Biennale di Venezia| Il Padiglione Italia di Massimo Bartolini un po’ fuori posto nella biennale della decolonizzazione ma bello

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

A Due qui / To Hear”, il Padiglione Italia di Massimo Bartolini per la 60esima Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, si può accedere da due ingressi. L’artista originario di Cecina (provincia di Livorno) insieme al curatore milanese, Luca, Cerizza, hanno voluto così alludere alla circolarità (del pensiero, dell’esistenza, della storia ecc.) e permettere ai visitatori che arrivano dal giardino di pertinenza dell’edificio (quest’anno trattato come una sala) così come a chi viene dall’ingresso interno all’Arsenale, di incrociarsi nella stanza più grande, quella che ne costituisce il fulcro. Quest’ultima interamente occupata dall’installazione sonora e scultorea, “Due qui” (fatta di ponteggi tramutati in canne d’organo, piante di antichi giardini riadattati in percorsi verso la scoperta di sé) e dalla fontana, “Conveyance” (in cui un’onda conica non smette mai di alzarsi al centro di un cerchio di marmo) è davvero bella. L’intero padiglione lo è.

Magari è firmato da un uomo bianco occidentale, che lavora con un linguaggio tipicamente maschile e tipicamente occidentale come il minimalismo (la cui durezza è appena smussata dal buddismo e dalle filosofie orientali), che nel cuore della biennale della decolonizzazione può apparire un po’ fuori posto, ma è sicuramente un bellissimo padiglione. Uno dei più riusciti delle ultime edizioni.

Anche il carattere del temaStranieri Ovunque”, scelto dal curatore della manifestazione lagunare Adriano Pedrosa (da intendersi in più modi fino al sentirsi “stranieri a sé stessi”), è qui interpretato in maniera diversa: “(…) proponendo- hanno scritto gli organizzatori- un’ulteriore declinazione per la quale il non essere straniero deve iniziare con il non essere stranieri a se stessi”. Il titolo, infatti, partendo dalla traduzione apparentemente sbagliata, “Two here” (due qui) e To hear (sentire/udire), suggerisce come l’ascoltare, il “tendere l’orecchio”, sia già una forma di azione verso l’altro. E come le incomprensioni possano essere occasione di scoperta.

Di certo le polemiche che hanno accolto l’inaugurazione della mostra di Bartolini non lo sono.

L’Italia quest’anno viene rappresentata da un solo artista, è la seconda volta nella storia della Biennale che succede (la prima in assoluto è stata nella scorsa edizione) e a qualcuno la cosa non è piaciuta. Le altre nazioni, occidentali e non (sia che dispongano di padiglioni grandi, o che si adattino a spazi angusti), vengono rappresentate da un solista da decenni, perché è una formula vincente (chi espone è valorizzato, il pubblico capisce meglio, la stampa è più propensa a parlare dell’evento). L’unico Paese che non lo fa è la Repubblica Popolare Cinese (anche lei ha un padiglione che in genere, per quanto riguarda le arti visive, fa poco parlare di sé). Per esempio, alla 60esima Esposizione Internazionale d’Arte, nei Giardini (dove ci sono tutti i padiglioni più antichi e visitati), solo la Germania ha scelto di non veicolare il proprio messaggio attraverso una sola voce (ma due, non quattro o quaranta, a cui sono state comunque allestite mostre separate). Nelle edizioni precedenti però, pure quest’ultima, ha preferito delle personali. Insomma, questo non è un argomento che lascia spazio a pareri divergenti, come dimostrano le scelte adottate dagli altri Paesi.

Due qui / To Hear” era inoltre inadatta a queste critiche. Infatti, sebbene la firma del progetto sia quella di Bartolini, all’opera hanno partecipato anche le musiciste: Caterina Barbieri (italiana, classe 1990) e Kali Malone (statunitense, nata nel ‘94). Oltre al famoso compositore inglese, Gavin Bryars (del ’43) insieme al figlio, Yuri Bryars (nato nel ’99). Ci sono poi due testi commissionati appositamente per il progetto alla scrittrice e illustratrice per l’infanzia Nicoletta Costa (italiana, del ‘53) e al romanziere e poeta Tiziano Scarpa (italiano a sua volta ma del ‘63).

