Biennale di Venezia| Il coloratissimo Padiglione Stati Uniti, americano e indigeno, di Jeffrey Gibson

Exterior view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Forecourt sculpture: the space in which to place me (2024). Photograph by Timothy Schenck.

Il Padiglione Stati Uniti di Jeffrey Gibson

Il Padiglione Stati Uniti “The Space in Which to Place me”di Jeffrey Gibson è sicuramente uno dei migliori della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia 2024. E basta passarci davanti casualmente per accorgersene: l’edificio palladiano è stato ridipinto con una vernice lucida in un tono di rosso scintillante, ai lati del piazzale (anche lui tinteggiato di rosso) otto bandiere (un simbolo su cui Gibson si è soffermato spesso perché ha a che fare con l’identità e l’appartenenza), multicolori, come i murali su cui si stagliano. In cima alle facciate, due frasi realizzate con i caratteri inventati dall’artista, che si guardano e completano vicendevolmente (sulla sinistra il titolo della mostra, mentre sulla destra l’esordio della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, "Riteniamo che queste verità siano evidenti”).

C’è anche una scultura fatta di piedistalli di varie altezze e dimensioni accostati tra loro, su cui il pubblico può arrampicarsi per farsi fotografare o riposare un momento. L’opera è rossa a propria volta e ha lo stesso titolo della mostra. "Ho iniziato a pensare al padiglione come a una macchina in cui le persone entrano ed escono cambiate" ha detto, Abigail Winograd, la curatrice indipendente che insieme a Kathleen Ash-Milby (curatrice per l'arte dei nativi americani presso il Portland Art Museum) ha presieduto al progetto.

Ash-Milby, di origine Navajo, è la prima curatrice nativo americana del Padiglione Stati Uniti. Il titolo inoltre fa riferimento a una poesia di Layli Long Soldier, poetessa Oglala Lakota. Ma soprattutto il protagonista, Jeffrey Gibson, con sangue Choctaw e Cherokee, è il primo artista indigeno a rappresentare gli USA da solista in oltre novant’anni di storia del palazzo creato agli inizi del secolo scorso dagli architetti William Adams Delano e Chester Holmes Aldrich. Negli anni ci sono state mostre collaterali certo, e nel 1932, nell'ambito di una collettiva dedicata ai pittori dell'ovest americano, vennero presentati diversi artisti nativi (per lo più rimasti senza nome, insieme a dipinti di: i Ma Pe Wi, Oqwa Pi, Tonita Peña, Awa Tsireh, Julian Martinez, Tse Ye Mu, Otis Polelonema e Fred Kabotie). Anche se il riconoscimento più importante ad un’artista nativo, fino a quest’anno, era venuto dalla Biennale stessa, che nel 2019 aveva assegnato il Leone d’oro alla Carriera a Jimmie Durham (nato Cherokee ha vissuto parecchi anni a Napoli).

Il lavoro di Jeffrey Gibson, del resto, insieme ad assonanze chiare all’opera di Suor Corita Kent (artista pop statunitense, attiva nel movimento per i diritti civili, scomparsa nell’86, che quest’anno torna in Biennale nel Padiglione Santa Sede), risuona della ricerca visionaria e costante di Durham (quest’ultimo, da parte sua, gli aveva riservato parole di stima). Nell’alfabeto difficilmente leggibile di Gibson, fatto di rette ma soprattutto figure geometriche coloratissime, poi, si potrebbero anche rivedere gli arazzi di Alighiero Boetti. Del resto la sua opera cerca proprio di trovare un punto di convergenza tra l’arte tradizionale del suo popolo e quella della contemporaneità. Come se la prima si fosse sviluppata parallelamente alla seconda. In un’intervista rilasciata qualche anno fa ha spiegato: “Colleziono oggetti (indigeni ndr) della prima metà del XX secolo (…). Questo è il momento in cui modelli, colori e influenze globali iniziano a manifestarsi, e questo mi aiuta a costruire un ponte tra l'immagine storicizzata dei nativi e chi so che siamo oggi”.

