L’equilibrio instabile dell’opera di Bharti Kher (in mostra allo Yorkshire Sculpture Park)

Bharti Kher, Ancestor, 2022 (detail). Collection of the Kiran Nadar Museum of Art, Delhi. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Quando Bharti Kher teminò gli studi era indecisa se trasferirsi negli Stati Uniti o in India: lanciò una moneta e uscì l’india; lì tre mesi dopo avrebbe incontrato il suo futuro marito (l’artista indiano Subodh Gupta, da cui ha poi avuto due figli). Nata e cresciuta a Londra da una coppia di immigrati del Punjab, Kher allora (era l’inizio degli anni ’90), la patria dei suoi antenati l’aveva visitata una sola volta da bambina e in giro per le strade si faceva capire a fatica, ma andò tutto nel migliore dei modi. In quest’episodio, si può scorgere anche il segno della dualità che da sempre modella il suo lavoro. Poeticamente sospeso nell’equilibrio instabile tra fissa determinazione del pensiero e apparente imprevedibilità del fato.

Un bilanciamento che a volte richiede pronta flessibilità intellettuale. Così quando nel 2008, alla vigilia dell’inaugurazione di una mostra in un museo inglese (il Baltic Centre for Contemporary Art di Gateshead) il pezzo forte dell’esposizione, una scultura in fibra di vetro simile a un albero ("The Waq Tree") alta 5 metri è crollata, Kher l’ha lasciata a terra, senza farne parola con nessuno (qualche anno dopo raccontò che sul momento si era messa a piangere ma poi il marito l’aveva esortata a non scoraggiarsi e, di fronte all’opera ferita, si era resa conto che, in fondo, in quella nuova posizione stava anche meglio di prima).

Dalla fine di giugno l’artista anglo-indiana è protagonista di una vasta retrospettiva allo Yorkshire Sculpture Park di West Bretton in Inghilterra. Intitolata “Bharti Kher: Alchemies”, la mostra, si estende tra gli spazi espositivi interni e gli splendidi giardini del museo che celebrano la bellezza della campagna inglese in ogni stagione. Lì, tra le altre grandi opere tridimensionali, c’è anche “Ancestor” (lo scorso anno posizionata nel Central Park di New York), una donna simile a una divinità indiana, accanto alla cui testa escono quelle di 23 bambini. Descritta da Kher come "una forza femminile mitica e potente che rende omaggio alle generazioni precedenti e successive". Anche lei, però, frutto di una mediazione tra la volontà dell’artista e i capricci del destino.

L’idea della serie “Intermediaries” (di cui “Ancestor” fa parte), infatti, le venne alcuni anni fa durante una visita alla cittadina portuale di Kochi nell’India meridionale: "Ho visto tutte queste meravigliose bambole golu (statuette tradizionali della zona, spesso esposte durante le feste religiose n.d.r.)- ha detto a Vogue India- Ho chiesto a un artigiano locale di raccoglierne alcune per me, ma quando sono arrivate nel mio studio, molte erano rotte".

Bharti Kher, Virus XV, 2024. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

D’altra parte l’opera di Kher fa continuamente riferimento a trasformazione e metamorfosi (di concetti, di natura e di materiali). Cui allude anche il titolo della mostra (“Alchemies”), in cui sono esposte molte opere, realizzate appunto, in maniera ingannevole (le imponenti “Intermediaries”, per esempio, imitano delle fragili statue di terracotta ma sono in metallo, sembrano antiche ma non lo sono affatto). Mentre l’artista affronta il tema dell’identità e quello della spiritualità. Ma anche cose meno universali: “Sono una persona politica- ha spiegato in un’altra intervista- ma non reagisco alle situazioni man mano che accadono. L'arte non è un'azione impulsiva. È più simile a una combustione lenta. Ciò che facciamo quando creiamo arte è distillare e condensare. Condenso molto rumore e ricerca in un singolo momento".