Se si accede dall’Arsenale, il Padiglione Italia, accoglie i visitatori con un minimalismo disarmante. Nella stanza c’è solo una piccola statua in bronzo di un Pensive Bodhisattva (una rappresentazione classica del Buddha, in cui il principe appare assorto e distaccato) collocata all’estremità di un lungo parallelepipedo bianco. Quest’ultimo elemento, che può alludere alla strada compiuta da Siddharta per raggiungere l’illuminazione, è in realtà una canna d’organo che attraverso un ventilatore è in grado di produrre un suono prolungato e continuo. I visitatori, però, se ne accorgono solo passandogli accanto e credono di percepire anche vibrazioni che li disorientano. Le pareti circostanti sono dipinte di verde e viola; i colori, secondo un’antica usanza, invece di costituire un abbellimento, indicano delle note musicali (in questo caso La e La bemolle)

Lo stesso tempo sospeso- ha scritto a proposito dell’opera il curatore, Luca Cerizza- suggerito dal Bodhisattva è rafforzato da questo suono prolungato, che rimanda a un tempo circolare”.

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Ma è la seconda stanza (quella centrale considerando anche il giardino) a lasciare stupiti: di fronte a sé un labirinto di pali per ponteggio in metallo che evoca una cattedrale effimera e luccicante da attraversare percorrendo stretti viottoli. I tubi però sono stati modificati uno ad uno per trasformarsi in canne d’organo (“grazie alla collaborazione di organari e tecnici specializzati”) e suonano al passaggio del pubblico, mentre le melodie composte dalle musiciste Barbieri e Malone, vengono diffuse in loop da due rulli a motorie, che funzionano come grandi carrilon. La pianta dell’installazione, in questa sala, rimanda ai giardini italiani barocchi, mentre i visitatori sono chiamati ad attivare l’opera in maniere potenzialmente infinite: “il suono di questa macchina musicale- continua Cerizza- è percepibile in modi sempre diversi a seconda dei tempi e direzioni di percorrenza dello spettatore. È il nostro movimento a ‘comporre’ parzialmente una musica sempre nuova”.

Al centro della stanza c’è una fontana in marmo (“Conveyance”). Inutile dire che si tratta di un’opera strettamente minimalista, composta da due cerchi concentrici (la vasca e la seduta da cui i visitatori possono contemplarla). L’acqua qui non si perde in giochi, si limita a un’onda conica: “Chiamata in termini scientifici ‘solitone’, è un’onda simile a quella che genera uno ‘tsunami’ ma replicata di continuo come in un esperimento di laboratorio.” A differenza di quanto si potrebbe pensare la fontana è silenziosa (è anzi il punto più propizio per ascoltare le melodie che si alzano dalla foresta di tubi) e se guardata abbastanza a lungo dovrebbe predisporre alla meditazione.

Massimo Bartolini, Due qui, 2024 12×6×50 m 50 minutes of music / 10 minutes of silence iron, cast iron, motors, electronics Music composed by: Caterina Barbieri, Kali Malone Metalwork and engineering: Yari Andrea Mazza Detailed design: Riccardo Rossi Organ builders: Massimo Drovandi, Samuele Frangioni, Samuele Maffucci Electronics: Valerio Marrucci Scaffolding assembly: Euroedile, Postioma (TV) (Alessandro Ballan, Denis Daullja, Fabiano Gregolin, Nicola Lazzari, Vasyl Ozhibko, Rinor Krasniqi, Vitali Serbin) Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Usciti da questa stanza ci si trova nel giardino. In alcuni punti del quale si attivano le melodie dei Bryars ma il pubblico può anche fermarsi ad osservare un cerchio di persone coi piedi sotterranti che cingono un albero (“Lo proteggono e lo contemplano allo stesso tempo, diventando un pubblico che custodisce”). La performance non c’è sempre ma l’installazione sonora si, e accompagna con grazia il passaggio delle persone in mezzo agli alberi secolari.

Nato nel ’62, Massimo Bartolini, che stranamente continua a vivere e lavorare a Cecina, ha una carriera di tutto rispetto alle spalle. Prima di quest’anno ha già partecipato tre volte alla Biennale di Venezia (ma mai da solista). Nel 2012, invece, è stato ospite a Documenta di Kassel. E’ anche insegnate (alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e all’Accademia di Belle Arti di Bologna).

