesso vive a Parigi (qui si è anche laureata in Storia dell’Arte). In seguito ha vinto numerosi premi tra cui il prestigioso Prix Marcel Duchamp (è un riconoscimento francese, che le ha fruttato 35mila euro per l’installazione “Flowers of Africa” al Centre Pompidou di Parigi). Con grazia e logica ineccepibile, parla spesso di questioni legate al colonialismo e in passato ha affermato di aver maturato la prospettiva sull’argomento nel suo periodo a Brantford (la città si trova nell'Haldimand Tract nei territori tradizionali dei popoli indigeni Anishinaabe e Haudenosaunee) in un mix di consapevolezza afro-canadese e di vicinanza alla gente delle Prime Nazioni. Ma sull’opera di Kiwanga ha influito soprattutto il punto di vista dell’antropologa oltre a una propensione del tutto personale per i particolari estetici minuscoli e per le storie trascurate.

Kapwani Kiwanga: Trinket” parla del confine spesso labile che separa il valore di un oggetto dal suo costo, di come cambi a seconda del luogo in cui si svolge la transazione, del periodo storico, delle mode e di una marea di altri micro-fattori. Ma soprattutto degli effetti imprevedibili che uno scambio apparentemente innocuo può avere sui popoli nel lungo periodo, del sistema di potere che può contribuire ad instaurare e di come il significato dell’oggetto possa cambiare radicalmente passando di mano in mano. Un progetto che mette in gioco le competenze scientifiche di Kiwanga (storia, antropologia, economia), in aggiunta alla sua abilità artistica.

Al centro dell’opera ci sono le perline di conteria o margheritine o più spesso, semplicemente, perline veneziane, che dalla Serenissima si diffusero in tutto il mondo tra il 1400 e la prima metà del ‘900. Le minuscole perle erano uno dei pochi prodotti derivati dalla lavorazione del vetro a non venire esclusivamente dall’isola di Murano (dove per decreto già dal 1291 si concentrava l’industria dell’epoca) ma dalla città di Venezia in generale, dove le piccole fornaci necessarie per la fusione non arrecavano danno. Di lì erano poi esportate nelle Americhe, nell’Africa occidentale e in India (nel 2005 in Alaska sono stati persino ritrovati i resti di un paio di orecchini di perline, risalenti a qualche decennio prima della scoperta dell’America).

Il valore di queste sfere lucenti cambiava drasticamente a seconda della provenienza degli attori (gli europei attribuivano loro scarsa considerazione, mentre, ad esempio, gli africani per cui nel tempo sono diventate irrinunciabili, avevano valore scaramantico) e, è inutile dire, che gli affari che si fecero in quel periodo furono tutt’altro che etici. All’inizio furono i veneziani ad arricchirsi, mentre tra l’800 e la prima metà dell’900 a vendere le perline alle colonie furono soprattutto compagnie straniere con uffici in laguna. In Africa, il loro impatto fu inimmaginabile: si creò una vera e propria interdipendenza verso chi le produceva e vendeva, tanto piacevano i colori vivaci del tutto assenti nei monili tradizionali da diventare parte della dote delle spose. Si indossavano poi nelle feste della comunità, nei matrimoni e nei funerali (in ogni occasione delle perline diverse) e le più ricercate (quelle multicolore, le rosetta) potevano essere portate solo dalle massime autorità. Con queste ultime si potevano comprare schiavi, attraversare territori proibiti e godere di molti altri benefici. Del resto nei paesi africani, fino a poche decine di anni fa, le perline avevano il valore di una moneta ufficiale.

Questa storia, suggerita dalla cangiante bellezza dei drappi di perline che modificano quasi radicalmente la struttura architettonica del poco esteso padiglione (il Canada è il più piccolo ai Giardini), Kiwanga ce la racconta completamente all’interno, dove altri tendaggi colorati e tintinnanti nascondono le pareti e incontrano sculture fatte coi materiali con cui le sferette di vetro venivano scambiate (oltre all’oro anche rame, pigmenti del legno brasiliano di Pernambuco e olio di palma ricercatissimo e usato per lubrificare i macchinari durante la rivoluzione industriale), che e, a loro volta, incorporano complessi motivi di perline realizzati da artigiani dello Zimbabwe e canadesi.

"A volte- ha detto in un’intervista- faccio riferimento alla storia e all'importanza socio-politica di un particolare materiale. E poi quello che cerco di fare è riassemblarlo o ricontestualizzarlo in modo che lo sperimentiamo in un modo diverso".