L’elemento più conosciuto della sua pratica è il bindi (dal sanscrito bindu, che significa goccia, particella, punto, cioè il principio di tutto e non per niente queste decorazioni sono dette anche terzo occhio) con cui ha ricoperto l’immagine di un elefante morente a grandezza naturale (l’opera è poi diventata un record d’asta), ma anche dipinti astratti, specchi frantumati e quant’altro.

Tradizionalmente usato dalle donne indiane, il bindi un tempo ne indicava lo stato civile ma anche quello religioso ed etnico, mentre oggi viene principalmente usato come decorazione. Nell’opera di Kher è un simbolo complesso: fa riferimento all’identità privata (le donne alla sera lo tolgono) e a quella pubblica; al femminile e al maschile (spesso i suoi bindi sono a forma di serpente o spermatozoo); oltre che alla resilienza imperfetta delle tradizioni di fronte all’erosione di significato della globalizzazione (i bindi del presente sono spesso ninnoli a basso costo prodotti in ogni dove).

Ma Kher ha lavorato anche con altri oggetti-simbolo della femminilità nel subcontinente, come i bracciali di vetro e i sari. Riguardo a questi ultimi ha detto: "I sari custodiscono le storie delle nostre vite; il singolo pezzo di tessuto che indossi per tutta la vita, alla fine diventa il tuo sudario".

La serie di opere dedicate a quest’indumento si intitola “Sari Women” e, quasi sempre, rappresenta una figura femminile in scala uno a uno, di cui solo i piedi o le gambe sono visibili, mentre il resto del corpo (volto compreso) è nascosto da pile di tessuti drappeggiati (la bellezza e la violenza della negazione; l’assenza).

Allo Yorkshire Sculpture Park c’è più di una scultura di questa serie e, nonostante si tratti di lavori emotivamente disturbanti, non riescono a raggiungere il livello di vibrazione suscitata dalla semplicità funeraria di “The Deaf Room” (2001-2012) in cui l’artista ha costruito una stanza con mattoni scuri, ottenuti dalla fusione di 10 tonnellate di braccialetti di fibra di vetro usati. L’opera fa riferimento alle rivolte religiose nel Gujarat del 2002 in cui la violenza contro le donne era pratica diffusa.

In mostra pure il toccante calco in gesso di sei prostitute di New Delhi (“Six Women”, 2012-2014), restituite agli occhi del pubblico, nude, in una posa raccolta.

Del resto il genere femminile è protagonista dell’esposizione inglese di Kher che raffigura le signore in maniera molteplice e ambivalente. Il museo spiega l’argomento così: “Presenta la donna come madre, prostituta, mostro, guerriera e divinità, spesso ibridata con animali o come avatar della dea. I suoi personaggi mitologici confondono i confini tra genere umano, natura e narrazione, rivelando un potenziale espansivo e un nuovo significato”.

Bharti Kher: Alchemies” resterà allo Yorkshire Sculpture Park fino al 27 aprile 2025.

Bharti Kher, The Intermediary Family, 2018. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Bharti Kher, Alchemies, installation view at Yorkshire Sculpture Park, 2024. Courtesy the artist Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park.

Bharti Kher, Djinn, 2024. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Bharti Kher, Alchemies, installation view at Yorkshire Sculpture Park, 2024. Courtesy the artist Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park.

Bharti Kher, Six Women, 2012– 2014. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Bharti Kher, The deaf room, 2001–2012 (detail). Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Bharti Kher with Djinn, 2024. Courtesy the artist Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park.

I clan di sculture in spazzatura di Leilah Babirye in Biennale e allo Yorkshire Sculpture Park

Leilah Babirye, Obumu Unity, Iinstallation view at Yorkshire Sculpture Park 2024. Courtesy the artist andStephen Friedman Gallery.Photo: Jonty Wilde Courtesy YSP