Ne viene fuori una festa di colori: vivaci, gioiosi, intensi, a tratti psichedelici. Ci sono i toni cangianti degli intricati e stratificati ricami di perline che vibrano ricoprendo sculture e abiti, i coni argentei delle danze powwow, poi, fibbie, borse e altri oggetti indigeni d’epoca che l’artista ha scovato nei mercatini (una curiosità: li ha acquistati come oggetti fatti da autori ignoti ma li ha inseriti nei lavori in modo da poterli estrarre e replicare se qualcuno ne rivendicasse la paternità). E la pittura naturalmente (lui ha sempre dichiarato di considerarsi prima di tutto un pittore), che in alcune opere raggiunge picchi da oltre 150 diverse sfumature di colore, per di più spesso affidati a laboriose composizioni di fettucce intrecciate.

Ma Gibson dissemina anche di citazioni praticamente ogni sua opera, le fonti vanno dai proverbi Dakota alle canzoni di Nina Simone, fino brani di documenti legislativi e discorsi di leader carismatici.

La musica e la moda, infatti, sono due punti di riferimento importanti per Gibson, anche se a Venezia ha privilegiato brani di vari documenti fondanti della più importante democrazia del pianeta. C’è, per esempio, l’Indian Citizenship Act del 1924 (una legge che concede i diritti fondamentali alle popolazioni indigene), e il Civil Rights Act del 1866 (la prima legge federale che definisce la cittadinanza e rivendica l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge). Ed è proprio per un brano di una lettera d’epoca, in cui un Commissario per gli affari indiani metteva in guardia un sovrintendente californiano sull’importanza di far tagliare i capelli ai maschi nativi, che tutte le sculture in mostra hanno fluenti e lunghe chiome.

Non si può quindi negare che l’opera di Gibson abbia una chiave di lettura politica (risolta tuttavia con grazia ed equilibrio) ma ce ne sono anche altre. I sacchi da box ricamati, per esempio, sono frutto degli allenamenti a cui si era sottoposto su consiglio del suo terapista per elaborare la rabbia (in laguna ce n’è esposto uno stupendo, con fitte frange multicolore che arrivano fino a terra e gli conferiscono un’aria regale).

D’altra parte, figlio di un ingegnere civile che lavorava per il Dipartimento della Difesa, Jeffrey Gibson, è un nativo fuori dagli stereotipi. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza viaggiando per gli Stati Uniti ma anche in Germania e Corea, dopo si è laureato alla School of the Art Institute of Chicago per poi ripartire verso il Royal College of Art di Londra (dove ha conseguito un master sponsorizzato dalla sua comunità, la Mississippi Band of Choctaw Indians). Gay, Gibson, incontrò proprio lì quello che sarebbe diventato suo marito (l’artista norvegese Rune Olsen, con cui ha due figli).

La sua carriera non è sempre stata in salita (ha raccontato che, una volta, per lo scoramento, gli è capitato di buttare tutte le sue opere in lavatrice e avviare la macchina). Adesso però ha un gande studio a Georgetown (NY) in una ex-scuola ristrutturata, con un team composto da 15 assistenti (per preparare l’appuntamento in laguna sono saliti a 20). Ha fatto mostre importanti e il suo stesso Padiglione Stati Uniti è presentato dal Portland Art Museum (Oregon) e dal SITE Santa Fe (New Mexico).