Per concludere,Due qui / To Hear”, il Padiglione Italia di Massimo Bartolini va assolutamente visitato. Per quanto non sia la partecipazione nazionale più inerente al tema della la 60esima Esposizione Internazionale d’Arte (anzi tra i Paesi occidentali forse è una delle meno consonanti sia stilisticamente che concettualmente), è di certo una gran bella mostra. Inoltre, l’idea di permettere ai visitatori l’ingresso anche dal giardino di pertinenza dell’edificio, potrebbe permettere a qualcuno di sveltire i tempi di attesa per accedere a questa parte della Biennale di Venezia 2024.

Massimo Bartolini, Pensive Bodhisattva on A Flat, 2024 2500×32×32 cm, statue 40×9×9 cm 50 minutes of music / 10 minutes of silence wood, motor, bronze Organ builders: Massimo Drovandi, Samuele Frangioni, Samuele Maffucci Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Massimo Bartolini, Due qui, 2024 12×6×50 m 50 minutes of music / 10 minutes of silence iron, cast iron, motors, electronics Music composed by: Caterina Barbieri, Kali Malone Metalwork and engineering: Yari Andrea Mazza Detailed design: Riccardo Rossi Organ builders: Massimo Drovandi, Samuele Frangioni, Samuele Maffucci Electronics: Valerio Marrucci Scaffolding assembly: Euroedile, Postioma (TV) (Alessandro Ballan, Denis Daullja, Fabiano Gregolin, Nicola Lazzari, Vasyl Ozhibko, Rinor Krasniqi, Vitali Serbin) Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Massimo Bartolini, Due qui, 2024 12×6×50 m 50 minutes of music / 10 minutes of silence iron, cast iron, motors, electronics Music composed by: Caterina Barbieri, Kali Malone Metalwork and engineering: Yari Andrea Mazza Detailed design: Riccardo Rossi Organ builders: Massimo Drovandi, Samuele Frangioni, Samuele Maffucci Electronics: Valerio Marrucci Scaffolding assembly: Euroedile, Postioma (TV) (Alessandro Ballan, Denis Daullja, Fabiano Gregolin, Nicola Lazzari, Vasyl Ozhibko, Rinor Krasniqi, Vitali Serbin) Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Pavilion of ITALY DUE QUI / TO HEAR 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Massimo Bartolini, A veces ya no puedo moverme, 2024 variable dimensions 6 boomboxes, mixer Music composed by: Gavin and Yuri Bryars Percussions: Gavin and Yuri Bryars Voices: Alessandra Fiori, Francesca Santi, Silvia Testoni Sound engineering: Louis McGuire Production assistant: Emanuele Wiltsch Barberio La Biennale di Venezia team: Paolo Zanin, Michele Braga, Dario Sevieri, Enrico Wiltsch Recorded at Cosmogram, Giudecca, Venice, February 24 and 25, 2024 Courtesy the artist, Massimo De Carlo, Frith Street Gallery, and Magazzino Photo © Agostino Osio / AltoPiano

Massimo Bartolini con l’opera Pensive Bodhisattva on A Flat (Bodhisattva pensieroso su La bemolle), 2024, all’interno del Padiglione Italia – Biennale Arte 2024 Foto © Agostino Osio per AltoPiano

Biennale di Venezia| Il coloratissimo Padiglione Stati Uniti, americano e indigeno, di Jeffrey Gibson

Exterior view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Forecourt sculpture: the space in which to place me (2024). Photograph by Timothy Schenck.

Il Padiglione Stati Uniti di Jeffrey Gibson

Il Padiglione Stati Uniti “The Space in Which to Place me”di Jeffrey Gibson è sicuramente uno dei migliori della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia 2024. E basta passarci davanti casualmente per accorgersene: l’edificio palladiano è stato ridipinto con una vernice lucida in un tono di rosso scintillante, ai lati del piazzale (anche lui tinteggiato di rosso) otto bandiere (un simbolo su cui Gibson si è soffermato spesso perché ha a che fare con l’identità e l’appartenenza), multicolori, come i murali su cui si stagliano. In cima alle facciate, due frasi realizzate con i caratteri inventati dall’artista, che si guardano e completano vicendevolmente (sulla sinistra il titolo della mostra, mentre sulla destra l’esordio della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, "Riteniamo che queste verità siano evidenti”).