Kiwanga, che nella sua pratica affianca minimalismo e colore, qui tratta lo spazio architettonico come parte integrante dell’installazione: a pieno titolo scultura tra le sculture. Per rendere più morbido lo spazio e omogeneo il rapporto tra le sculture, i drappi e le pareti l’artista ha sostituito il pavimento del padiglione. La nuova pavimentazione per la maggior parte è in semplice resina bianca, interrotta da forme ondulate, colorate con la tinta bruno-rossastra del legno di Pernambuco, foglia d'oro e metallo scintillante che a momenti sale fin in cima alle pareti. La luce che filtra dalle ampie vetrate gioca con gli elementi che compongono l’opera, rendendola quasi un organismo vivente.

Tra le perline più ricercate c’erano quelle blu cobalto che formano il tendaggio esterno. L’opera si chiama “Impiraresse (Blu)” dal nome con cui venivano chiamate le donne che le infilavano, cui rende omaggio. Perché per quanto il commercio delle perline fosse esclusivamente maschile, alle donne veniva affidato questo alienante e poco redditizio compito.

Kiwanga ha preso parte anche alla Biennale di Venezia 2022, invitata da Cecilia Alemani a esporre a “Il Latte dei Sogni”. In quell’occasione ha creato un ambiente riscaldato dai colori del deserto al tramonto, circoscritto da grandi dipinti semitrasparenti, che al centro poneva sculture in vetro riempite di sabbia (per quanto quest’ultima sia un materiale organico è infatti utilizzata in Texas nel fracking, cioè nell’estrazione di petrolio e gas). Ha poi spesso scelto colori utilizzati per controllare lo stato d’animo e il movimento delle persone negli uffici, nei reparti psichiatrici e nelle prigioni (qui, ad esempio, si sceglieva un tono di rosa sperando di rendere più mansueti i detenuti).

La sua pratica- ha detto la curatrice della mostra, Gaëtane Verna- si basa sulla ricerca approfondita di ciò che a prima vista potrebbe sembrare un insieme di semplici questioni di narrative storiche, ma che vengono poi abilmente utilizzate per esaminare il modo in cui le nostre società sono state costruite tramite un’architettura sociale e culturale, l’imposizione di leggi, il commercio e altre forme di scambio. Per Kiwanga, i materiali sono le tracce di incontri umani che portano alla creazione di nuove opere”.

Kapwani Kiwanga: Trinket” il Padiglione Canada, con la National Gallery of Canada (NGC) come commissario e curato da Gaëtane Verna, si potrà visitare per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024 (fino al 24 novembre). Kapwani Kiwanga è la prima artista donna nera a rappresentare il paese alla manifestazione lagunare.

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Impiraresse (Blue), 2024 cobalt glass beads, nylon-coated metal wire, metal components dimensions variable Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer II (Metal, breath, beads) and Transfer IV (Metal, wood, breath, beads), 2024 bronze, blown glass, glass beads; bronze, palladium leaf, wood, blown glass, glass beads 160 × 120 × 32 cm; 164 × 100 × 70 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer III (Metal, wood, beads), 2024 wood, Pernambuco pigment, copper, glass beads 160 × 100 × 66 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Transfer II (Metal, breath, beads), 2024 bronze, blown glass, glass beads 160 × 120 × 32 cm Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Installation view of the exhibition Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National  Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Kapwani Kiwanga Impiraresse (Blue), 2024 cobalt glass beads, nylon-coated metal wire, metal components dimensions variable Installation view, Kapwani Kiwanga: Trinket, 2024, Canada Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia. Commissioned by the National Gallery of Canada and supported by the Canada Council for the Arts © Kapwani Kiwanga / Adagp Paris / CARCC OXawa 2024 Photo: ValenYna Mori

Portrait of Kapwani Kiwanga, 2024  Photo: Angela Scamarcio

Le storie postcoloniali di Mohamed Bourouissa che passano per un giardino di mimose rap al Palais de Tokyo

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Quando nel 2005, Mohamed Bourouissa, si è imposto nel panorama internazionale con la serie fotografica “Périphérique” in cui ambientava nelle banlieue parigine contemporanee scene iconiche della pittura storica francese (più spesso quella di Delacroix), nessuno immaginava che nel tempo il suo lavoro si sarebbe fatto così ramificato. Sempre in bilico tra il trauma e la cura, Bourouissa, attualmente protagonista dell’importante retrospettiva “Signal” al Palais de Tokyo di Parigi, parla di razzismo, migrazioni, confinamento e postcolonialismo, con uno spirito errante e, tutto sommato, più attento alle dinamiche interiori che a quelle sociali e politiche.

