Le storie postcoloniali di Mohamed Bourouissa che passano per un giardino di mimose rap al Palais de Tokyo

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Quando nel 2005, Mohamed Bourouissa, si è imposto nel panorama internazionale con la serie fotografica “Périphérique” in cui ambientava nelle banlieue parigine contemporanee scene iconiche della pittura storica francese (più spesso quella di Delacroix), nessuno immaginava che nel tempo il suo lavoro si sarebbe fatto così ramificato. Sempre in bilico tra il trauma e la cura, Bourouissa, attualmente protagonista dell’importante retrospettiva “Signal” al Palais de Tokyo di Parigi, parla di razzismo, migrazioni, confinamento e postcolonialismo, con uno spirito errante e, tutto sommato, più attento alle dinamiche interiori che a quelle sociali e politiche.

Non che a Bourouissa, nato nel ’78 a Blida (nel nord dell’Algeria) ed emigrato in Francia insieme alla madre quando aveva appena cinque anni, queste ultime non interessino. Lui nelle banlieue c’è cresciuto. Ma non è un uomo superficiale, gli piace guardare le cose da più punti di vista, come si evince dalla sua opera che si dirama in direzioni sempre diverse (senza perdere mai il centro però). E poi i sentimenti raggiungono più in fretta il nocciolo della questione, e nell’artista franco-algerino c’è anche un lato pratico, che vuole catturare lo spettatore subito, senza tergiversare.

E di certo ci riesce con “Brutal Family Roots”. Realizzata nel 2020 per la Biennale di Sidney e riproposta anche quest’anno a Parigi, un’opera che in genere presenta su un pavimento giallo dorato come i fiori della mimosa che ne è l’elemento ispiratore e il vero e proprio soggetto. Bourouissa, infatti, quando ha pensato questa installazione era appena venuto a sapere che la pianta, il cui profumo e aspetto gli richiamava alla mente lontani frammenti della sua infanzia mediorientale, era in realtà originaria dell’Australia dove gli indigeni Wiradjuri la chiamano garal. Lui che ha un debole per le piante e le storie della loro diffusione ci ha visto la prova lampante degli equilibri frantumati dal colonialismo. Tempo fa ha detto: “(…) vediamo le piante come oggetti piuttosto che come soggetti, ‘Brutal Family Roots’, esamina il modo in cui dividiamo in categorie esseri umani, piante e animali”. Così ha trovato il modo per dare voce alle mimose sdradicate dalla loro terra natia su navi inadatte a trasportarle: ha messo in musica le frequenze che emettono. Anche il rap si è spostato per il mondo, spesso mettendo radici in comunità disagiate. “Brutal Family Roots” unisce queste due storie in un mix composto dalle melodie emesse dalle piante e i testi dei rapper che parlano di vento e acqua.

Nello stesso anno, Bourouissa, si è inventato anche un’opera esclusivamente sonora: “HARa!!!!!!hAaaRAAAAA!!!!!hHAaA!!!” Uno strano grido che si ispira al termine ‘hara’ usato a Marsiglia per avvisare gli spacciatori dell’arrivo della polizia. L’opera l’ha spiegata così: “È una forma di segnale, come un allarme. Senza il contesto può significare qualcos'altro: per me questo lo rende più simile all'Urlo di Edvard Munch, ad esempio, o al primo pianto di un bambino, o al segnale di allarme quando qualcuno tenta di entrare in casa tua. È qualcosa di molto semplice, qualcosa di forte.”

Anni prima, invece, l’artista era stato in Algeria dove aveva avuto modo di conoscere, Bourlem Mohamed, paziente psichiatrico dell’ospedale di Blida del medico e filosofo politico radicale, Franz Fanon (scomparso nel ’61, tra le altre cose si interessò di psicopatologia della colonizzazione e sostenne la lotta per l’indipendenza dell’Algeria). Bourlem si occupava di un giardino che aveva creato da solo e che, secondo Bourouissa, era una proiezione della sua mente. L’artista con Bourlem Mohamed ha fatto un film (“The Whispering of Ghosts”) e ispirandosi a quanto appreso da quest’ultimo, in molte sue mostre costruisce un giardino (ce n’è uno anche a Parigi).