L’artista di origine ugandese Leilah Babirye crea sculture con ceramica, legno, oggetti trovati, come ruote di biciclette, copertoni e tutto ciò che si può scovare tra i rifiuti a Brooklyn. Babirye, infatti, costretta a fuggire dal suo paese perché lesbica dichiarata, vive a New York, dove ha cominciato a scolpire meno di sei anni fa (prima dipingeva e disegnava soltanto). Adesso il suo lavoro è focalizzato sulle opere tridimensionali, ha due studi nella Grande Mela (uno a Brooklyn, e l’altro nel Queens), è tra gli artisti chiamati da Adriano Pedrosa a partecipare a “Stranieri Ovunque- Foreigners Everyere, (la Biennale di Venezia 2024) e da marzo è in mostra nella Cappella dello Yorkshire Sculpture Park (famoso parco scultoreo e sede espositiva inglese, nei pressi della cittadina di Wakefield, a circa due ore di treno da Londra).

Rigorosa nei ritmi di lavoro e abitudinaria, Babirye, ha una pratica basata sul contatto diretto con i materiali di cui si appropria e sceglie di utilizzare. Preferendo spesso strumenti che presuppongono forza e velocità nello scolpire, come la sega elettrica o la fiamma ossidrica con cui annerisce le sue opere, dopo essersi fatta guidare dal legno stesso (ne segue le venature, si ispira alla sagoma del tronco) per definirne la forma. Sia questo aspetto che l’uso di oggetti trovati fanno del caso e dell’occasionalità elementi poco appariscenti ma vitali nella scultura dell’artista ugandese-statunitense.

Lei ha spiegato così il proprio impegno: “Il mio lavoro consiste fondamentalmente nell'utilizzare la spazzatura, nel dargli nuova vita e renderla bella. È sempre influenzato da dove sono, userò tutto ciò che c'è. Ecco perché il lavoro sembra sempre diverso, perché non sono sicura di cosa troverò. Il legno con cui lavoro qui è un legno tenero, mentre a New York di solito è il pino, che è un legno più duro. Ciò conferisce alle sculture un aspetto diverso e contribuisce alle loro diverse personalità.”

Babirye, che crea anche opere in ceramica poi rivestite di smalti colorati e luminosi, attraverso le sue sculture parla della cultura del suo paese natale, di questioni coloniali ma soprattutto della comunità queer di cui fa parte e di come i diritti dei gay in Africa vegano calpestati. Babirye, infatti, nel 2018 è stata pubblicamente accusata di preferire intrattenere rapporti intimi con persone del suo stesso sesso da un giornale ugandese, ha avuto problemi all’università dove stava frequentando un master ma soprattutto la sua famiglia l’ha ripudiata. E tutto sommato avrebbe potuto andarle anche molto peggio visto che in Uganda l’omosessualità è illegale e può essere punita con la pena di morte.

Nella sua opera gli scarti (usati sia per comporre che abbellire il lavoro) sono, infatti, un riferimento al termine ‘abasiyazi’, cioè la parte della canna da zucchero da buttare, che in lingua luganda si usa per indicare una persona gay. L’artista è stata profondamente ispirata da Henry Moore e utilizza le maschere africane, che non sono tipiche della sua patria ma di un’altra parte del continente, per citare l’amore che scultori e pittore dell’Occidente di quegli anni nutrivano per questa forma espressiva africana. I titoli (a volte in qualche misura autobiografici) portano, invece, i nomi di clan ugandesi (cioè famiglie allargate di cui fanno parte i membri di una stessa comunità) a loro volta rubati ad animali e piante locali. Naturalmente nel suo linguaggio questi elementi hanno anche ulteriori significati: le maschere diventano un mezzo per esprimere le diversità delle persone queer, mentre i titoli fanno riferimento ai clan da cui le persone gay sono state cacciate.

Nata nel 1985 a Kampala dove ha frequentato la Makerere University, Leilah Babirye, ha ottenuto asilo negli Stati Uniti nel 2018, dopo aver preso parte lì ad una residenza a Fire Island. Nella Cappella dello Yorkshire Sculpture Park presenta un clan composto da sette sculture lignee più cinque in ceramica smaltata, realizzate la scorsa estate direttamente nel parco scultoreo inglese dove l’artista ha soggiornato. Il legno utilizzato proveniva da alberi morti (tra loro anche un faggio settecentesco piantato più o meno nello stesso periodo in cui venne costruita la Cappella).

