Biennale di Venezia 2022| Gyre, l'avveniristico e stupefacente Padiglione Corea di Yunchul Kim

Yunchul Kim, Chroma V. Korean Pavilion, 2022. Courtesy of the artist. Photo by Roman März

Il processo creativo è una cosa molto personale. La scintilla che innesca la nascita di un opera d’arte si manifesta in modi diversi. Yunchul Kim, che quest’anno con la magnetica ed avveniristica mostra “Gyre al Padiglione Corea della 59esima Esposizione Internazionale d’Arte (La Biennale di Venezia) si sta guadagnando un consenso pressochè unanime, sogna.

Non è l’unico artista ad essere vistitato la notte dalle opere che un giorno realizzerà (sono anzi parecchi) ma è una caratteristica della sua pratica che sembra non accordarsi con il carattere scientifico (quasi fantascientifico anzi) delle sculture. Eppure è così. E a ben guardare, una volta familiarizzato con le imponenti installazioni di Kim, la nota onirica è anzi evidente (molto adatta al tema de “Il latte dei sogni”): a volte richiamano oggetti d’uso comune trasfigurati fino all’estremo limite, mentre altre animali. Senza contare che tutte sembrano vive.

D’altra parte lui su questo punto è perentorio: "Considero le mie opere come esseri viventi".

“Gyre”, la mostra che ha costruito per il Padiglione Corea del 2022, poi, è quasi un ecosistema. Perchè tre delle cinque sculture che la compongono sono legate tra loro. Come un unico corpo (del quale sono in effetti una metafora).

Per la Biennale, l’artista e compositore di musica elettronica sud coreano, si è ispirato al primo verso "The Second Coming" di William Butler Yeats (1865-1939), in cui il poeta irlandese fa riferimento a un vortice (gyre) storico in grado di scombussolare in modo permanente il mondo conosciuto (all’indomani della prima guerra mondiale, Butler Yeats, si era trovato in mezzo a una pandemia di influenza). Yunchul Kim, che oltre ad amare le scienze nutre interesse per filosofia, antropologia e mitologia, ci ha visto anche due concetti squisitamente orientali: quello di ciclicità e l’idea secondo la quale l’uomo è il tramite tra cielo e terra.

Così il suo Padiglione Corea ha una testa (la scultura Argos) e una spina dorsale (Chroma V). La seconda, ben visibile fin dall’ingresso del visitatore nelle stanze del luminoso edificio che guarda la laguna, è lunga 50 metri, attorcigliata su se stessa, si muove con straordinaria naturalezza. Ad ogni contorsione i colori irreali delle 382 celle che ne costituiscono le articolazioni mutano (di qui il nome Chroma). Sono belli, cosmici, intensi e pieni di sfumature. "Mentre altri artisti- ha detto Kim a Korea Times- usano coloranti e pigmenti per esprimere il colore, io uso l'ottica; creando sfumature iridescenti nate dalla luce mentre viene distorta mentre passa attraverso una certa sostanza". D’altra parte, l’artista esplora le potenzialità artistiche della fluidodinamica e le opere sono il risultato di anni di ricerca e sperimentazioni sui materiali.

I movimenti di Chroma V, tuttavia, non sono spontanei. A consentirle il dinamismo è il cervello dell’esposizione, la scultura meno magnetica (anche se non la meno imponente) che si trova nella stanza a fianco: Argos – The Swollen Suns. L’opera ha una forma astratta dall’estetica persino troppo vezzosa. Fa rumore e lampeggia. Senza sapere di cosa si tratta potrebbe essere accusata di somigliare ai marchingegni comparsi in questo o quel videogioco. Ma Argos non si limita a dar mostra di se: composta da 246 tubi Geiger-Muller, segnala con luci e suoni di aver rilevato dei muoni. Questi ultimi si creano quando le particelle cosmiche entrano in collisione con l’atmosfera terrestre- Argos li rileva in tempo reale, facendo muovere sia Chroma V che l’installazione Impulse.