Ma Mohamed Bourouissa è anche scultore (per esempio, ha ideato una serie che ritrae solo il tocco di un corpo da parte di una mano, facendo riferimento alle dinamiche dell’arresto e della prevaricazione), acquarellista (dipinge carte coloratissime e crede siano un modo per esprimere pensieri inconsci), oltre che esperto fotografo e regista (anche teatrale).

Un’altra sua opera che non si può non citare è il progetto “Horse Day”. Quando è rimasto un anno a Filadelfia, per far emergere e raccontare le antiche radici della cultura ippica di una comunità afroamericana del luogo.

Tutti questi lavori sono parte di “Signal”, mostra pensata non in modo cronologico, ma come un paesaggio da attraversare.

La retrospettiva di Mohamed Bourouissa rimarrà al Palais de Tokyo di Parigi fino al 30 giugno 2024.

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Vue d'exposition, Mohamed Bourouissa, SIGNAL, Palais de Tokyo, 16.02.2024 - 30.06.2024. Crédit photo Aurélien Mole. © ADAGP, Paris,2024

Tra poco aprirà la Summer Exhibition della Royal Accademy mentre in UK ci si chiede se sia un abitudine da proteggere o da abolire

“The Meddling Fiend” (2024). Installation view at the Royal Academy of Arts, London. Photos by Maxwell Attenborough. All images © Nicola Turner

Fondata nel 1768, la Royal Accademy of Arts di Londra, dall’anno successivo, tutte le estati, organizza una collettiva un po’ particolare. Si tratta della mostra di arte contemporanea più longeva del mondo, e vi hanno esposto maestri intramontabili dell’arte britannica come Turner e Constable ma anche, in tempi più recenti, star come Tracey Emin (che nel 2025 sarà in Italia per un’attesa personale a Palazzo Strozzi di Firenze). Però è un evento aperto ai non professionisti, che vengono selezionati da un comitato di artisti già membri dell’accademia reale e dal presidente della Royal Accademy in persona. Si intitola “Summer Exhibition” e sta per essere inaugurata anche quest’anno. Tuttavia, secondo le opinioni dei commentatori, avrebbe perso tutto l’antico smalto.

Un parere condiviso dal critico d’arte britannico, Jonathan Jones, che in una bella e accalorata recensione apparsa su The Guardian ha scritto: “Solo perché la Royal Academy Summer Exhibition è in corso dal 1769 non significa che debba continuare per sempre (...) Io voto contro”.

La “Summer Exhibition” si svolge a Burlington House, nel centralissimo quartiere di Piccadilly, si tratta di un’esposizione incredibilmente estesa e in cui la maggior parte dei lavori presentati è in vendita. Tanto che il sito della Royal Accademy ha scritto: “(…) con un numero di opere disponibili per meno di £ 250, rendendo questa l'occasione perfetta per iniziare la tua collezione d'arte. Le vendite della Summer Exhibition sostengono gli artisti espositori e il lavoro di beneficenza della RA, inclusa la formazione della prossima generazione di artisti nelle scuole della Royal Academy.” Chiunque voglia essere preso in considerazione può mandare la sua candidatura per un massimo di due opere (fino a poco tempo fa per ognuna di queste si pagavano 40 sterline ma dato il numero esorbitante delle richieste la cifra è da poco aumentata). Sia come sia, ogni anno vengono scleti almeno un migliaio di pezzi (in genere artigianali, anche se nulla vieta che nel numero si nasconda qualche perla grezza), cui si aggiungono quelli degli artisti del comitato di selezione e di qualche altro nome noto.

Quest’anno in tutto si tratta di ben mille e duecento lavori. La coordinatrice è la scultrice britannica Ann Christopher (nata nel ’47, famosa per le forme semplici e misteriose cui arriva prendendo spunto da varie fonti come quelle architettoniche, naturali o paesaggistiche) che ha detto di essersi ispirata all’idea di creare spazio: “Ho intenzione di esplorare l'idea di creare spazio, sia dando spazio che prendendo spazio. Questo può essere interpretato in vari modi: fare spazio può significare apertura – fare spazio a qualcosa o qualcuno, fare spazio anche tra le cose. Sono convinta che gli spazi intermedi siano importanti quanto qualunque cosa quegli spazi separino”. Sarà, ma in mostra però, almeno a giudicare dalle fotografie, di spazio pare restarne proprio pochino (la quantità di cose esposte dà l’impressione di farsi sentire, anche se l’installazione, di gusto molto british, sembra equilibrata e gradevole).