Non che a Bourouissa, nato nel ’78 a Blida (nel nord dell’Algeria) ed emigrato in Francia insieme alla madre quando aveva appena cinque anni, queste ultime non interessino. Lui nelle banlieue c’è cresciuto. Ma non è un uomo superficiale, gli piace guardare le cose da più punti di vista, come si evince dalla sua opera che si dirama in direzioni sempre diverse (senza perdere mai il centro però). E poi i sentimenti raggiungono più in fretta il nocciolo della questione, e nell’artista franco-algerino c’è anche un lato pratico, che vuole catturare lo spettatore subito, senza tergiversare.

E di certo ci riesce con “Brutal Family Roots”. Realizzata nel 2020 per la Biennale di Sidney e riproposta anche quest’anno a Parigi, un’opera che in genere presenta su un pavimento giallo dorato come i fiori della mimosa che ne è l’elemento ispiratore e il vero e proprio soggetto. Bourouissa, infatti, quando ha pensato questa installazione era appena venuto a sapere che la pianta, il cui profumo e aspetto gli richiamava alla mente lontani frammenti della sua infanzia mediorientale, era in realtà originaria dell’Australia dove gli indigeni Wiradjuri la chiamano garal. Lui che ha un debole per le piante e le storie della loro diffusione ci ha visto la prova lampante degli equilibri frantumati dal colonialismo. Tempo fa ha detto: “(…) vediamo le piante come oggetti piuttosto che come soggetti, ‘Brutal Family Roots’, esamina il modo in cui dividiamo in categorie esseri umani, piante e animali”. Così ha trovato il modo per dare voce alle mimose sdradicate dalla loro terra natia su navi inadatte a trasportarle: ha messo in musica le frequenze che emettono. Anche il rap si è spostato per il mondo, spesso mettendo radici in comunità disagiate. “Brutal Family Roots” unisce queste due storie in un mix composto dalle melodie emesse dalle piante e i testi dei rapper che parlano di vento e acqua.

Nello stesso anno, Bourouissa, si è inventato anche un’opera esclusivamente sonora: “HARa!!!!!!hAaaRAAAAA!!!!!hHAaA!!!” Uno strano grido che si ispira al termine ‘hara’ usato a Marsiglia per avvisare gli spacciatori dell’arrivo della polizia. L’opera l’ha spiegata così: “È una forma di segnale, come un allarme. Senza il contesto può significare qualcos'altro: per me questo lo rende più simile all'Urlo di Edvard Munch, ad esempio, o al primo pianto di un bambino, o al segnale di allarme quando qualcuno tenta di entrare in casa tua. È qualcosa di molto semplice, qualcosa di forte.”

Anni prima, invece, l’artista era stato in Algeria dove aveva avuto modo di conoscere, Bourlem Mohamed, paziente psichiatrico dell’ospedale di Blida del medico e filosofo politico radicale, Franz Fanon (scomparso nel ’61, tra le altre cose si interessò di psicopatologia della colonizzazione e sostenne la lotta per l’indipendenza dell’Algeria). Bourlem si occupava di un giardino che aveva creato da solo e che, secondo Bourouissa, era una proiezione della sua mente. L’artista con Bourlem Mohamed ha fatto un film (“The Whispering of Ghosts”) e ispirandosi a quanto appreso da quest’ultimo, in molte sue mostre costruisce un giardino (ce n’è uno anche a Parigi).

Ma Mohamed Bourouissa è anche scultore (per esempio, ha ideato una serie che ritrae solo il tocco di un corpo da parte di una mano, facendo riferimento alle dinamiche dell’arresto e della prevaricazione), acquarellista (dipinge carte coloratissime e crede siano un modo per esprimere pensieri inconsci), oltre che esperto fotografo e regista (anche teatrale).

Un’altra sua opera che non si può non citare è il progetto “Horse Day”. Quando è rimasto un anno a Filadelfia, per far emergere e raccontare le antiche radici della cultura ippica di una comunità afroamericana del luogo.

Tutti questi lavori sono parte di “Signal”, mostra pensata non in modo cronologico, ma come un paesaggio da attraversare.

La retrospettiva di Mohamed Bourouissa rimarrà al Palais de Tokyo di Parigi fino al 30 giugno 2024.

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Tra poco aprirà la Summer Exhibition della Royal Accademy mentre in UK ci si chiede se sia un abitudine da proteggere o da abolire

“The Meddling Fiend” (2024). Installation view at the Royal Academy of Arts, London. Photos by Maxwell Attenborough. All images © Nicola Turner

Fondata nel 1768, la Royal Accademy of Arts di Londra, dall’anno successivo, tutte le estati, organizza una collettiva un po’ particolare. Si tratta della mostra di arte contemporanea più longeva del mondo, e vi hanno esposto maestri intramontabili dell’arte britannica come Turner e Constable ma anche, in tempi più recenti, star come Tracey Emin (che nel 2025 sarà in Italia per un’attesa personale a Palazzo Strozzi di Firenze). Però è un evento aperto ai non professionisti, che vengono selezionati da un comitato di artisti già membri dell’accademia reale e dal presidente della Royal Accademy in persona. Si intitola “Summer Exhibition” e sta per essere inaugurata anche quest’anno. Tuttavia, secondo le opinioni dei commentatori, avrebbe perso tutto l’antico smalto.

Un parere condiviso dal critico d’arte britannico, Jonathan Jones, che in una bella e accalorata recensione apparsa su The Guardian ha scritto: “Solo perché la Royal Academy Summer Exhibition è in corso dal 1769 non significa che debba continuare per sempre (...) Io voto contro”.

La “Summer Exhibition” si svolge a Burlington House, nel centralissimo quartiere di Piccadilly, si tratta di un’esposizione incredibilmente estesa e in cui la maggior parte dei lavori presentati è in vendita. Tanto che il sito della Royal Accademy ha scritto: “(…) con un numero di opere disponibili per meno di £ 250, rendendo questa l'occasione perfetta per iniziare la tua collezione d'arte. Le vendite della Summer Exhibition sostengono gli artisti espositori e il lavoro di beneficenza della RA, inclusa la formazione della prossima generazione di artisti nelle scuole della Royal Academy.” Chiunque voglia essere preso in considerazione può mandare la sua candidatura per un massimo di due opere (fino a poco tempo fa per ognuna di queste si pagavano 40 sterline ma dato il numero esorbitante delle richieste la cifra è da poco aumentata). Sia come sia, ogni anno vengono scleti almeno un migliaio di pezzi (in genere artigianali, anche se nulla vieta che nel numero si nasconda qualche perla grezza), cui si aggiungono quelli degli artisti del comitato di selezione e di qualche altro nome noto.

Quest’anno in tutto si tratta di ben mille e duecento lavori. La coordinatrice è la scultrice britannica Ann Christopher (nata nel ’47, famosa per le forme semplici e misteriose cui arriva prendendo spunto da varie fonti come quelle architettoniche, naturali o paesaggistiche) che ha detto di essersi ispirata all’idea di creare spazio: “Ho intenzione di esplorare l'idea di creare spazio, sia dando spazio che prendendo spazio. Questo può essere interpretato in vari modi: fare spazio può significare apertura – fare spazio a qualcosa o qualcuno, fare spazio anche tra le cose. Sono convinta che gli spazi intermedi siano importanti quanto qualunque cosa quegli spazi separino”. Sarà, ma in mostra però, almeno a giudicare dalle fotografie, di spazio pare restarne proprio pochino (la quantità di cose esposte dà l’impressione di farsi sentire, anche se l’installazione, di gusto molto british, sembra equilibrata e gradevole).

Insieme a lei sono stati invitati altri artisti conosciuti come: Ackroyd & Harvey, Vivien Blackett, Diana Copperwhite, Andrew Pierre Hart, Permindar Kaur, Radhika Khimji, Kathy Prendergast, Rachel Whiteread e Charmaine Watkiss. Sono inoltre esposte opere di Ron Arad, Frank Bowling, Michael Craig-Martin, Conrad Shawcross, Clare Woods e Rose Wylie. C’è anche un lavoro di Anselm Kiefer (ancora per poco protagonista di una mostra imperdibile, sempre a Palazzo Strozzi) che Jonathan Jones ha commentato così: “La colossale xilografia di girasoli con centri neri di Anselm Kiefer, fiori da incubo incisi profondamente nella carta, penetra nella tua immaginazione come fantasmi su un campo di battaglia che spuntano dalle ossa dei soldati morti. Eppure è ridicolo appenderlo accanto a una serie di piccole composizioni floreali di natura morta. Questo splendore tedesco circondato dalla vacuità britannica nelle mostre delle Fawlty Towers (sitcom made in England ndr) ti fa chiedere: come abbiamo vinto la guerra?

