Meredith Monk parlerà del suo lavoro e dell'amico Bruce Nauman all'Hangar Bicocca. Prima però sarà in concerto alla Triennale

Dopo l’attesissimo concerto-anteprima alla Triennale di Milano, Meredith Monk, sarà al Pirelli Hangar Bicocca per parlare della sua amicizia con Bruce Nauman (ancora al centro del prestigioso spazio espositivo con la mostra “Neons Corridors Rooms”), di quanto l’arte dell’uno abbia preso da quella dell’altra e viceversa, ma anche della retrospettiva "Meredith Monk. Calling" che il prossimo autunno vedrà il suo lavoro sessantennale protagonista dell’ Haus der Kunst di Monaco di Baviera.

Converserà con Andrea Lissoni (il direttore italiano del famoso museo d’arte contemporanea tedesco che ospiterà la sua mostra), e l’evento sarà ad ingresso gratuito.

Si tratta di un appuntamento importante perchè Meredith Monk è una figura cardine della performance art. Pluripremiata, insignita da numerosi riconoscimenti tra cui la National Medal of Arts (che le conferì Barack Obama) e l'investitura a Chevalier de l'Ordre des Arts et des Lettres della Repubblica Francese.

Nata nel ‘42 a New York City, Meredith Jane Monk è compositrice, cantante, regista, coreografa e filmmaker. La sua musica è stata utilizzata nel film "Il grande Lebowski" dei fratelli Coen, in "Nouvelle Vague" e "Notre musique" di Jean-Luc Godard. Figlia d’arte, la madre, infatti, era cantante professionista e i nonni materni musicisti. Monk, è stata una pioniera di quella che oggi viene chiamata "tecnica vocale estesa"  (che prevede l’utilizzo di particolari tecniche timbriche e armoniche per ampliare la tavolozza dei suoni) e "performance interdisciplinare". In sostanza, ha esplorato con la voce territori fino ad allora inesplorati e nel contempo l’ha mixata con il movimento del corpo. Le sue performance, sono spesso concepite o adattate in funzione dello spazio in cui si esibisce, rendendo effimera e ancora più carica poeticamente la sua virtuosa arte.

Il sito internet della statunitense, in proposito dice: "Crea opere che prosperano all'intersezione di musica e movimento, immagine e oggetto, luce e suono, scoprendo e intrecciando nuove modalità di percezione. La sua innovativa esplorazione della voce come strumento, come linguaggio eloquente in sé e per sé, espande i confini della composizione musicale, creando paesaggi sonori che portano alla luce sentimenti, energie e ricordi per i quali non ci sono parole”. Lei invece ha spesso dichiarato che intende “la musica così visivamente”.

Per il Teatro della Triennale si esibirà, in compagnia di due tra le sue collaboratrici più fidate, in una scelta di brani che abbracciano cinquant’anni della sua produzione, da “Songs from the Hill” (1975-1976) e “The Games” (1984) fino ai più recenti “Mercy” (2001) e “Cellular Songs” (2018). Lo spettacolo, che si intitola semplicemente "Meredith Monk in concerto con Katie Gissinger e Allison Sniffin", si terrà sabato 18 febbraio alle 19 e 30. I biglietti sono in vendita sul sito della Triennale.

Il giorno successivo invece (domenica19 alle 21) Meredith Monk sarà in conversazione al Pirelli Hangar Bicocca con Andrea Lissoni. Al centro dell’intervento dal vivo dell’artista americana la natura multidisciplinare del suo lavoro e di quello di Bruce Nauman. L’appuntamento è gratuito ma visto il numero limitato di posti è richiesta la prenotazione. Per farlo si dovrà andare sul sito del museo da venerdì 10 febbraio.

Il ritmo sincopato delle emozioni nella fotografia di Ming Smith e della black-culture degli anni '70

Ming Smith. Womb, 1992. Courtesy of the artist. © Ming Smith

Artista afroamericana che ha usato la fotografia come mezzo espressivo principale, Ming Smith, ha dovuto percorrere un cammino lunghissimo per arrivare a veder riconosciuto il suo talento rivoluzionario. A febbraio il Museum of Modern Art di New York (il famosissimo Moma), le dedica una personale ("Projects: Ming Smith") ma è già da qualche anno che il valore dell’artista nata a Detroit è stato rivalutato. E persino la The Women's National Basketball Association (WNBA) ha voluto che fosse il suo obbiettivo a immortalare le atlete.

D’altra parte, Smith, arrivata a New York agli inizi degli anni ‘70 per lavorare come modella, è stata la prima fotografo donna afroamericana ad essere acquisita dal Moma (già nel ‘79), la prima donna ad unirsi allo storico collettivo fotografico degli anni ‘60 Kamoinge (talmente iconico in un certo contesto culturale da esistere ancora adesso). Ed ha ritratto tutte le celebrità nere di quel periodo, da Nina Simone a Grace Jones fino ad Alice Coltrane (erano, tra l’altro, tutte del suo quartiere).