Insieme a lei sono stati invitati altri artisti conosciuti come: Ackroyd & Harvey, Vivien Blackett, Diana Copperwhite, Andrew Pierre Hart, Permindar Kaur, Radhika Khimji, Kathy Prendergast, Rachel Whiteread e Charmaine Watkiss. Sono inoltre esposte opere di Ron Arad, Frank Bowling, Michael Craig-Martin, Conrad Shawcross, Clare Woods e Rose Wylie. C’è anche un lavoro di Anselm Kiefer (ancora per poco protagonista di una mostra imperdibile, sempre a Palazzo Strozzi) che Jonathan Jones ha commentato così: “La colossale xilografia di girasoli con centri neri di Anselm Kiefer, fiori da incubo incisi profondamente nella carta, penetra nella tua immaginazione come fantasmi su un campo di battaglia che spuntano dalle ossa dei soldati morti. Eppure è ridicolo appenderlo accanto a una serie di piccole composizioni floreali di natura morta. Questo splendore tedesco circondato dalla vacuità britannica nelle mostre delle Fawlty Towers (sitcom made in England ndr) ti fa chiedere: come abbiamo vinto la guerra?

Del resto Kiefer (come diversi altri famosi artisti tra cui di nuovo un gigante come David Hockney) proprio durante la Summer Exhibition della RA è stato premiato con il Charles Wollaston Award. Infatti, nel corso dell’esposizione vengono assegnate circa 70 mila sterile di premi in denaro tra cui il Charles Wollaston Award (25mila) e uno conferito per l’architettura (10mila).

L’architettura in genere ha uno spazio importante nella mostra. Anche quest’anno è così, e a coordinare questo settore è stato chiamato il collettivo inglese Assemble, in passato vincitore del prestigioso Turner Price (sempre molto britannico-centrico ma di importanza internazionale) e accademico reale. Poi altri architetti tra cui Elsie Owusu e Nigel Coates, lo studio creativo e Structure Workshop e ancora il collettivo artistico, Cooking Sections. Per il resto progetti artigiani e prototipi di ogni genere. I membri di Assemble hanno dichiarato: “Abbiamo accolto con favore proposte che si concentrano e riflettono sul fare come processo, opere incompiute, campioni di materiali, prototipi industriali, modelli funzionanti, manufatti di spazi di lavoro ed elementi agricoli. Creare spazio è un processo complesso, sfaccettato e collaborativo abbiamo fortemente incoraggiato collettivi, individui o organizzazioni al di fuori del mondo dell’architettura e dell’arte a contribuire”.

Nel cortile della Royal Accademy, infine, è stata invitata la scultrice inglese, Nicola Turner, per creare un’opera capace di dialogare in maniera diretta con il ritratto bronzeo del pittore, fondatore e primo presidente dell’istituzione, Sir Joshua Reynolds (la statua firmata da Alfred Drury, fu installata nel 1931). Turner con un importante passato come scenografa (ha lavorato nei teatri più importanti del mondo dalla Royal Opera House all’Opera di San Francisco) in genere usa oggetti trovati ma soprattutto materiali organici di recupero, come crine di cavallo e lana vergine prelevata così com’era dopo la tosatura, per dar vita a forme tentacolari, scure ed imbottite. Lo ha fatto anche alla RA, dove adesso si trova: “The Meddling Fiend”. L’opera si arrampica e si annoda intorno al piedistallo di Reynolds per poi espandersi ed allungarsi da dietro il pittore fino a congiungersi al suo pennello (è stato rappresentato così, intento a dipingere). La scena che ne esce è in bilico tra l’incontro alieno e l’immaginazione di Reynolds che prende vita. Del resto le creature di Turner sono sempre ambivalenti, scure e prive di testa come sono, a volte fanno pensare a ragni, altre ad ammassi di enormi lumache senza guscio, altre ancora a polipi dall’aria poco simpatica, ma soprattutto a forme di vita extraterrestri. Non si capisce mai se i loro approcci al paesaggio, piuttosto che alla statua di Reynolds, come in questo caso, siano amichevoli o aggressivi. In genere suscitano inquietudine e curiosità nello spettatore. Sul suo sito internet c’è scritto: “Turner indaga la dissoluzione dei confini, gli stati liminali e gli scambi continui tra gli ecosistemi. Nel farlo, esplora l'interconnessione tra vita e morte, umano e non umano, attrazione e repulsione. Combina oggetti trovati che contengono tracce di memoria, con le forme di forme viventi e materiali di materia organica ‘morta’ come il crine di cavallo, un materiale usato in precedenza per la biancheria da letto e l'arredamento e, in tal senso, vivo di storia e memoria”. Tuttavia “The Meddling Fiend”, con al posto dei piedi le gambe lingnee a rotelle di mobili d’epoca, ha un ché di goffo e insicuro nella postura che ispira un certo grado di fiducia (che però le varie circonvoluzioni dei tentacoli vanificano).

