Cattelan in versione top gun è tornato a New York dopo 20 anni (ed è subito polemica)

Installation view, Maurizio Cattelan: Sunday, Gagosian, West 21st Street, New York. Artwork © Maurizio Cattelan. Photo: Maris Hutchinson

Sunday” (“Domenica”) la prima personale di Maurizio Cattelan a New York da oltre 20 anni, che segna anche il suo debutto nelle sale della Gagosian Gallery, ha fatto discutere. Quei 64 pannelli d’acciaio placcati d’oro 24 carati e crivellati di colpi di arma da fuoco a qualcuno sono piaciuti mentre altri li hanno criticati aspramente. Senza contare che oltre un artista si è lamentato rivendicando la primogenitura dell’idea (il britannico Anthony James si è spinto addirittura a far mandare una lettera legale all’artista originario di Padova accusandolo di aver copiato i suoi “Bullet Paintigs”). Di certo l’esposizione, curata dal critico di origine fiorentina, Francesco Bonami che fa anche parte del cda della mega galleria internazionale (la cui collaborazione e amicizia con Cattelan è ormai storica), parla di violenza, ricchezza, morte, ricordo e (come quella al Pirelli Hangar Bicocca di Milano nel ’21-‘22) è più seria rispetto alla produzione precedente. Cupa e sfavillante allo stesso tempo, vuole essere un ritratto graffiante della società americana. E forse non solo.

Sfavillante, appunto, come i pannelli placati in oro zecchino, accostati l’uno all’altro sulla grande parete della galleria newyorkese, che sono stati segnati dai colpi di oltre 20mila proiettili sparati in un poligono di tiro da un gruppo di professionisti anche durante un evento esclusivo antecedente l’esposizione. Pare alla performance fosse presente anche Jeff Koons e che abbia commentato: “Celestiale!” riferendosi al risultato. Al di là dell’impeccabile (e imperturbabile) gentilezza di Koons, ben documentata dalle cronache durante la sua lunga carriera, in questo caso è comprensibile l’apprezzamento dell’americano: l’installazione che dà il nome alla mostra osservata da vicino richiama la sua produzione: ogni piccolo cratere “accoglie”, l’immagine del “visitatore all’interno dell’opera d’arte” (come dice Koons parlando del proprio lavoro); peccato che in questo caso ci si specchi in quel che resta di una pioggia di proiettili. D’altra parte all’inaugurazione della personale (avvenuta lo scorso 30 aprile) al pubblico veniva timbrato su una mano “Beware of Yourself” (diffida di te stesso!).

Ovviamente le citazioni e gli influssi che ritroviamo in “Sunday” non si fermano a Koons. C’è innanzitutto la storia delle armi nel contesto dell’arte, come spiega Bonami: “Le immagini (di violenza armata ndr) non sono una novità nell'arte; si passa da L'esecuzione dell'imperatore Massimiliano (1867-69) di Manet a Il 3 maggio 1808 (1814) di Goya, da William Burroughs che spara a tutto e a chiunque intorno a lui a Chris Burden che spara a un aereo in volo, dall'attentato di Valerie Solanas di Andy Warhol nel 1968 all'iconica fotografia di Richard Avedon (1969) delle cicatrici che lasciò sul corpo di Warhol”. C’è l’approccio distruttivo al Minimalismo (sia perché i pannelli sono stati bersaglio di una pioggia di proiettili, sia perché gli acquirenti si potranno comperare i pannelli separatamente, di fatto, decostruendo l’installazione come fosse una forma di formaggio). Poi ci sono i riferimenti all’arte astratta (è lo stesso Cattelan ad affermare: “E’ la prima volta che faccio un’opera astratta.”) da Pollock ai tagli di Fontana. Qui va detto che i tiratori al poligono non si sono limitati a sparare a caso contro i pannelli, ma hanno usato vari tipi di armi (automatiche e semiautomatiche; fucili e pistole) per raggiungere l’immagine desiderata dall’artista, Cattelan, al quotidiano britannico The Guadian, ha spiegato: “Deve essere attraente e, allo stesso tempo, inquietante”. La giornalista Adrian Horton che ha redatto lo stesso articolo ha descritto “Sunday” in questo modo: “E bellissima (…) ammaccature, crateri, impronte, strappi, colpi netti che ricordano pugni.”