Del resto Kiefer (come diversi altri famosi artisti tra cui di nuovo un gigante come David Hockney) proprio durante la Summer Exhibition della RA è stato premiato con il Charles Wollaston Award. Infatti, nel corso dell’esposizione vengono assegnate circa 70 mila sterile di premi in denaro tra cui il Charles Wollaston Award (25mila) e uno conferito per l’architettura (10mila).

L’architettura in genere ha uno spazio importante nella mostra. Anche quest’anno è così, e a coordinare questo settore è stato chiamato il collettivo inglese Assemble, in passato vincitore del prestigioso Turner Price (sempre molto britannico-centrico ma di importanza internazionale) e accademico reale. Poi altri architetti tra cui Elsie Owusu e Nigel Coates, lo studio creativo e Structure Workshop e ancora il collettivo artistico, Cooking Sections. Per il resto progetti artigiani e prototipi di ogni genere. I membri di Assemble hanno dichiarato: “Abbiamo accolto con favore proposte che si concentrano e riflettono sul fare come processo, opere incompiute, campioni di materiali, prototipi industriali, modelli funzionanti, manufatti di spazi di lavoro ed elementi agricoli. Creare spazio è un processo complesso, sfaccettato e collaborativo abbiamo fortemente incoraggiato collettivi, individui o organizzazioni al di fuori del mondo dell’architettura e dell’arte a contribuire”.

Nel cortile della Royal Accademy, infine, è stata invitata la scultrice inglese, Nicola Turner, per creare un’opera capace di dialogare in maniera diretta con il ritratto bronzeo del pittore, fondatore e primo presidente dell’istituzione, Sir Joshua Reynolds (la statua firmata da Alfred Drury, fu installata nel 1931). Turner con un importante passato come scenografa (ha lavorato nei teatri più importanti del mondo dalla Royal Opera House all’Opera di San Francisco) in genere usa oggetti trovati ma soprattutto materiali organici di recupero, come crine di cavallo e lana vergine prelevata così com’era dopo la tosatura, per dar vita a forme tentacolari, scure ed imbottite. Lo ha fatto anche alla RA, dove adesso si trova: “The Meddling Fiend”. L’opera si arrampica e si annoda intorno al piedistallo di Reynolds per poi espandersi ed allungarsi da dietro il pittore fino a congiungersi al suo pennello (è stato rappresentato così, intento a dipingere). La scena che ne esce è in bilico tra l’incontro alieno e l’immaginazione di Reynolds che prende vita. Del resto le creature di Turner sono sempre ambivalenti, scure e prive di testa come sono, a volte fanno pensare a ragni, altre ad ammassi di enormi lumache senza guscio, altre ancora a polipi dall’aria poco simpatica, ma soprattutto a forme di vita extraterrestri. Non si capisce mai se i loro approcci al paesaggio, piuttosto che alla statua di Reynolds, come in questo caso, siano amichevoli o aggressivi. In genere suscitano inquietudine e curiosità nello spettatore. Sul suo sito internet c’è scritto: “Turner indaga la dissoluzione dei confini, gli stati liminali e gli scambi continui tra gli ecosistemi. Nel farlo, esplora l'interconnessione tra vita e morte, umano e non umano, attrazione e repulsione. Combina oggetti trovati che contengono tracce di memoria, con le forme di forme viventi e materiali di materia organica ‘morta’ come il crine di cavallo, un materiale usato in precedenza per la biancheria da letto e l'arredamento e, in tal senso, vivo di storia e memoria”. Tuttavia “The Meddling Fiend”, con al posto dei piedi le gambe lingnee a rotelle di mobili d’epoca, ha un ché di goffo e insicuro nella postura che ispira un certo grado di fiducia (che però le varie circonvoluzioni dei tentacoli vanificano).

La “Summer Exhibition 2024” della la Royal Accademy of Arts di Londra aprirà al pubblico il prossimo 18 giugno, mentre la chiusura è fissata per il 18 agosto. Chi la visiterà potrà vedere opere di vario genere a firma di alcuni accademici reali e tanti sconosciuti, per farsi un’idea se davvero sia una consuetudine inglese da abolire o una bizzarra anomalia da salvaguardare. Mentre nel cortile ad accogliere il pubblico, oltre alla statua di Sir Reynolds, troverà gli enormi tentacoli imbottiti di “The Meddling Fiend” di Nicola Turner.

“The Meddling Fiend” (2024). Installation view at the Royal Academy of Arts, London. Photos by Maxwell Attenborough. All images © Nicola Turner

“The Meddling Fiend” (2024). Installation view at the Royal Academy of Arts, London. Photos by Maxwell Attenborough. All images © Nicola Turner