La scultura senza compromessi di Leilah- ha detto la direttrice dello Yorkshire Sculpture Park, Clare Lilley- è sempre efficace. Il fatto che queste sculture siano state create presso YSP, con Leilah che sfrutta al meglio ciò che questo posto ha da offrire, è davvero speciale. Per quasi 300 anni, la nostra Cappella è stata un luogo di comunità e contemplazione, e siamo privilegiati che Leilah ne abbia fatto una casa per il suo clan di opere d'arte avvincenti. "

La mostra di Leilah Babirye allo Yorkshire Sculpture Park si intitola “Obumu (Unity)” dove continuerà fino all’8 settembre 2024, ma l’artista ugandese-statunitense quest’anno fa anche parte di Stranieri Ovunque- Foreigners Everyere”, la Biennale di Venezia di Adriano Pedrosa, dove espone alcune sculture nel giardino alle spalle del Padiglione Italia (all’Arsenale).

Leilah Babirye, Gyagenda 2023.Itallation view at Yorkshire Sculpture Park 2024. Courtesy the artist andStephen Friedman Gallery.Photo: Jonty Wilde Courtesy YSP

Leilah Babirye, Nakambugu from the Kuchu Njovu Elephant Clan 2023. .Itallation view at Yorkshire Sculpture Park 2024. Courtesy the artist andStephen Friedman Gallery.Photo: Jonty Wilde Courtesy YSP

Leilah Babirye Gunsinze  aliwa Bitono 2023. © Leilah Babirye.Courtesy the artist Stephen Friedman Gallery-London and New York and Gordon Robichaux New York. Photo© Mark Blower

Leilah Babirye Gunsinze  aliwa Bitono 2023. © Leilah Babirye.Courtesy the artist Stephen Friedman Gallery-London and New York and Gordon Robichaux New York. Photo© Mark Blower

Leilah Babirye Gunsinze  aliwa Bitono 2023 detail. © Leilah Babirye.Courtesy the artist Stephen Friedman Gallery-London and New York and Gordon Robichaux New York. Photo© Mark Blower

Leilah Babirye Gunsinze  aliwa Bitono 2023 detail. © Leilah Babirye.Courtesy the artist Stephen Friedman Gallery-London and New York and Gordon Robichaux New York. Photo© Mark Blower

Portrait of Leilah Babirye Obumu Unity 2024. Courtesy the artist and Stephen Friedman Gallery. Photo: Jonty Wilde Courtesy Yorkshire Sculpture Park

La nuova installazione di Leonardo Drew è un'esplosione di compensato annerito che turbina nella cappella dello Yorkshire Sculpture Park

Leonardo Drew, Number 360, installation view at Yorkshire Sculpture Park, 2023. Courtesy of the artist Goodman Gallery and Galerie Lelong Co. Photo © Jonty Wilde.

Number 360”, la nuova installazione dell’artista statunitense Leonardo Drew per la Cappella dello Yorkshire Sculpture Park, fatta di frammenti di compensato bruciato a momenti ricoperto di vernice, somiglia ad un’esplosione devastante congelata nel tempo ma anche a un albero rigoglioso. Ed in effetti, i concetti che ricorrono nell’opera di Drew, si adattano bene a tutt’e due.

Nato a Tallahassee (Florida) nel 1961 ma cresciuto in un quartiere degradato di Bridgeport in Connecticut, Leonardo Drew, dal suo appartamento vedeva una discarica. Ogni finestra, qualsiasi punto di vista verso l’esterno, dell’appartamento del giovane Drew, era occupato dai rifiuti. Così lui cominciò la sua carriera artistica utilizzando degli oggetti buttati. Gli piaceva l’idea di restituirgli una nuova vita ma anche il fatto che evocassero un ciclo di vita e morte ineludibile. Aveva scoperto il fascino dei materiali e fatto emergere il “memento mori” nascosto nell’immondizia.