C’è anche una scultura fatta di piedistalli di varie altezze e dimensioni accostati tra loro, su cui il pubblico può arrampicarsi per farsi fotografare o riposare un momento. L’opera è rossa a propria volta e ha lo stesso titolo della mostra. "Ho iniziato a pensare al padiglione come a una macchina in cui le persone entrano ed escono cambiate" ha detto, Abigail Winograd, la curatrice indipendente che insieme a Kathleen Ash-Milby (curatrice per l'arte dei nativi americani presso il Portland Art Museum) ha presieduto al progetto.

Ash-Milby, di origine Navajo, è la prima curatrice nativo americana del Padiglione Stati Uniti. Il titolo inoltre fa riferimento a una poesia di Layli Long Soldier, poetessa Oglala Lakota. Ma soprattutto il protagonista, Jeffrey Gibson, con sangue Choctaw e Cherokee, è il primo artista indigeno a rappresentare gli USA da solista in oltre novant’anni di storia del palazzo creato agli inizi del secolo scorso dagli architetti William Adams Delano e Chester Holmes Aldrich. Negli anni ci sono state mostre collaterali certo, e nel 1932, nell'ambito di una collettiva dedicata ai pittori dell'ovest americano, vennero presentati diversi artisti nativi (per lo più rimasti senza nome, insieme a dipinti di: i Ma Pe Wi, Oqwa Pi, Tonita Peña, Awa Tsireh, Julian Martinez, Tse Ye Mu, Otis Polelonema e Fred Kabotie). Anche se il riconoscimento più importante ad un’artista nativo, fino a quest’anno, era venuto dalla Biennale stessa, che nel 2019 aveva assegnato il Leone d’oro alla Carriera a Jimmie Durham (nato Cherokee ha vissuto parecchi anni a Napoli).

Il lavoro di Jeffrey Gibson, del resto, insieme ad assonanze chiare all’opera di Suor Corita Kent (artista pop statunitense, attiva nel movimento per i diritti civili, scomparsa nell’86, che quest’anno torna in Biennale nel Padiglione Santa Sede), risuona della ricerca visionaria e costante di Durham (quest’ultimo, da parte sua, gli aveva riservato parole di stima). Nell’alfabeto difficilmente leggibile di Gibson, fatto di rette ma soprattutto figure geometriche coloratissime, poi, si potrebbero anche rivedere gli arazzi di Alighiero Boetti. Del resto la sua opera cerca proprio di trovare un punto di convergenza tra l’arte tradizionale del suo popolo e quella della contemporaneità. Come se la prima si fosse sviluppata parallelamente alla seconda. In un’intervista rilasciata qualche anno fa ha spiegato: “Colleziono oggetti (indigeni ndr) della prima metà del XX secolo (…). Questo è il momento in cui modelli, colori e influenze globali iniziano a manifestarsi, e questo mi aiuta a costruire un ponte tra l'immagine storicizzata dei nativi e chi so che siamo oggi”.

Ne viene fuori una festa di colori: vivaci, gioiosi, intensi, a tratti psichedelici. Ci sono i toni cangianti degli intricati e stratificati ricami di perline che vibrano ricoprendo sculture e abiti, i coni argentei delle danze powwow, poi, fibbie, borse e altri oggetti indigeni d’epoca che l’artista ha scovato nei mercatini (una curiosità: li ha acquistati come oggetti fatti da autori ignoti ma li ha inseriti nei lavori in modo da poterli estrarre e replicare se qualcuno ne rivendicasse la paternità). E la pittura naturalmente (lui ha sempre dichiarato di considerarsi prima di tutto un pittore), che in alcune opere raggiunge picchi da oltre 150 diverse sfumature di colore, per di più spesso affidati a laboriose composizioni di fettucce intrecciate.

Ma Gibson dissemina anche di citazioni praticamente ogni sua opera, le fonti vanno dai proverbi Dakota alle canzoni di Nina Simone, fino brani di documenti legislativi e discorsi di leader carismatici.