Senza per questo essere diventata in men che non si dica, un’artista famosa. Anzi.

Ed è strano, perchè il suo lavoro, rivoluzionario e onirico, a tratti pervaso da una carica mistica laica, è vibrante e virtuso al tempo stesso. Appare fresco anche a distanza di decenni. E terribilmente complicato da realizzare dal punto di vista tecnico.

Smith, infatti, fotografava quello che vedeva per le strade dove viveva la sua comunità. Ma non le interessava la documentazione dei fatti. A starle a cuore era il fissare in modo indelebile l’esperienza della realtà. Per questo oggi, quando si parla della sua opera, si fa spesso ricorso all’aggettivo “surreale”.

"Si tratta di cercare energia, respiro e luce- ha spiegato l'artista- L'immagine è sempre in movimento, anche se sei fermo".

Più facile a dirsi che a farsi. Soprattutto quando la fotografia era su pellicola. Smith per riuscirci ha usato un imprecisato numero di tecniche ed espedienti diversi. Talvolta contemporaneamente. Si va dal fotografare i suoi soggetti da prospettive oblique, fino a giochi di messa a fuoco o alla doppia esposizione. Ma anche collage e pittura su stampe.

Ricca di chiaroscuri, la sua opera, mette in discussione il concetto di individuo. Che talvolta scompare, parzialmente o del tutto, mentre si muove verso una direzione imprecisata o compie azioni sul posto. A dominare è il quadro generale.

Lo scenario in cui le figure si inseriscono e che le avvolge fino a farle a pezzi o tramutarle in ombre.

In proposito, tempo fa, ha osservato il curatore e storico dell’arte Maurice Berger (mancato nel 2020): “I soggetti di Smith sono spesso sospesi tra visibilità e invisibilità: volti girati dall'altra parte, sfocati o avvolti nell'ombra, nella nebbia o nell'oscurità, una potente metafora della lotta per la visibilità afroamericana in una cultura in cui uomini e donne di colore erano denigrati, cancellati o ignorati”. Soprattutto le donne.

Lei in merito, infatti, è stata ancora più diretta: "Essere un fotografo donna di colore era come non essere nessuno, eravamo solo io e la mia macchina fotografica".

Ma il lavoro di Smith, è ricco di sfacettature. A tratti pensieroso, demoralizzato o semplicemente poetico, a momenti reattivo, ritmico. O ancora, animato da uno slancio vitale irrefrenabile. Che l’artista ha paragonato alla musica e al blues, in particolare.

La mostra "Projects: Ming Smith",  realizzata dal Moma in collaborazione con The Studio Museum di Harlem, si inugurerà il prossimo 4 febbraio (fino al 29 maggio 2023), nelle gallerie livello strada del museo statunitense. Per farsi un’idea più chiara del lavoro cinquantennale di Ming Smith, tuttavia, è pure possibile semplicemente consultare il sito internet dell’artista o l’account instagram

Ming Smith, August Blues, from “Invisible Man.” 1991. Courtesy of the artist. © Ming Smith

Ming Smith, African Burial Ground, Sacred Space, from “Invisible Man.” 1991. Courtesy of the artist. © Ming Smith

Ming Smith, The Window Overlooking Wheatland Street Was My First Dreaming Place. 1979. Courtesy of the artist. © Ming Smith

Ming Smith, Sun Ra Space II. 1978. Courtesy of the artist. © Ming Smith

Biennale di Venezia 2022| Perpetual Motion il Padiglione Islanda meditativo e raffinato di Sigurður Guðjónsson. Sospeso tra iperrealismo ed astrazione

Sigurður Guðjónsson, Still from Perpetual Motion, 2022, courtesy of the artist and BERG Contemporary

L’artista Sigurður Guðjónsson, con la mostra “Perpetual Motion”, per la 59esima Esposizione internazionale d’Arte- La Biennale di Venezia, presenta un Padiglione Islanda completamente diverso da quello accogliente e psichedelico immaginato da Shoplifter nel 2019. Il suo è uno spazio minimale e meditativo, sottilmente poetico, in bilico tra realismo (sarebbe anzi meglio dire iperrealismo) e astrazione. Ma non meno visivamente appagante.

D’altra parte è la prima volta che il piccolo paese insulare nord europeo presenta la sua installazione nei visitatissimi spazi dell’Arsenale (nelle due edizioni precedenti della manifestazione, per esempio, aveva avuto sede alla Giudecca). E probabilmente ci tiene a dare la migliore impressione possibile di se. Questo è un aspetto che riecheggia (e non è l’unico) uno dei leitmotiv della kermesse lagunare di quest’anno, che è una Biennale delle prime volte (per la prima volta curata da una donna italiana, per la prima volta le artiste superano gli artisti ecc.).