Riguardo la propria appartenenza ha detto: “Beh, sono americano. Ho vissuto in molti altri paesi dove quell'identità sostituisce la mia identità di nativo americano nella percezione locale. (...) So cosa vuol dire essere un indigeno negli Stati Uniti, ma come americano, so anche cosa vuol dire essere uno straniero in altri paesi. (…) L’esperienza di essere straniero è stata positiva per me. C'è un'umiltà che deriva dall'essere in un ambiente in cui non posso andare avanti con assoluta fiducia, dove devo ascoltare e prestare molta attenzione, dove non ho il comando e non posso condurre le conversazioni. È il momento di fare un passo indietro, il che è salutare per me, e direi anche che è salutare per la maggior parte delle persone”.

In mostrs ci sono sculture, dipinti e murali. In conclusione anche un video che omaggia il matriarcato indigeno e il potere curativo dell’arte attraverso una irrefrenabile Jingle Dance (un ballo eseguito dalle donne durante i powwow per invocare gli antenati) il ritmo martellante su cui si muovono le ballerine è quello di The Halluci Nation (un gruppo musicale delle Prime Nazioni).

 “The Space in Which to Place me”, il Padiglione Stati Uniti di Jeffrey Gibson è ai Giardini e si potrà visitare per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024Stranieri Ovunque- Foreigners Everywhere” (fino al 24 novembre).

Exterior view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Forecourt sculpture: the space in which to place me (2024).Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. From left to right: IF NOT NOW THEN WHEN (2024); The Enforcer (2024); WE WANT TO BE FREE (2024) Mural: WE ARE MADE BY HISTORY (2024) Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. From left to right: The Enforcer (2024); WE WANT TO BE FREE (2024); Mural: WE ARE MADE BY HISTORY (2024) Photograph by Timothy Schenck.

The Space in Which to Place me, Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, Installation view. Photo: © artbooms.com

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Birds from left to right: we are the witnesses (2024); if there is no struggle there is no progress (2024). Wall works from left to right: BIRDS FLYING HIGH YOU KNOW HOW I FEEL (2024); IF YOU WANT TO LIFT YOURSELF UP LIFT UP SOMEONE ELSE (2024). Photograph by Timothy Schenck

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Wall works from left to right: GIVE MY LIFE SOMETHING EXTRA (2024); THE RIGHT OF THE PEOPLE PEACEABLY TO ASSEMBLE, 2024. Birds from left to right: if there is no struggle there is no progress (2024); we are the witnesses (2024). Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024.  Center: WE HOLD THESE TRUTHS TO BE SELF-EVIDENT (2024) Photograph by Timothy Schenck.

The Space in Which to Place me, Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, Installation view. Photo: © artbooms.com

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Wall works from left to right: WE WILL BE KNOWN FOREVER BY THE TRACKS WE LEAVE (2024); THE RETURNED MALE STUDENT FAR TOO FREQUENTLY GOES BACK TO THE RESERVATION AND FALLS INTO THE OLD CUSTOM OF LETTING HIS HAIR GROW LONG (2024); LIBERTY WHEN IT BEGINS TO TAKE ROOT IS A PLANT OF RAPID GROWTH (2024); THE GREAT SPIRIT IS IN ALL THINGS (2024). Bust: I’M A NATURAL MAN (2024). Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. From left to right: She Never Dances Alone (2020); WHEREAS IT IS ESSENTIAL TO JUST GOVERNMENT WE RECOGNIZE THE EQUALITY OF ALL PEOPLE BEFORE THE LAW (2024). Photograph by Timothy Schenck

Exterior view of gallery one of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Photograph by Timothy Schenck.

(L-R) Louis Grachos, Jeffrey Gibson, Kathleen Ash-Milby, and Abigail Winograd. Photo by Cara Romero.

Biennale di Venezia| Tra sculture di cacao e decolonizzazione il Padiglione Paesi Bassi del collettivo CATPC riabbracccia lo spirito furibondo di un funzionario belga

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

Pervaso da una vibrante energia e profumato di cacao misto ad olio di palma, “The International Celebration of Blasphemy and The Sacred, il Padiglione Paesi Bassi del collettivo congolese Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (CATPC) è quanto di più radicale (e da un certo punto di vista, contemporaneo) si possa incontrare nella 60esima Esposizione Internazionale d’Arte. Simile (in versione molto ridotta) a Documenta 2022. Al centro del progetto c’è la restituzione temporanea da parte del Virginia Museum of Fine Arts di un’antica scultura, che rappresenta lo spirito arrabbiato di un funzionario belga decapitato in Congo durante la rivolta dei Pende negli anni ’30.

Anche se l’opera, i visitatori della Biennale di Venezia, potranno osservarla soltanto in streaming (è esposta nella sede del collettivo a Lusanga in Congo), si tratta di un’importante vittoria per il gruppo di artisti africani che da anni insisteva per riaverla.

Pur se il pubblico del padiglione non si troverà di fronte la figuretta lignea con gli occhi sporgenti e le sopracciglia arcuate in cui la popolazione locale credeva di aver intrappolato lo spirito furibondo di Maximilien Balot, avra’ a disposizione un buon numero di sculture da guardare. Opere create dal CATPC per l’appuntamento veneziano, che effigiano spiriti maligni e scene di lotta, fatte con materiali che possono sembrare bizzarri ed esotici ad un occidentale (zucchero, cacao, olio di palma ecc.) ma che per gli artisti congolesi sono decisamente a chilometro zero. Originariamente modellate nella terra prelevata “dagli ultimi lembi di foresta rimasti a circondare la piantagione” (il collettivo ha sede nei terreni un tempo appartenuta alla multinazionale Unilever che conta tra i propri marchi anche Knorr e altri che troviamo quotidianamente negli scaffali del supermercato), sono state poi colate nelle materie prime provenienti dalla terra del collettivo.

Le opere si basano sugli eventi che segnarono la rivolta del popolo Pende contro il dominio coloniale belga nel 1931 (ci fu uno stupro e la gente si ribellò violentemente; Balot, che prima reclutava con la forza persone dei villaggi per lavorare nei campi di canna da zucchero, venne decapitato e smembrato; i belgi reagirono con brutalità). Le sculture, per quanto evochino un massacro sono fantasiose, solide ed armoniose nei volumi, realizzate con cura e risultano piacevoli da guardare, non stupisce, quindi, che il CATPC le abbia messe in vendita. Questa operazione commerciale, di norma severamente vietata alla Biennale, è stata autorizzata perché permetterà agli artisti del collettivo di ricomprare terreni usati per la monocultura e di riconvertirli in progetti agricoli sostenibili.

I proventi- ha detto, Matthieu Kasima, uno degli artisti del collettivo- serviranno a finanziare il riacquisto di terreni un tempo ricoperti dalla foresta vergine e confiscati dai colonizzatori europei per far spazio a piantagioni su larga scala, principalmente zucchero, cacao e palme da olio. Una foresta sacra, necessaria non solo al sostentamento delle tribù indigene limitrofe ma anche allo svolgimento della loro vita spirituale”.

Il Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise è attualmente composto da una ventina di persone, alla formazione artistica dei membri (quando il collettivo fu fondato sono stati istruiti da professionisti) oltre che al loro mettersi insieme come gruppo, ha concorso l’artista olandese, Renzo Martens, che nel tempo ha continuato a collaborare con loro. Martens, che a Venezia compare come curatore insieme al critico Hicham Khalidi (anche lui olandese ma di origine marocchina) è stato centrale sia per la partecipazione del collettivo alla Biennale (originariamente era stato contattato lui per rappresentare i Paesi Bassi), sia per il prestito temporaneo della scultura di Balot. L’antico manufatto è stato, infatti, concesso dal museo statunitense solo quando si è saputo dell’invito di Martens all’evento. Il CATPC, da parte sua, provava da anni ad ottenerlo senza esserci mai riuscito.