Se Argos è la testa e il 'cielo' della mostra Impulse è la sua 'terra'. Infatti, simile a un lampadario, pompa in continuazione acqua marina proveniente da Venezia attraverso centinaia di tubi che connettono il Padiglione al mondo al di là dell’esposizione.

Poi ci sono La Poussière de Soleils, il cui scopo è mostrare colori incredibili (ma solo indosssando gli appositi occhiali) per crearla Kim si è dovuto inventare un materiale.che prima non esisteva. E Flare in cui un liquido simile a metallo, apparentemente in barba alle leggi della fisica, a scadenza ritmica si alza con sempre maggior slancio. Forma delle colline, quasi gocciola al contrario. L’effetto è strano e capace di ipnotizzare.

E poi c’è un enorme disegno fatto col gesso dallo stesso artista (fresco, intricato, vibrante, e non meno bello delle sculture). Pare che non fosse in programma, ma dato che Kim ne traccia in continuazione non abbia saputo resistere a vedere l’effetto a parete.

L’imperdibile mostra “Gyre” di Yunchul Kim, per il Padiglione della Repubblica di Corea della Biennale di Venezia è curata da Young-chul Lee. E si potrà visitare ai Giardini per tutta la durata della 59esima Esposizione Internazionale d’Arte (fino al 27 novembre 2022).

Yunchul Kim, Argos - the Swollen Suns. Korean Pavilion, 2022. Courtesy of the artist. Photo by Roman März

Yunchul Kim, Chroma V. Korean Pavilion, 2022. Courtesy of the artist. Photo by Roman März

L'artista accanto a Chroma V. Yunchul Kim, Portrait. Photo

Yunchul Kim, Impulse. Korean Pavilion, 2018. Courtesy of the artist. Photo by Roman März

Yunchul Kim, La Poussière de Soleils. Korean Pavilion, 2022. Courtesy of the artist. Photo by Roman März

Biennale di Venezia 2022| Brick House di Simone Leigh, il monumentale busto in bronzo di una donna nera da Leone d’Oro

Simone Leigh, Brick House, veduta dell’installazione (con intorno i quadri di Belkis Ayòn) 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia

Chi entra all’Arsenale quest’anno trova ad accoglierlo una figura monumentale. Silenziosa ed enigmatica, naturale ed elegante. Apparentemente imperturbabile. Si tratta di “Brick House” dell’artista statunitense Simone Leigh, che oltre ad essersi aggiudicata il Leone d’Oro come miglior artista partecipante alla Biennale di Venezia, “Il Latte dei Sogni”, curata da Cecilia Alemani, alla 59esima Esposizione Internazionale d’Arte, rappresenta anche il suo Paese. Con la mostra “Sovereignty” in un Padiglione Stati Uniti per l’occasione trasformato in edificio africaneggiante (che però prende di mira l’Esposizione Coloniale di Parigi del ’31), con pali di legno a rivestire le facciate e il tetto completamente ricoperto di paglia, Leigh, ha fatto centro.

Tutto però nasce da “Brick House”. Originariamente esposta alla rassegna d’arte organizzata nel parco soprelevato High Line di New York, la scultura rappresenta il monumentale busto di una donna nera, con i capelli acconciati in treccioline, fermate ad una ad una da conchiglie di ciprea (un simbolo ricorrente nella poetica di Leigh che, per modellarle, usa come stampo un’anguria). La figura non ha occhi ma guardandola si ha l’impressione che, più che non vedere gli altri, non voglia che le persone incontrino il suo sguardo, percependo i suoi pensieri.

Già a portare l’opera alta 5 metri di fronte alla 10ma Avenue ci aveva pensato Cecilia Alemani. "Sono rimasta molto colpita dal suo lavoro alla mostra Kitchen (una personale di Leigh tenutasi a Chelsea nel 2012 ndr)- ha detto Alemani al giornalista Calvin Tomkins su New Yorker- È stato sicuramente qualcosa di inaspettato rispetto a quello che stava succedendo in quel momento, e ho potuto vedere che con il giusto supporto poteva portare la sua pratica a un altro livello". Così l’artista, nata a Chicago da una famiglia benestante di pastori nazareni d’origine giamaicana, con un quarto di milione di dollari a disposizione, ha potuto creare “Brick House”.