In disaccordo il famoso critico statunitense, Jerry Saltz, che, pur spendendo lodi per l’opera di Cattelan in generale e per l’acume critico di Francesco Bonami, non ha amato lo show in corso da Gagosian e ha definito “Sunday: “Enorme pezzo kitch”. Ha anche scritto: “Sunday dice molto poco, a voce alta. L’America è un paese violento con le armi e un paese affamato di ricchezza, e se guardi in quelle superfici lucide, puoi vedere te stesso. L’idea è così semplicistica che (…) Queste mediocrità dicono la stessa cosa a tutti allo stesso modo. Filosoficamente, tremolano e muoiono”.

Di tenore diametralmente opposto (e come poteva essere, altrimenti!?) il testo pubblicato da Bonami sul sito di Gagosian: “Un pannello dorato ricoperto di segni di arma da fuoco è come una domenica (sunday, ndr): lo sfondo di una festa andata male, molto male (..) Sunday (2024) di Cattelan si spinge un po' oltre, rimuovendo la presenza di chi ha sparato e trasformando la violenza in una sorta di pattern, una decorazione, un ricordo della follia umana. Il suo muro potrebbe essere quello di un casinò di Las Vegas crivellato di proiettili da un giocatore scontento. C'è bellezza nel periodo successivo alla tragedia(...) Cattelan apre una strada attraverso questo possibile malinteso, parlando delle contraddizioni irrisolvibili tra libertà e violenza, divertimento e orrore. (…) Non che respinga l'orrore, ma ne vede l'altro lato: il divertimento. Ovviamente non il divertimento delle vittime ma il divertimento inimmaginabile ma sicuramente presente nella mente dell'autore dell'omicidio di massa”.

Cattelan a New York Times ha invece detto: “L’oro e le armi sono il sogno americano”, per poi sottolineare che l’opera è stata prodotta negli Stati Uniti per la permissiva legislazione sulle armi: “In quale altro posto al mondo potresti farlo?” (anche se, pur nel contesto meno rigido in materia, sono stati necessari mesi per organizzare le sessioni di tiro superando ostacoli logistici e legali).

Di fronte a “Sunday” c’è “November” (sempre 2024), cioè una fontana in marmo di Carrara che rappresenta un uomo coricato su una panchina mentre, tenendosi il pene in mano e coprendosi gli occhi, fa pipì per terra (manca il drenaggio quindi l’acqua finisce sul pavimento per davvero). Bonami la paragona a “Manneken Pis (1619; a lungo simbolo incontrastato di Bruxelles) e commenta: “Qual è la differenza tra un bambino piccolo che fa pipì in una fontana e un uomo adulto che fa pipì sul pavimento? È solo una questione di convenzione.”

Benchè il protagonista di “November” sia Lucio Zotti, amico e socio in affari di Cattelan di lunga data morto il settembre scorso, la stampa ha definito l’opera la “rappresentazione di un senzatetto” o una “figura ai margini” e l’artista ha lasciato aperta questa interpretazione (anche se Zotti non si avvicinava nemmeno lontanamente a un senzatetto) definendo la scultura “un monumento della marginalità”. E se così è, come non pensare alle “Shot Marilyns” di Andy Warhol (nel ’64 la performer, Dorothy Podber, chiese a Warhol se poteva “to shoot them”, riferensosi alla pila di opere che l’artista aveva appena completato; visto che in inglese il verbo significa sia sparare che fotografare lui equivocò il senso della frase e acconsentì, allora Podber si mise un paio di guanti, tirò fuori una pistola e sparò alle serigrafie) e al rialzo di prezzi che nel tempo si sarebbe scatenato intorno a questi lavori (l’ultima vendita di una delle “Shot Marylin” è avvenuta da Christie’s, proprio a New York, per ben 195 milioni di dollari).

Il sessantatreenne star indiscussa dell’arte contemporanea, Maurizio Cattelan, infatti, si è a lungo rifiutato di esporre da Gagosian, perché la mega galleria è il simbolo stesso della mercificazione dell’arte e lui ha in più occasione criticato il consumismo. Recentemente però ha detto ridendo (sempre a The Guardian): “Chiamo Gagosian il lato oscuro del mercato. Ho esitato per molto, molto tempo, ma è stata una buona partnership.” Cattelan è anche sostenitore di una vita il più possibile spartana (si sposta in bicicletta, va a nuotare tutti i giorni in una piscina comunale). E come si può, quindi, non pensare che la giustapposizione, il confronto diretto delle due opere in mostra a New York, non sia anche una critica al mercato dell’arte?

I 64 pannelli ricoperti d’oro che compongono l’installazione statunitense, secondo vari media, sono attualmente in vendita per 375mila dollari l’uno, per un totale di 24milioni di dollari per l’intero set. Gagosian non ha per ora rilasciato stime delle vendite.

Sunday” di Maurizio Cattelan, a cura di Francesco Bonami, si potrà visitare nella sede della Gagosian Gallery di New York fino al 15 giugno 2024. Nel frattempo l’artista è anche protagonista della mostra “The Third Hand” al Moderna Museet di Stoccolma (fino al 12 gennaio 2025) ed espone una foto fuori dal Padiglione Santa Sede della Biennale di Venezia 2024.

Installation view, Maurizio Cattelan: Sunday, Gagosian, West 21st Street, New York. Artwork © Maurizio Cattelan. Photo: Maris Hutchinson

Installation view, Maurizio Cattelan: Sunday, Gagosian, West 21st Street, New York. Artwork © Maurizio Cattelan. Photo: Maris Hutchinson

Installation view, Maurizio Cattelan: Sunday, Gagosian, West 21st Street, New York. Artwork © Maurizio Cattelan. Photo: Maris Hutchinson

Photo Courtesy: Maurizio Cattelan

Chiara Camoni, tra paesaggi condensati, poesia e bellezza dell’ordinario, conquista il Pirelli Hangar Bicocca

Chiara Camoni “Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse.” Veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024 Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Costruita facendo riferimento alla pianta di un giardino tardorinascimentale Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse”, la mostra di Chiara Camoni in corso al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, immerge i visitatori in un mondo misterioso e fiabesco, dove la sapienza artigianale e la bellezza dei materiali non sono il fine ma il mezzo per suscitare interrogativi sullo scorrere del tempo, sulla bellezza, sul mutevole e l’immutabile. Chi scrive l’ha visitata per voi.

Lo Shed, cioè la prima stanza che i visitatori del Pirelli Hangar Bicocca si trovano davanti al loro ingresso, non è affatto uno spazio semplice, con il soffitto alto e la moltitudine di segni che evocano il passato industriale dell’edificio milanese, e per di più, dove dovrebbero esserci candide e rassicuranti pareti ci sono porte e ampie vetrate che legano osmoticamente l’interno all’esterno. Chiara Camoni, quelle grandi finestre, quelle porte, durante “Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse”, ha deciso di non oscurarle, anzi, di lasciarle socchiuse, per inondare di luce naturale l’impressionante parata di sculture che compone la sua personale, e di esporre alla brezza primaverile un universo che oscilla tra il fiabesco e il misterioso, tra l’ordinato e il selvaggio, tra il mutevole e l’immutabile, ma soprattutto tra il naturale e il culturale. Questa scelta, come quella di giocare la mostra sull’idea del giardino tardorinascimentale all’italiana, le ha permesso di vincere la sfida con lo spazio a sua disposizione, facendolo raccolto, anzi tramutandolo in un labirinto di siepi invisibili in cui il pubblico rimane intrappolato senza nemmeno accorgersene, abbandonandosi, come sotto l’effetto di un sortilegio, al piacere di continue, minuscole, scoperte.

D’altra parte è lei stessa ad affermare: “Ci sono delle piccole epifanie, momenti di grazia e di bellezza che sembrano rivelare il senso del vivere. Questi attimi, velocissimi, si coagulano intorno all’opera d’arte (…)”.

Chiara Camoni Cani (Bruno e Tre), 2024 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024 Prodotto da Pirelli HangarBicocca Courtesy l’artista; SpazioA, Pistoia, e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio 

Uscita dall’Accademia di Belle Arti di Brera alla fine degli anni ‘90, Chiara Camoni, fa parte di una generazione di artisti che hanno riscoperto l’amore per la Natura e riletto il genere del Paesaggio in modi inaspettati. C’è chi si è affidato alle scoperte scientifiche, Camoni no, tutta la sua opera, adesso esposta a Milano, è esplorazione del territorio a lei vicino, manipolazione di materiali naturali, accentuata fascinazione dell’ordinario tanto da farlo diventare straordinario. E’ quello che succede, per esempio, ai due leoni (anzi leonesse) in pietra serena, dalle forme stilizzate e gli sfavillanti occhi di vetro e labradonite (Leonesse”, 2024) che accolgono i visitatori all’ingresso dello spazio espositivo, mostrando, a chi avrà la pazienza di fermarsi ad osservare, fossili vegetali ed animali nella tessitura della pietra arenaria particolarmente usata nell’architettura toscana. Questo è uno dei riferimenti, che l’artista originaria di Piacenza, fa alle colline in provincia di Lucca dove si è trasferita (vive a Serravezza un paesino di 12 mila abitanti non lontano delle cave di marmo). Ce ne sono tanti altri, perché il lavoro di Camoni è, in buona parte, un’ode alla bellezza fugace della quotidianità e del presente cui alludono i suoi due cani scolpiti in alluminio e adagiati su un tappeto, al termine del percorso espositivo (Cani (Bruno e Tre)”, non a caso il materiale che li compone a tratti sembra sgretolarsi).

Stesso discorso per, Senza titolo (Mosaico), parte della serie dei pavimenti realizzati per lo spazio espositivo (che contribuiscono al labirinto orizzontale ideato per la mostra), è composto da frammenti di marmo ritrovati durante le sue passeggiate in Alta Versilia. Qui però l’artista evoca in maniera più diretta il genere del Paesaggio (attraverso i materiali stessi che lo compongono) e la Land Art (le passeggiate intese come performances, la geografia che si fa mappa mentale ecc.). Ma quello di Camoni non è mai un lavoro freddo, cerebrale, asettico; così, nello stesso tempo, l’artista fa pensare ad antichi siti archeologici e ai vecchi pavimenti delle case, muti testimoni di storie mai raccontate e memorie dimenticate.

Chiara Camoni “Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse.” Veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024 Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

All’intimità domestica fanno riferimento anche le sete su cui sono state impresse foglie, bacche, fiori. Le sagome che ne sono saltate fuori, sistemate in cerchio su una struttura in ottone, ricordano delle fatine. Camoni di queste opere ha detto: “Sono una mia sintesi di Pasaggio”. Guardandole da vicino si vede la tessitura di motivi vegetali, gli stessi che, a contatto con la stoffa, hanno rilasciato il loro colore.

In mostra c’è pure un tappeto fatto di fiori ed erbe intrecciate (“Living Room), su cui volteggia un gufetto di ceramica dall’aria buffa.

D’altra parte, tutti gli animali selvatici che fanno capolino nell’opera dell’artista, siano essi di grés smaltato (come i “Vasi Farfalla”, con quegli attimi di colore talmente lattiginoso da sembrare liquido denso), o porcellanato, come i “Tre Serpenti” (composti da piccole ciotole fatte a mano, una ad una), hanno tutti un’aria tutt’altro che minacciosa. Nemmeno toppo vagamente disneyani, danno l’impressione di prendere vita a porte chiuse e mettersi a ballare come i personaggi di “Fantasia”.

Chiara Camoni “Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse.” Veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024 Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Le “Sisters”, invece, con il loro volto (talvolta bifronte) di terracotta nera, le braccia di rami secchi, e le candele colorate come offerte votive (lasciate sciogliere fino a mescolarsi con il corpo dell’opera, o sostituite) e magari con gli occhi di cristalli rossi, sono tutta un’altra storia. Dall’apparenza sia protettiva che malvagia, sembrano depositarie di formule magiche, di un voto remoto che non è possibile sciogliere. Figure ancestrali, un po’ esotiche e un po’ nostrane, ci attirano a sé con i loro manti fatti da migliaia di pezzetti d’argilla lavorati a mano, colorati o al naturale, simili a lunghissimi rosari buddisti, a collane di Paesi lontani, ma anche alla maglia dei braccialetti venduti ai turisti sul lungomare toscano. Del resto nello strascico di una di loro ci sono anche le conchiglie.