Sono così felice- ha affermato Martens quando ha saputo del prestito- che siamo riusciti a creare, anche se su scala piccola, e ancora simbolica, condizioni di parità tra i musei e le comunità nelle piantagioni che hanno finanziato la costruzione dei musei . Ora che VMFA ha deciso di entrare in un dialogo costruttivo con CATPC, questa scultura, e l'arte in generale, possono svolgere pienamente il suo ruolo nella vita. Non potrei essere più compiaciuto."

Va detto che la scultura di Balot, comprata negli anni ’70 per 700 dollari dallo studioso americano, Herbert Weiss, è stata in seguito legalmente acquisita dal Virginia Museum of Fine Arts. I costi del prestito temporaneo, però, sono sostenuti dal Mondrian Fund (la fondazione olandese che finanzia la partecipazione dei Paesi Bassi alla Biennale). E non devono essere nemmeno particolarmente bassi visto che un curatore del museo statunitense ha accompagnato l’oggetto durante il viaggio verso l‘Africa e ne ha supervisionato l’installazione.

L’opera è attualmente esposta nella galleria White Cube di Lusanga in Congo (fino al 24 novembre quando gli americani se la riporteranno a casa). Martens in un’intervista ha detto che questa distanza della scultura dai visitatori dei Giardini li mette nei panni dei congolesi prima della restituzione del manufatto. Ha anche aggiunto: "Negli ultimi 50 anni è stato disponibile solo per il pubblico occidentale. Ora è disponibile solo per le persone nella Repubblica Democratica del Congo".

Il video, in cui le immagini del ritratto ligneo raggiungeranno chi entrerà nel padiglione, è stato posizionato con la parte posteriore dello schermo rivolta al vicino padiglione belga in modo da sottolineare le responsabilità del Belgio nello sfruttamento del Congo prima della sua indipendenza.

L’esposizione, oltre a mettere in luce il problema delle sempre più numerose richieste di restituzione di opere d’arte prodotte nel sud del mondo ma conservate in Occidente, vuole rivendicare la responsabilità dei musei europei e statunitensi nello sfruttamento delle ex-colonie (secondo quest’interpretazione, il patrimonio e la crescita delle istituzioni culturali si dovrebbe all’uso di denaro guadagnato danneggiando o abusando di altri popoli).

The International Celebration of Blasphemy and The Sacred”, il Padiglione Paesi Bassi del Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise, si potrà visitare per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024 (“Stranieri Ovunque”). Cioè fino a quel 24 novembre 2024 in cui si concluderà anche la mostra della scultura di Balot nelle ex-piantagioni congolesi.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, CATPC, Renzo Martens, Hicham Khalidi, 2024. Photo by Peter Tijhuis.

Biennale di Venezia| "Repeat After Me" il sorprendente Padiglione Polonia di Open Group

Repeat after Me II, installation view, Polish Pavilion, Biennale Arte 2024, photo by Jacopo Salvi / Zacheta archive

Il Padiglione Polacco con la mostra “Repeat After Me II” del collettivo ucraino Open Group è una delle sorprese della Biennale d’Arte di Venezia 2024. Un progetto fresco e coinvolgente a cui il pubblico è chiamato a contribuire ma che funziona anche se le persone non fossero dell’umore per farlo. Open Group, infatti, ha scelto di parlare di guerra, di armi letali e dei loro effetti sui sopravvissuti attraverso il… karaoke.

Fondato nel 2012 a Leopoli da sei membri, il collettivo Open Group, oggi ne conta tre soltanto (Pavlo Kovach, Yuriy Biley e Anton Varga) tutti nati verso a fine degli anni ’80 (rispettivamente nel: ’87, ’88 e ’89) e interessati a spingere le persone a partecipare attraverso opere simili a “situazioni aperte”. Anche “Repeat After Me II”, nasce da questo presupposto, visto che è a tutti gli effetti costruita come un karaoke. Composto da due video, delle sedute e dei microfoni, è un padiglione semplice, dove l’oscurità ricorda una sala cinematografica, mentre la luce rossa che illumina gli amplificatori richiama alla mente i locali notturni dell’Europa centrale (da noi no, ma in Germania, ad esempio, le discoteche e i pub ne fanno largo uso).