La “Summer Exhibition 2024” della la Royal Accademy of Arts di Londra aprirà al pubblico il prossimo 18 giugno, mentre la chiusura è fissata per il 18 agosto. Chi la visiterà potrà vedere opere di vario genere a firma di alcuni accademici reali e tanti sconosciuti, per farsi un’idea se davvero sia una consuetudine inglese da abolire o una bizzarra anomalia da salvaguardare. Mentre nel cortile ad accogliere il pubblico, oltre alla statua di Sir Reynolds, troverà gli enormi tentacoli imbottiti di “The Meddling Fiend” di Nicola Turner.

“The Meddling Fiend” (2024). Installation view at the Royal Academy of Arts, London. Photos by Maxwell Attenborough. All images © Nicola Turner

“The Meddling Fiend” (2024). Installation view at the Royal Academy of Arts, London. Photos by Maxwell Attenborough. All images © Nicola Turner

I clan di sculture in spazzatura di Leilah Babirye in Biennale e allo Yorkshire Sculpture Park

Leilah Babirye, Obumu Unity, Iinstallation view at Yorkshire Sculpture Park 2024. Courtesy the artist andStephen Friedman Gallery.Photo: Jonty Wilde Courtesy YSP

L’artista di origine ugandese Leilah Babirye crea sculture con ceramica, legno, oggetti trovati, come ruote di biciclette, copertoni e tutto ciò che si può scovare tra i rifiuti a Brooklyn. Babirye, infatti, costretta a fuggire dal suo paese perché lesbica dichiarata, vive a New York, dove ha cominciato a scolpire meno di sei anni fa (prima dipingeva e disegnava soltanto). Adesso il suo lavoro è focalizzato sulle opere tridimensionali, ha due studi nella Grande Mela (uno a Brooklyn, e l’altro nel Queens), è tra gli artisti chiamati da Adriano Pedrosa a partecipare a “Stranieri Ovunque- Foreigners Everyere, (la Biennale di Venezia 2024) e da marzo è in mostra nella Cappella dello Yorkshire Sculpture Park (famoso parco scultoreo e sede espositiva inglese, nei pressi della cittadina di Wakefield, a circa due ore di treno da Londra).

Rigorosa nei ritmi di lavoro e abitudinaria, Babirye, ha una pratica basata sul contatto diretto con i materiali di cui si appropria e sceglie di utilizzare. Preferendo spesso strumenti che presuppongono forza e velocità nello scolpire, come la sega elettrica o la fiamma ossidrica con cui annerisce le sue opere, dopo essersi fatta guidare dal legno stesso (ne segue le venature, si ispira alla sagoma del tronco) per definirne la forma. Sia questo aspetto che l’uso di oggetti trovati fanno del caso e dell’occasionalità elementi poco appariscenti ma vitali nella scultura dell’artista ugandese-statunitense.

Lei ha spiegato così il proprio impegno: “Il mio lavoro consiste fondamentalmente nell'utilizzare la spazzatura, nel dargli nuova vita e renderla bella. È sempre influenzato da dove sono, userò tutto ciò che c'è. Ecco perché il lavoro sembra sempre diverso, perché non sono sicura di cosa troverò. Il legno con cui lavoro qui è un legno tenero, mentre a New York di solito è il pino, che è un legno più duro. Ciò conferisce alle sculture un aspetto diverso e contribuisce alle loro diverse personalità.”

Babirye, che crea anche opere in ceramica poi rivestite di smalti colorati e luminosi, attraverso le sue sculture parla della cultura del suo paese natale, di questioni coloniali ma soprattutto della comunità queer di cui fa parte e di come i diritti dei gay in Africa vegano calpestati. Babirye, infatti, nel 2018 è stata pubblicamente accusata di preferire intrattenere rapporti intimi con persone del suo stesso sesso da un giornale ugandese, ha avuto problemi all’università dove stava frequentando un master ma soprattutto la sua famiglia l’ha ripudiata. E tutto sommato avrebbe potuto andarle anche molto peggio visto che in Uganda l’omosessualità è illegale e può essere punita con la pena di morte.

Nella sua opera gli scarti (usati sia per comporre che abbellire il lavoro) sono, infatti, un riferimento al termine ‘abasiyazi’, cioè la parte della canna da zucchero da buttare, che in lingua luganda si usa per indicare una persona gay. L’artista è stata profondamente ispirata da Henry Moore e utilizza le maschere africane, che non sono tipiche della sua patria ma di un’altra parte del continente, per citare l’amore che scultori e pittore dell’Occidente di quegli anni nutrivano per questa forma espressiva africana. I titoli (a volte in qualche misura autobiografici) portano, invece, i nomi di clan ugandesi (cioè famiglie allargate di cui fanno parte i membri di una stessa comunità) a loro volta rubati ad animali e piante locali. Naturalmente nel suo linguaggio questi elementi hanno anche ulteriori significati: le maschere diventano un mezzo per esprimere le diversità delle persone queer, mentre i titoli fanno riferimento ai clan da cui le persone gay sono state cacciate.

Nata nel 1985 a Kampala dove ha frequentato la Makerere University, Leilah Babirye, ha ottenuto asilo negli Stati Uniti nel 2018, dopo aver preso parte lì ad una residenza a Fire Island. Nella Cappella dello Yorkshire Sculpture Park presenta un clan composto da sette sculture lignee più cinque in ceramica smaltata, realizzate la scorsa estate direttamente nel parco scultoreo inglese dove l’artista ha soggiornato. Il legno utilizzato proveniva da alberi morti (tra loro anche un faggio settecentesco piantato più o meno nello stesso periodo in cui venne costruita la Cappella).

La scultura senza compromessi di Leilah- ha detto la direttrice dello Yorkshire Sculpture Park, Clare Lilley- è sempre efficace. Il fatto che queste sculture siano state create presso YSP, con Leilah che sfrutta al meglio ciò che questo posto ha da offrire, è davvero speciale. Per quasi 300 anni, la nostra Cappella è stata un luogo di comunità e contemplazione, e siamo privilegiati che Leilah ne abbia fatto una casa per il suo clan di opere d'arte avvincenti. "

La mostra di Leilah Babirye allo Yorkshire Sculpture Park si intitola “Obumu (Unity)” dove continuerà fino all’8 settembre 2024, ma l’artista ugandese-statunitense quest’anno fa anche parte di Stranieri Ovunque- Foreigners Everyere”, la Biennale di Venezia di Adriano Pedrosa, dove espone alcune sculture nel giardino alle spalle del Padiglione Italia (all’Arsenale).

Leilah Babirye, Gyagenda 2023.Itallation view at Yorkshire Sculpture Park 2024. Courtesy the artist andStephen Friedman Gallery.Photo: Jonty Wilde Courtesy YSP

Leilah Babirye, Nakambugu from the Kuchu Njovu Elephant Clan 2023. .Itallation view at Yorkshire Sculpture Park 2024. Courtesy the artist andStephen Friedman Gallery.Photo: Jonty Wilde Courtesy YSP

Leilah Babirye Gunsinze  aliwa Bitono 2023. © Leilah Babirye.Courtesy the artist Stephen Friedman Gallery-London and New York and Gordon Robichaux New York. Photo© Mark Blower

Leilah Babirye Gunsinze  aliwa Bitono 2023. © Leilah Babirye.Courtesy the artist Stephen Friedman Gallery-London and New York and Gordon Robichaux New York. Photo© Mark Blower

Leilah Babirye Gunsinze  aliwa Bitono 2023 detail. © Leilah Babirye.Courtesy the artist Stephen Friedman Gallery-London and New York and Gordon Robichaux New York. Photo© Mark Blower

Leilah Babirye Gunsinze  aliwa Bitono 2023 detail. © Leilah Babirye.Courtesy the artist Stephen Friedman Gallery-London and New York and Gordon Robichaux New York. Photo© Mark Blower

Portrait of Leilah Babirye Obumu Unity 2024. Courtesy the artist and Stephen Friedman Gallery. Photo: Jonty Wilde Courtesy Yorkshire Sculpture Park