La musica e la moda, infatti, sono due punti di riferimento importanti per Gibson, anche se a Venezia ha privilegiato brani di vari documenti fondanti della più importante democrazia del pianeta. C’è, per esempio, l’Indian Citizenship Act del 1924 (una legge che concede i diritti fondamentali alle popolazioni indigene), e il Civil Rights Act del 1866 (la prima legge federale che definisce la cittadinanza e rivendica l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge). Ed è proprio per un brano di una lettera d’epoca, in cui un Commissario per gli affari indiani metteva in guardia un sovrintendente californiano sull’importanza di far tagliare i capelli ai maschi nativi, che tutte le sculture in mostra hanno fluenti e lunghe chiome.

Non si può quindi negare che l’opera di Gibson abbia una chiave di lettura politica (risolta tuttavia con grazia ed equilibrio) ma ce ne sono anche altre. I sacchi da box ricamati, per esempio, sono frutto degli allenamenti a cui si era sottoposto su consiglio del suo terapista per elaborare la rabbia (in laguna ce n’è esposto uno stupendo, con fitte frange multicolore che arrivano fino a terra e gli conferiscono un’aria regale).

D’altra parte, figlio di un ingegnere civile che lavorava per il Dipartimento della Difesa, Jeffrey Gibson, è un nativo fuori dagli stereotipi. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza viaggiando per gli Stati Uniti ma anche in Germania e Corea, dopo si è laureato alla School of the Art Institute of Chicago per poi ripartire verso il Royal College of Art di Londra (dove ha conseguito un master sponsorizzato dalla sua comunità, la Mississippi Band of Choctaw Indians). Gay, Gibson, incontrò proprio lì quello che sarebbe diventato suo marito (l’artista norvegese Rune Olsen, con cui ha due figli).

La sua carriera non è sempre stata in salita (ha raccontato che, una volta, per lo scoramento, gli è capitato di buttare tutte le sue opere in lavatrice e avviare la macchina). Adesso però ha un gande studio a Georgetown (NY) in una ex-scuola ristrutturata, con un team composto da 15 assistenti (per preparare l’appuntamento in laguna sono saliti a 20). Ha fatto mostre importanti e il suo stesso Padiglione Stati Uniti è presentato dal Portland Art Museum (Oregon) e dal SITE Santa Fe (New Mexico).

Riguardo la propria appartenenza ha detto: “Beh, sono americano. Ho vissuto in molti altri paesi dove quell'identità sostituisce la mia identità di nativo americano nella percezione locale. (...) So cosa vuol dire essere un indigeno negli Stati Uniti, ma come americano, so anche cosa vuol dire essere uno straniero in altri paesi. (…) L’esperienza di essere straniero è stata positiva per me. C'è un'umiltà che deriva dall'essere in un ambiente in cui non posso andare avanti con assoluta fiducia, dove devo ascoltare e prestare molta attenzione, dove non ho il comando e non posso condurre le conversazioni. È il momento di fare un passo indietro, il che è salutare per me, e direi anche che è salutare per la maggior parte delle persone”.

In mostrs ci sono sculture, dipinti e murali. In conclusione anche un video che omaggia il matriarcato indigeno e il potere curativo dell’arte attraverso una irrefrenabile Jingle Dance (un ballo eseguito dalle donne durante i powwow per invocare gli antenati) il ritmo martellante su cui si muovono le ballerine è quello di The Halluci Nation (un gruppo musicale delle Prime Nazioni).

 “The Space in Which to Place me”, il Padiglione Stati Uniti di Jeffrey Gibson è ai Giardini e si potrà visitare per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024Stranieri Ovunque- Foreigners Everywhere” (fino al 24 novembre).

Exterior view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Forecourt sculpture: the space in which to place me (2024).Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. From left to right: IF NOT NOW THEN WHEN (2024); The Enforcer (2024); WE WANT TO BE FREE (2024) Mural: WE ARE MADE BY HISTORY (2024) Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. From left to right: The Enforcer (2024); WE WANT TO BE FREE (2024); Mural: WE ARE MADE BY HISTORY (2024) Photograph by Timothy Schenck.