Da allora gli oggetti trovati non li usa più, ma ama monipolare i materiali per conferirgli un’aria vissuta. Ossida o brucia quello che gli capita sotto mano, dai pezzi di metallo alle assi di compensato, per passare poi alla composizione e realizzazione della scultura vera e propria. Dice che non vuole che i materiali abbiano una storia pregressa. Anche se spesso ne ha usati di simbolicamente carichi, come corda, cotone, stracci e ruggine.

Drew è afroamericano e i riferimenti alla schiavitù in alcune sue opere sembrano espliciti, così come al passato industriale degli Stati Uniti, o al degrado brutale dei sobborghi americani (spesso abitati da persone di colore). In realtà, l’artista definisce le sue opere solamente astratte, per lo stesso motivo per cui usa dei numeri per intitolare ogni lavoro: vuole lasciare allo spettatore lo spazio per partecipare attivamente all’opera, proiettando la sua sensibilità e la sua esperienza personale su di essa. In questo modo, crea degli ambienti in cui memorie e aspirazioni diverse si fondono e modificano continuamente le installazioni.

Naturalemente le sculture di Drew dialogano anche con l’ambiente in cui sono poste. “Number 360”, ad esempio, si estende in verticale per occupare gli oltre 5 metri d’altezza della cappella settecentesca. E rompe il silenzio dell’architettura aggraziata, con un’esplorisone formale e cromatica. Il nero vissuto dei frammenti che compongono l’opera, infatti, che ogni tanto si illumina di un colore opaco in cui convivono vernice e sabbia, si scontra con il bianco delle pareti, sfida il verde della vegetazione dietro le finestre.

La forma e il colore dell’opera, a prima vista, non possono che far pensare al fragore di un’esplosione, ma volendo ben vedere, il volteggiare, tutto sommato, disinvolto dei frammenti, evoca una melodia. Non a caso Drew è un’appassionato di musica, che ascolta sempre mentre lavoro. Così come di cinema (nel suo studio ha diversi schermi che proiettano film continuamente). In un’intervista, ha dichiarato di avere una vasta collezione, che va da Kurosawa a Bresson, da Tarkovsky a Kubrick, e di amare persino John Ford per i suoi panorami e paesaggi. "(...)Guardando il mio corpus di lavori, vedrai composizioni di jazz, musica classica e cinema".

Drew ha l’abitudine di riutilizzare il materiale che aveva composto installazioni precendeti. Anche il compensato di “Number 360” non è alla sua prima esperienza (proviene da "Number 341", presentata all'edizione 2022 della fiera svizzera Art Basel). Secondo l’artista, è un modo per permettergli di evolversi.

Leonardo Drew, con la sua nuova installazione “Number 360”, sarà alla Cappella dello Yorkshire Sculpture Park (prima di lui, ad esempio, Kimsooja, Chiharu Shiota e Saad Quereshi) fino al 29 Ottobre 2023.

Leonardo Drew, Number 360, installation view at Yorkshire Sculpture Park, 2023. Courtesy of the artist Goodman Gallery and Galerie Lelong Co. Photo © Jonty Wilde.

Leonardo Drew, Number 360, installation view at Yorkshire Sculpture Park, 2023. Courtesy of the artist Goodman Gallery and Galerie Lelong Co. Photo © Jonty Wilde.

Leonardo Drew, Number 360, installation view at Yorkshire Sculpture Park, 2023. Courtesy of the artist Goodman Gallery and Galerie Lelong Co. Photo © Jonty Wilde.

Leonardo Drew, Number 360, installation view at Yorkshire Sculpture Park, 2023. Courtesy of the artist Goodman Gallery and Galerie Lelong Co. Photo © Jonty Wilde.

Leonardo Drew, Number 360, installation view at Yorkshire Sculpture Park, 2023. Courtesy of the artist Goodman Gallery and Galerie Lelong Co. Photo © Jonty Wilde.

Leonardo Drew with Number 360, installation view at Yorkshire Sculpture Park, 2023. Courtesy of the artist Goodman Gallery and Galerie Lelong Co. Photo © Jonty Wilde.