Parte della serie “Anatomy of Architecture”, in cui corpi e riferimenti architettonici si fondono, l’opera è una scultura bronzea. Un materiale relativamente nuovo per Simone Leigh, abituata a lavorare la ceramica. Tuttavia, proprio l’uso costante ed ostinato di questa pratica, anche quando il mondo dell’Arte relegava chiunque vi si avvicinasse nel girone delle Arti Applicate senza possibilità di redenzione, l’ha aiutata a portarla a termine. Per realizzare il pieno, da cui trarre gli stampi per colare il metallo, infatti, sono servite circa due tonnellate di argilla. Poi il materiale appositamente prelevato da una cava francese (che si dice sia quella che usò Auguste Rodin) sono state montate su un'armatura e scolpite.

Se il volto dà un genere, un’etnia e una rarefatta ma intensa empatia a Brick House, la gonna, simile ad una casa d’argilla, le serve per mettere radici nella società. A definirne il pensiero. Che è cosmopolita e variegato, con riferimenti all’architettura in argilla e legno del popolo Batammaliba in Benin e Togo, alle case a obice dei Mousgoum in Ciad e Camerun e al ristorante Mammy's Cupboard, a Natchez, in Mississippi. Quest’ultimo riproduce bellamente lo stereotipo razzista della lavoratrice domestica di colore: la Mammy. Anche se a sua discolpa va detto che è stato costruito nel ’40 e recentemente ha cercato di rappezzare la situazione, ridipingendo il volto della figura che ospita il ristorante con un colore più chiaro.

Il nome del busto bronzeo di Leigh letteralmente significa: casa di mattoni. Fa riferimento a un film documentario ma è soprattutto un’espressione afroamericana: "Se chiamassi qualcuno una casa di mattoni- ha spiegato l’artista sempre a New Yorker- qualsiasi persona di colore saprebbe di cosa stavo parlando. È una donna che... esito a usare la parola 'forte', a causa degli stereotipi delle donne nere come torri di forza. Si tratta dell'idea di una donna ideale, ma molto diversa dalla donna ideale occidentale, che è fragile”.

Brick House”, collocata all’interno del percorso de “Il Latte dei Sogni”, come le figure del Padiglione Stati Uniti della 59esima Esposizione Internazionale d’Arte, nasce però anche dall’esigenza delle donne di colore di trovare intorno a loro rappresentazioni di se. Ha quindi a che fare con il concetto di memoria collettiva e con il senso d’identità. L’opera di Simone Leigh accoglierà i visitatori all’Arsenale fino alla conclusione della Biennale di Venezia (fissata in generale per il 27 novembre, anche se il solo Arsenale chiuderà i battenti già il 25 settembre 2022) .

Simone Leigh, Brick House, veduta dell’installazione (con intorno i quadri di Belkis Ayòn) 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by:Ela Bialkowska OKNOstudio Courtesy: La Biennale di Venezia

Simone Leigh, Brick House, veduta dell’installazione (con intorno i quadri di Belkis Ayòn) 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia

Simone Leigh, Brick House, veduta dell’installazione (con intorno i quadri di Belkis Ayòn) 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo by:Ela Bialkowska OKNOstudio Courtesy: La Biennale di Venezia

Biennale di Venezia 2022| "Dreams have no Titles" lo sfavillante e caleidoscopico Padiglione Francia di Zineb Sedira

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

I Sogni non hanno titolo” (“Dreams have no Titles) è un intervento caleidoscopico e sfavillante, come si addice solo ai ricordi. Quelli più belli. Un cinematico gioco di specchi che l’artista Zineb Sedira (nata in un sobborgo di Parigi da genitori di origine algerina) ha messo in scena al Padiglione Francia per la 59esima Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia.