The Space in Which to Place me, Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, Installation view. Photo: © artbooms.com

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Birds from left to right: we are the witnesses (2024); if there is no struggle there is no progress (2024). Wall works from left to right: BIRDS FLYING HIGH YOU KNOW HOW I FEEL (2024); IF YOU WANT TO LIFT YOURSELF UP LIFT UP SOMEONE ELSE (2024). Photograph by Timothy Schenck

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Wall works from left to right: GIVE MY LIFE SOMETHING EXTRA (2024); THE RIGHT OF THE PEOPLE PEACEABLY TO ASSEMBLE, 2024. Birds from left to right: if there is no struggle there is no progress (2024); we are the witnesses (2024). Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024.  Center: WE HOLD THESE TRUTHS TO BE SELF-EVIDENT (2024) Photograph by Timothy Schenck.

The Space in Which to Place me, Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, Installation view. Photo: © artbooms.com

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Wall works from left to right: WE WILL BE KNOWN FOREVER BY THE TRACKS WE LEAVE (2024); THE RETURNED MALE STUDENT FAR TOO FREQUENTLY GOES BACK TO THE RESERVATION AND FALLS INTO THE OLD CUSTOM OF LETTING HIS HAIR GROW LONG (2024); LIBERTY WHEN IT BEGINS TO TAKE ROOT IS A PLANT OF RAPID GROWTH (2024); THE GREAT SPIRIT IS IN ALL THINGS (2024). Bust: I’M A NATURAL MAN (2024). Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. From left to right: She Never Dances Alone (2020); WHEREAS IT IS ESSENTIAL TO JUST GOVERNMENT WE RECOGNIZE THE EQUALITY OF ALL PEOPLE BEFORE THE LAW (2024). Photograph by Timothy Schenck

Exterior view of gallery one of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Photograph by Timothy Schenck.

(L-R) Louis Grachos, Jeffrey Gibson, Kathleen Ash-Milby, and Abigail Winograd. Photo by Cara Romero.

Biennale di Venezia| Tra sculture di cacao e decolonizzazione il Padiglione Paesi Bassi del collettivo CATPC riabbracccia lo spirito furibondo di un funzionario belga

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

Pervaso da una vibrante energia e profumato di cacao misto ad olio di palma, “The International Celebration of Blasphemy and The Sacred, il Padiglione Paesi Bassi del collettivo congolese Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (CATPC) è quanto di più radicale (e da un certo punto di vista, contemporaneo) si possa incontrare nella 60esima Esposizione Internazionale d’Arte. Simile (in versione molto ridotta) a Documenta 2022. Al centro del progetto c’è la restituzione temporanea da parte del Virginia Museum of Fine Arts di un’antica scultura, che rappresenta lo spirito arrabbiato di un funzionario belga decapitato in Congo durante la rivolta dei Pende negli anni ’30.

Anche se l’opera, i visitatori della Biennale di Venezia, potranno osservarla soltanto in streaming (è esposta nella sede del collettivo a Lusanga in Congo), si tratta di un’importante vittoria per il gruppo di artisti africani che da anni insisteva per riaverla.

Pur se il pubblico del padiglione non si troverà di fronte la figuretta lignea con gli occhi sporgenti e le sopracciglia arcuate in cui la popolazione locale credeva di aver intrappolato lo spirito furibondo di Maximilien Balot, avra’ a disposizione un buon numero di sculture da guardare. Opere create dal CATPC per l’appuntamento veneziano, che effigiano spiriti maligni e scene di lotta, fatte con materiali che possono sembrare bizzarri ed esotici ad un occidentale (zucchero, cacao, olio di palma ecc.) ma che per gli artisti congolesi sono decisamente a chilometro zero. Originariamente modellate nella terra prelevata “dagli ultimi lembi di foresta rimasti a circondare la piantagione” (il collettivo ha sede nei terreni un tempo appartenuta alla multinazionale Unilever che conta tra i propri marchi anche Knorr e altri che troviamo quotidianamente negli scaffali del supermercato), sono state poi colate nelle materie prime provenienti dalla terra del collettivo.

Le opere si basano sugli eventi che segnarono la rivolta del popolo Pende contro il dominio coloniale belga nel 1931 (ci fu uno stupro e la gente si ribellò violentemente; Balot, che prima reclutava con la forza persone dei villaggi per lavorare nei campi di canna da zucchero, venne decapitato e smembrato; i belgi reagirono con brutalità). Le sculture, per quanto evochino un massacro sono fantasiose, solide ed armoniose nei volumi, realizzate con cura e risultano piacevoli da guardare, non stupisce, quindi, che il CATPC le abbia messe in vendita. Questa operazione commerciale, di norma severamente vietata alla Biennale, è stata autorizzata perché permetterà agli artisti del collettivo di ricomprare terreni usati per la monocultura e di riconvertirli in progetti agricoli sostenibili.