I video (sostanzialmente identici, non fosse per il mutare dei volti ripresi) sono stati creati nel 2022 e nel 2024 e hanno per protagonisti dei veri rifugiati ucraini. Il primo è stato girato in un campo di reinserimento (situato nei pressi di Leopoli) nel Paese dell’Est Europa, mentre il secondo in Occidente (Stati Uniti e Europa occidentale).

La giustapposizione di queste opere del 2022 e del 2024 - hanno scritto gli organizzatori- mostra la drastica continuità della memoria, così come i cambiamenti nella tecnologia bellica”.

Il girato, infatti, parte dal nome di un’arma o comunque di un elemento sonoro cha caratterizza la guerra (ad esempio, l’allarme anti-aereo), riprodotto insieme a una stringata descrizione in bianco su schermo nero. Poi compare uno dei rifugiati (in primo piano frontale) che cerca di imitarne con la voce il rumore e, infine, invita il pubblico a ripeterlo insieme a lui.

Dopo i testimoni il pubblico può ripetere i suoni delle armi, imparando così la lingua delle loro esperienze, o tornando nello spazio sicuro progettato per assomigliare a un bar karaoke. Eppure questo non è un bar qualunque è un sito di istruzioni karaoke per un futuro militare che minaccia tutti noi”.

Tuttavia, dato che i suoni della guerra contemporanea non hanno niente a che vedere con la voce umana, i rifugiati emettono dei buffi vocalizzi, con espressione per lo più rilassata (come se stessero spiegando con partecipazione e leggerezza qualcosa a un bambino). Il risultato è un apparente misto di quotidianità e umorismo, capace di strappare un sorriso o persino una risata al pubblico. Finchè quest’ultimo non si accorge di essere diventato parte di una realtà capovolta che è quella dei conflitti armati.

Poche settimane prima dell’invasione russa dell’Ucraina, il Centro per le comunicazioni strategiche e le informazioni sulla sicurezza del Ministero della Cultura e della Politica dell’Informazione iniziò a distribuire opuscoli intitolati ‘In Caso di Emergenza o Guerra’, che spiegavano come comportarsi in una zona di guerra. Le istruzioni variavano a seconda che l'attacco in questione fosse un fuoco di fucile automatico, un bombardamento di artiglieria, un lanciarazzi o un raid aereo. La capacità di raccontare questi diversi scenari può salvarti la vita”.

Repeat after me” il Padiglione Polonia del collettivo ucraino Open Group, curato dal critico polacco Marta Czyÿ, si potrà visitare per tutta la durata della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte (“Stranieri Ovunque- Foreigners Everywere”, fino al 24 novembre 2024) ai Giardini della Biennale di Venezia.

Open Group — Yuriy Biley, Pavlo Kovach, Anton Varga, Repeat after Me, 2022, video, © Open Group

Repeat after Me II, installation view, Polish Pavilion, Biennale Arte 2024, photo by Jacopo Salvi / Zacheta archive

Open Group — Yuriy Biley, Pavlo Kovach, Anton Varga, Repeat after Me, 2024, video, © Open Group

Repeat after Me II, installation view, Polish Pavilion, Biennale Arte 2024, photo by Jacopo Salvi / Zacheta archive

Repeat after Me II, installation view, Polish Pavilion, Biennale Arte 2024, photo by Jacopo Salvi / Zacheta archive

Open Group — Yuriy Biley, Pavlo Kovach, Anton Varga, Repeat after Me, 2022, video, © Open Group

Marta Czyż and Оpen Group — Yuriy Biley, Pavlo Kovach, Anton Varga, 2024, photo by Piotr Czyż/Zacheta archive