Forse per il loro nome, in queste laboriosissime sculture (di solito Camoni crea le parti delle collane che le vestono insieme ad altre persone), qualcuno ha voluto vedere un riferimento al femminismo. Lei le spiega diversamente: “Le Sisters sono delle figure che costellano la mostra che probabilmente fanno parte di una dimensione onirica e inconscia mia personale. Sono figure femminili ma mi verrebbe da dire che comprendono un po’ tutto: comprendono il maschile, l’animale, il vegetale, il minerale. E sono ambigue, accolgono gli opposti e le contraddizioni. Molte di loro hanno anche due facce, due personalità. Ognuna ha un suo portato, ha una sua attitudine e ci chiedono una relazione. Sono nel cambiamento”.

Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse” di Chiara Camoni rimarrà al Pirelli Hangar Bicocca di Milano fino al 21 luglio 2024. Curata da Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli, è un’esposizione molto poetica (ma anche soffusa di leggerezza), ben riuscita, perfettamente equilibrata, in cui quando dalla visione d’insieme ci si sposta al particolare (via via sempre più piccolo) l’immagine non va in frantumi ma si rafforza. E sta avendo un grande successo (meritato). Insieme a Camoni in mostra (nelle sale successive dell’edificio in cui un tempo si costruivano e assemblavano locomotive) c’è il giamaicano- newyorkese, Nari Ward, con delle monumentali sculture di rifiuti e dei raffinati video di denuncia sociale, che dal vivo riesce a far mancare il fiato e completa l’esperienza del visitatore introducendolo in un mondo completamente diverso da quello dell’italiana ma complementare.

Chiara Camoni I Tre Serpenti (particolare), 2024 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024 Prodotto da Pirelli HangarBicocca Courtesy l’artista; SpazioA, Pistoia, e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Chiara Camoni Sister (Capanna), 2022 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024 Nicoletta Fiorucci Collection Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio 

Chiara Camoni Barricata #1, 2016 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca,Milano, 2024 Courtesy l’artista; SpazioA, Pistoia, e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Chiara Camoni Sister, 2022 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024 Prodotta da Biennale Gherdëina Courtesy l’artista; SpazioA, Pistoia, e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio 

Chiara Camoni “Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse.” Veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024 Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Chiara Camoni Sister, 2020 (particolare) Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024 Courtesy l’artista; SpazioA, Pistoia, e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio 

Chiara Camoni Leonesse, 2024 (particolare) Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024 Prodotto da Pirelli HangarBicocca Courtesy l’artista; SpazioA, Pistoia, e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio 

Chiara Camoni Sister #04, 2021 (particolare) Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024 Collezione 54, Milano Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Chiara Camoni I Tre Serpenti, 2024 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024 Prodotto da Pirelli HangarBicocca Courtesy l’artista; SpazioA, Pistoia, e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Biennale di Venezia| “Compose” il padiglione Giappone sulla magia della creatività quotidiana di Yuko Mohri

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Frizzante e denso di riferimenti alla bizzarria della quotidianità, “Compose”, il Padiglione Giappone di Yuko Mohri per la 60esima Esposizione Internazionale d’Arte, è piaciuto un po’ a tutti. Sarà che l’artista originaria di Kanagawa (una cittadina a sud di Tokyo) ha comperato tutti gli oggetti che sono serviti per le sue sculture cinetiche nelle botteghe del centro storico di Venezia, sarà che i suoni e le luci prodotti dal marcire della frutta suscitano meraviglia. Tuttavia, il Giappone (come l’Italia del resto) è uno dei pochi Paesi con una democrazia compiuta e un passato importante a non essersi lasciati coinvolgere dall’argomento portante della Biennale 2024 (la decolonizzazione). E questo lo ha fatto apparire un po’fuori dal coro.