Guðjónsson, parte dalla porzione di un oggetto comune fino a pochi anni fa. Si potrebbe addirittura spingersi a definirlo un rifiuto. Si tratta, infatti, di un piccolo disco magnetico (prelevato da un vecchio altoparlante), con polvere di metallo sul bordo. Poi riprende quest'ultima. Ne fa un primo piano più che ravvicinato mentre ruota. Rendendo possibile all’occhio umano vedere il materiale e il suo movimento perpetuo (di qui il titolo “Perpetul Motion”) attratto dal campo magnetico. Il video dura 45 minuti e non è stato tagliato ma naturalmente al visitatore non è richiesto che qualche minuto della propria attenzione.

Ispirato dai soffitti alti dello spazio espositivo, l’artista di Reykjavík, ha deciso di sviluppare l’opera su uno schermo alto sei metri a parete, che sembra specchiarsi in uno a pavimento. Non sono state posizionate sedute perchè chi osserva si senta libero di muoversi e sostare nella penombra del padiglione il tempo che ritiene necessario. Guðjónsson, dice persino che il visitatore può interpretare il lavoro come una scultura, o una sorta di dipinto in movimento.

In effetti, l’opera nel suo scorrere lento e mutevole, non è solo ricca di forme che di volta in volta evocano paesaggi ultraterreni, semplici pattern decorativi, formazioni rocciose, forme vegetali e quant’altro, ma anche di colori e giochi di luce. A Sigurður Guðjónsson piaceva l’idea che qualcosa di tangibile, pur senza essere in alcun modo rimaneggiato, diventasse alieno. Spingendoci contemporaneamente a riflettere sulla visione limitata e distorta della realtà che riceviamo dai nostri sensi e a meravigliarci di nuovo di fronte ad essa.

"Sono orgoglioso- ha detto- di presentare Perpetual Motion al Padiglione Islandese. L’opera è concepita come uno spettacolo ai confini fra realtà e finzione, mostrando qualcosa che è reale ma ci sfugge in quanto oltre i nostri campi percettivi. La mia speranza è di offrire ai visitatori un’esperienza poetica e multisensoriale della materialità, che unisce ampiezza, luce, dimensioni e movimento, usando il suono e il video per trasformare lo spazio in modo scultoreo."

L’Islanda, nonostante la ridottissima popolazione (366 700 abitanti nel 2020), ha un panorama musicale molto vivace e stimato. Guðjónsson, che collabora sempre con compositori contemporanei, in quest’opera ha dato particolare importanza al suono. La colonna sonora di Perpetual Motion, infatti, definita "viscerale" dai commenti ufficiali alla mostra, è stata creata dall'artista insieme al musicista islandese Valgeir Sigurðsson, e sovrappone suoni elettromagnetici manipolati attraverso sintesi granulare. Creando in sostanza una sorta di epidermide sonora alle immagini. Che non le distorce ma le completa. E le rende ancora più poetiche.

Sigurður Guðjónsson, che a ottobre presenterà un’importante mostra personale al Museo di Arte di Reykjavik, ha lavorato a stretto contatto anche con la curatrice Mónica Bello (storica dell’arte spagnola che dal 2015 lavora come Responsabile delle Arti al CERN, il Laboratorio Europeo per la Fisica delle Particelle di Ginevra). Perpetual Motion, il suo Padiglione Islanda, rimarrà all’Arsenale per tutta la durata della Biennale di Venezia 2022 (fino al 27 novembre).

Sigurður Guðjónsson, Installation view: Perpetual Motion, Icelandic Pavilion, 59th International Art Exhibition -– La Biennale di Venezia, 2022, Courtesy of the artist and BERG Contemporary, Photos: Ugo Carmeni

Sigurður Guðjónsson, Installation view: Perpetual Motion, Icelandic Pavilion, 59th International Art Exhibition -– La Biennale di Venezia, 2022, Courtesy of the artist and BERG Contemporary, Photos: Ugo Carmeni

Sigurður Guðjónsson, Installation view: Perpetual Motion, Icelandic Pavilion, 59th International Art Exhibition -– La Biennale di Venezia, 2022, Courtesy of the artist and BERG Contemporary, Photos: Ugo Carmeni

Sigurður Guðjónsson, Installation view: Perpetual Motion, Icelandic Pavilion, 59th International Art Exhibition -– La Biennale di Venezia, 2022, Courtesy of the artist and BERG Contemporary, Photos: Ugo Carmeni