I proventi- ha detto, Matthieu Kasima, uno degli artisti del collettivo- serviranno a finanziare il riacquisto di terreni un tempo ricoperti dalla foresta vergine e confiscati dai colonizzatori europei per far spazio a piantagioni su larga scala, principalmente zucchero, cacao e palme da olio. Una foresta sacra, necessaria non solo al sostentamento delle tribù indigene limitrofe ma anche allo svolgimento della loro vita spirituale”.

Il Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise è attualmente composto da una ventina di persone, alla formazione artistica dei membri (quando il collettivo fu fondato sono stati istruiti da professionisti) oltre che al loro mettersi insieme come gruppo, ha concorso l’artista olandese, Renzo Martens, che nel tempo ha continuato a collaborare con loro. Martens, che a Venezia compare come curatore insieme al critico Hicham Khalidi (anche lui olandese ma di origine marocchina) è stato centrale sia per la partecipazione del collettivo alla Biennale (originariamente era stato contattato lui per rappresentare i Paesi Bassi), sia per il prestito temporaneo della scultura di Balot. L’antico manufatto è stato, infatti, concesso dal museo statunitense solo quando si è saputo dell’invito di Martens all’evento. Il CATPC, da parte sua, provava da anni ad ottenerlo senza esserci mai riuscito.

Sono così felice- ha affermato Martens quando ha saputo del prestito- che siamo riusciti a creare, anche se su scala piccola, e ancora simbolica, condizioni di parità tra i musei e le comunità nelle piantagioni che hanno finanziato la costruzione dei musei . Ora che VMFA ha deciso di entrare in un dialogo costruttivo con CATPC, questa scultura, e l'arte in generale, possono svolgere pienamente il suo ruolo nella vita. Non potrei essere più compiaciuto."

Va detto che la scultura di Balot, comprata negli anni ’70 per 700 dollari dallo studioso americano, Herbert Weiss, è stata in seguito legalmente acquisita dal Virginia Museum of Fine Arts. I costi del prestito temporaneo, però, sono sostenuti dal Mondrian Fund (la fondazione olandese che finanzia la partecipazione dei Paesi Bassi alla Biennale). E non devono essere nemmeno particolarmente bassi visto che un curatore del museo statunitense ha accompagnato l’oggetto durante il viaggio verso l‘Africa e ne ha supervisionato l’installazione.

L’opera è attualmente esposta nella galleria White Cube di Lusanga in Congo (fino al 24 novembre quando gli americani se la riporteranno a casa). Martens in un’intervista ha detto che questa distanza della scultura dai visitatori dei Giardini li mette nei panni dei congolesi prima della restituzione del manufatto. Ha anche aggiunto: "Negli ultimi 50 anni è stato disponibile solo per il pubblico occidentale. Ora è disponibile solo per le persone nella Repubblica Democratica del Congo".

Il video, in cui le immagini del ritratto ligneo raggiungeranno chi entrerà nel padiglione, è stato posizionato con la parte posteriore dello schermo rivolta al vicino padiglione belga in modo da sottolineare le responsabilità del Belgio nello sfruttamento del Congo prima della sua indipendenza.

L’esposizione, oltre a mettere in luce il problema delle sempre più numerose richieste di restituzione di opere d’arte prodotte nel sud del mondo ma conservate in Occidente, vuole rivendicare la responsabilità dei musei europei e statunitensi nello sfruttamento delle ex-colonie (secondo quest’interpretazione, il patrimonio e la crescita delle istituzioni culturali si dovrebbe all’uso di denaro guadagnato danneggiando o abusando di altri popoli).

The International Celebration of Blasphemy and The Sacred”, il Padiglione Paesi Bassi del Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise, si potrà visitare per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024 (“Stranieri Ovunque”). Cioè fino a quel 24 novembre 2024 in cui si concluderà anche la mostra della scultura di Balot nelle ex-piantagioni congolesi.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.