Curato dal critico coreano, Sook-Kyung Lee (“Per la prima volta quest'anno, un cittadino non giapponese –ha spiegato l’artista in un’intervistaè stato invitato a supervisionare il padiglione giapponese”), “Compose”, come in genere le opere di Mohri, sollecita più sensi contemporaneamente. C’è il suono a cui l’artista attribuisce molta importanza (ha, tra l’altro, lavorato con affermati musicisti in Giappone), l’olfatto (che qui non sarà centrale come nel vicino Padiglione Corea ma riveste un suo ruolo) e naturalmente la vista, cui le forme e i colori degli oggetti assemblati da Mohri, regalano una piacevole esperienza. Sono, infatti, esposti dei mobiletti (anche loro reperiti in laguna) con sopra fruttiere, piene di arance, mele, angurie; a volte, poi, i frutti sono disposti direttamente sul piano, ma poco importa, in ognuno c’è un sensore che traduce il variare della composizione chimica dell’alimento in suoni e luci.

L’opera, che si intitola “Decomposition”, di fatto cambia in continuazione: muta l’odore (della frutta in decomposizione), l’intensità delle luci e cambiano i suoni. Mohri, infatti, sostituisce i prodotti abbastanza spesso (anche perché acquista frutta già molto matura, tanto da non essere più commerciabile), per poi farne compost per il parco in cui si tiene la Biennale (i Giardini). Il lavoro fa riferimento al ciclo della vita e al tentativo incessante di preservare la memoria. E, naturalmente, all’ecologia.

Ancora più evidente questo aspetto, nell’opera cardine del Padiglione Giappone: “La scultura cinetica di grandi dimensioni ‘Moré Moré (Leaky)’- ha spiegato il curatore, Sook-Kyung Lee- consta di molti oggetti quotidiani e pronti all’uso, come secchi di plastica, tubi traslucidi e piccole pompe che spostano l’acqua da un posto all’altro, presi dalle ferramenta locali (…)”. Per realizzarla Mohri, che in passato era stata colpita da soluzioni di fortuna adottate dal personale della metropolitana di Tokyo, ha creato delle perdite d’acqua appositamente per combatterle con catini, imbuti, bottiglie vuote e quant’altro. Ha anche ripristinato il lucernario e lasciato in bella vista il foro che caratterizza il pavimento dell’edificio costruito nel ’56 dall’architetto nipponico, Takamasa Yoshizaka (allievo di Le Corbusier). In maniera che i temporali potessero contribuire spontaneamente al moto incessante della scultura.

D’altra parte, Mohri, studia con grande attenzione l’ambiente prima di decidere definitivamente il contenuto delle sue mostre. “Per me, iniziare un lavoro- ha affermato in un’altra intervista- è un processo sia cognitivo che fisico. Naturalmente è fondamentale conoscere il sito espositivo e la storia del territorio circostante (…) una volta decisa la sede, mi assicuro di trascorrere più tempo possibile lì, da sola. A quel punto ho bisogno di restare indisturbata, sola, ascoltando direttamente lo spazio. È così che identifico le caratteristiche e gli elementi che lo compongono (…) Trascorro del tempo nelle gallerie finché non vedo la collocazione delle opere, determinata dalle condizioni, inclusa la consistenza del pavimento e le correnti d'aria create dal sistema di aria condizionata. Dall'esterno, questo processo potrebbe sembrare come se fossi semplicemente da sola nella stanza (lol), ma la mia testa gira tutto il tempo”.

Moré Moré (Leaky)” ha a che fare con l’ecologia (il riutilizzo degli oggetti, l’acqua alta di Venezia, le inondazioni e in generale le follie del clima) ma anche con il bagaglio di conoscenze nascoste nella vita di tutti i giorni, e con la poetica fantasia di cui diamo prova quando siamo alle prese coi problemi della quotidianità. Con l’origine della creazione e, in definitiva, con quella dell’arte stessa.

Mohri- scrive sul sito del padiglione il curatore- osserva come le crisi facciano emergere la massima creatività nelle persone (…) Le perdite d’acqua non vengono mai risolte del tutto e la frutta finisce a marcire nel compost, ma questi sforzi apparentemente futili indicano un barlume di speranza che la nostra umile creatività potrebbe portare”.

Compose”, il Padiglione Giappone di Yuko Mohri, vi piacerà. Resterà aperto per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024 (fino al 24 novembre).

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of JAPAN, Compose, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Matteo de Mayda  Courtesy: La Biennale di Venezia