Composta da un film e un’installazione, in cui i confini tra finzione e realtà, personale e collettivo, passato e presente si fondono, l’opera francese, si è meritata una menzione speciale della giuria per le migliori partecipazioni nazionali (insieme all’Uganda). Onorificenza superata soltanto dal Leone d’Oro assegnato alla britannica Sonia Boyce (le due donne sono amiche anche e si frequentano, dato che Sedira vive in Inghilterra dai tempi dell’università).

In concreto, l’artista, ha ricostruito a Venezia il cinema della sua adolescenza: il Cinéma Jean Vigo di Gennevilliers. Non quello dove accompagnava il padre con i nastri nei capelli a vedere spaghetti-western e le grandi produzioni hollywoodiane come “Cleopatra”, ma una sala che aveva imparato ad amare perché proiettava film militanti e anti-colonialisti oltre a quelli d’autore. Sullo schermo però ‘sta volta scorre la sua pellicola. Che naturalmente prima di tutto è un film sui film. E su quelli che celebrano l’indipendenza algerina in particolare.

Nel suo film- spiegano gli organizzatori- alterna remake di scene di film appartenenti al cinema militante degli anni Sessanta e Settanta, a sequenze di making of del suo film (…) L’artista trae ispirazione da diverse pellicole emblematiche della settima arte(…) La voce fuori campo (quella dell’artista ndr.), invece, narra la storia della sua vita della sua famiglia e sulla sua comunità

Per realizzare questo film Zineb Sedira ha fatto lunghe ricerche d’archivio in Italia, Francia e Algeria. Dato che i film che le interessavano erano quelli immediatamente successivi all’Indipendenza algerina. E di solito erano co-produzioni tra questi tre paesi. Il motivo è presto detto: “L’opera dell’artista coniuga, autobiografia, finzione e documentario. NeI Sogni non hanno Titolo, questi tre registri si mescolano per mettere in risalto la solidarietà internazionale, che fa da sfondo ed è rappresentata dall’indipendenza dell’Algeria, acquisita nel 1962 (…)”.

Durante queste lunghe ricerche ha persino ritrovato una pellicola che si credeva perduta: “Le mani libere” (o “Tronco di fico”) del regista italiano Ennio Lorenzini.

Il film di Sedira culmina in un ballo, che il protagonista comincia dopo aver bevuto qualcosa al bancone di un bar. Nell’altra sala, infatti, ritroviamo lo stesso bancone, lo stesso cameriere, gli stessi attori che ballano di fronte ai nostri occhi. Ma ci sono anche i riflettori e gli oggetti di scena oltre ad altre meticolose ricostruzioni di luoghi e cose servite all’artista a mettere insieme l’opera o che hanno segnato la sua biografia (e che quindi l’hanno portata e concepirla). In sostanza, Zineb Sedira, ci sospende in una dimensione atemporale in cui passato e presente si rincorrono circolarmente. In francese questa tecnica si chiama mise en abyme (letteralmente messa nell’abisso, termine poetico e un po’ inquietante che indica una scena che è il riflesso di un riflesso e quindi si riproduce all’infinito). Ma ci regala anche la possibilità di essere parte della nascita del lavoro stesso, condividendo l’energia creativa e la gioia del suo momento culminante.

Metaforicamente, poi, ci invita a partecipare al sogno. Quello delle pellicole da cui il film trae ispirazione, quello del film, quello dell’artista o della sua comunità, poco importa. Perché mentre lo fa, Sedira, indaga con noi sul concetto di memoria collettiva e mette in discussione quello di autenticità.

“I Sogni non hanno titolo” (“Dreams have no Titles”) è curato da: Yasmina Reggad, Sam Bardaouil e Till Fellrath. L'opera di Zineb Sedira occcuperà il Padiglione Francia per tutta la durata della 59esima Esposizione Internazionale d'Arte Biennale di Venezia.

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

Les rêves n'ont pas de titre © Thierry Bal et © Zineb Sedira

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia