I settant’anni del grande Thomas Schütte in tre mostre:

Installation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Nell’estate del 1972, Thomas Schütte, che allora aveva 17 anni ed era in procinto di scegliere cosa avrebbe fatto da grande, visitò due volte di fila Documenta (un’importante manifestazione d’arte contemporanea che si tiene a scadenza quadriennale nella cittadina di Kassel, in Germania) e rimase folgorato. Aveva preso la sua decisione. In seguito disse: “A Kassel, ho visto per la prima volta tutta la varietà di possibilità nel mondo dell'arte”. Ed oggi, tanti anni dopo, quegli orizzonti sconfinati di opzioni, fatte le debite proporzioni, sono diventati la cifra distintiva dell’opera di Schütte. Amata e odiata per una eterogeneità che contribuisce a renderla difficile da cogliere a pieno. Che ne fa anzi un universo misterioso, non necessariamente benevolo, a tratti imperscrutabile.

Ma un luogo in cui vale la pena entrare e che va celebrato. Lo ha fatto lui stesso aprendo un museo di 700 metri quadri nei pressi di Düsseldorf (città in cui vive e lavora) che ha anche disegnato (inaugurato nel 2016 espone pure altri artisti). Lo ha fatto la Biennale di Venezia, che, già nel 2005, gli ha conferito il Leone d’Oro. E in occasione del suo settantesimo compleanno (che cade il 16 del mese prossimo) lo stanno facendo alcuni tra i più prestigiosi musei del mondo.

La Beyeler Foundation di Riehen (Basilea) ha inserito il suo lavoro nella collettiva “Daughter of Freedom” (che propone un riallestimento di modernisti e contemporanei di loro proprietà) destinando alla scultura del tedesco una sala dedicata. Ma soprattutto lo ha fatto il Museum of Modern Art di New York (il famoso MoMa) con una retrospettiva che ripercorre cinquant’anni di carriera di Thomas Schütte attraverso sculture, disegni, stampe, esperimenti di architettura e che occupa l’intero sesto piano dell’edificio. Organizzata da Paulina Pobocha (curatrice senior di Robert Soros presso l'Hammer Museum di Los Angeles ed ex curatrice associata del MoMA) e da Caitlin Chaisson (assistente curatrice del Dipartimento di pittura e scultura del MoMA), è la sua prima mostra nella Grande Mela da oltre vent’anni.

La prossima primavera, invece, sarà la volta del Museo di Punta della Dogana a Venezia. Anche in questo caso si tratterà di un grande show con opere che dagli esordi porteranno ai giorni nostri.

Installation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Nato nel ’54 ad Oldemburg (una cittadina a nord-est della Germania), Thomas Schütte, non ha vissuto il periodo della guerra, se non attraverso i racconti degli altri. Il padre (come tutti i tedeschi del resto) aveva combattuto per Hitler e, secondo quanto riportato dal figlio, forse perché tenente, alla fine del conflitto era stato deportato in Unione Sovietica dove aveva scontato una pena di 5 anni ai lavori forzati, ma non ne aveva mai voluto parlare. Mentre è stato testimone diretto degli anni delle due germanie e di quelli del crollo del muro di Berlino. Intorno la metà degli anni ’70 frequentò l’Accademia d'arte di Düsseldorf che, in quel periodo, contava tra i propri insegnanti il pittore Gerhard Richter (oggi ha 92 anni ed è considerato uno dei più grandi artisti della nostra epoca), oltre ai coniugi Bernd e Hilla Becher, pionieri della fotografia concettuale. Tra gli altri studenti, invece, c’erano nomi che negli anni successivi tutti avrebbero imparato a conoscere (come: Katharina Fritsch, Isa Genzken, Andreas Gursky e Thomas Struth). Schütte si avvicinò molto a Richter mentre cercava la sua strada, ma guardò anche ad altri, come all’americano Richard Serra (la cui opera aveva avuto occasione di vedere dal vivo).

A quel tempo si fece notare per l’acume concettuale. Ne è un’esempio “Amerika”: un grande supporto bianco, su cui l’artista, con forza e precisione, ha tracciato migliaia di segni di grafite fino a renderlo quasi completamente nero (il nome dell’opera fa riferimento alle matite a basso costo con cui era stato eseguito il disegno, ma anche al fatto che con i soldi guadagnati da un eventuale vendita sarebbe andato negli Stati Uniti). Ma anche “Große Mauer” (“Large Wall”, 1977), cioè un’opera composta da piccole tele astratte affiancate in maniera da farle sembrare un muro di mattoni. Per realizzare questo pezzo che cita diversi movimenti artistici, Schütte, che nell’estate di quell’anno stava lavorando in una residenza per anziani, aveva esplorato tutti i cantieri e gli edifici abbandonati della zona per riprodurne i colori. I riquadri (tanto per fare un dispetto ai minimalisti con la loro ossessione per l’ordine) erano appesi un po’storti.

Installation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado

Ad ogni modo, Schütte, che già allora dava l’impressione di essere un bastian contrario (la curatrice Lynne Cooke, che ha lavorato con lui più volte ha recentemente affermato: “Thomas è un arcicontrario. Se dici sinistra, lui dirà destra”), non voleva ripercorrere i passi di Richter ma neppure dedicarsi all’Arte Concettuale o al Minimalismo (ai tempi in gran voga).

Sarebbe poi diventato famoso per una rilettura espressionista e del tutto personale della scultura classica. Anche se in un certo periodo era stato ossessionato dai piani orizzontali; fissazione curata dall’amore per l’architettura, che si sarebbe tradotto in modelli e veri e propri edifici. Al Moma ci sono tanti esempi di questo filone del suo lavoro, compreso una sorta di rifugio antiatomico a grandezza naturale dall’aria inquietante e inospitale (“Schutzraum” in inglese “Shelter” che significa, proprio, riparo; 1986).

Le sue più note sculture, invece, (sovente figure umane dai volti caricaturali o abbozzati) sono animate da un’inquietudine costante che si riflette nelle forme caotiche e dinamiche. a momenti sul punto di liquefarsi, mentre i personaggi effigiati osservano coi loro occhi vuoti chi gli passa di fronte. Schütte usa i materiali classici della scultura (acciaio, ceramica laccata, persino bronzo), il più delle volte rievocando i monumenti degli antichi o statuette e busti commemorativi che nei secoli passati finivano nelle case della gente. Naturalmente però, il suo approccio all’opera è opposto: i soggetti sono frutto di innesti tra la storia dell’arte, la tradizione farsesca, la scenografia cinematografica, i teatri dei burattini e persino i reperti conservati in formalina nei musei di storia naturale.

Thomas Schütte. United Enemies, 1994. Two figures of modeling clay, fabric, string, and wood on plastic pedestal with glass bell jar. 74 × 9 13/16 × 9 13/16″ (188 × 25 × 25 cm). De Pont Museum, Tilburg, Netherlands. Photo: Peter Cox. © 2024 Thomas Schütte / Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn

Un esempio piuttosto chiaro del suo punto di vista sulla scultura monumentale, ce lo da’ “Zeichnung für Alain Colas” (“Disegno per Alain Colas” del 1989). Alain Colas era un velista francese che tentò di attraversare l’Atlantico da solo in motoscafo, l’aveva già fatto e, primo al mondo, era arrivato in America, ma quella volta qualcosa andò storto e né lui né la sua barca vennero mai ritrovati. Era il 16 novembre del 1978, il giorno del compleanno di Schütte. Una decina di anni dopo, Clamecy (città natale di Colas), chiese proprio all’artista tedesco un monumento per commemorare la scomparsa del velista. E lui progettò un busto figurativo su un alto basamento, da ancorare alla baia come fosse una boa, perché ogni giorno l’alta marea lo sommergesse. Ovviamente l’opera non sarebbe mai stata realizzata.

All’inizio degli anni ’90 Schütte venne in Italia; era stato ammesso a una residenza riservata agli artisti tedeschi a Villa Massimo a Roma. Fu per lui l’occasione di vedere le sculture degli antichi, che lo ispirarono. Così nacquero gli “United Enemies”, una serie di sculture in teche di vetro, in cui compaiono due figure in argilla legate l’una all’altra con volti caricaturali affiancati e corpi composti da ritagli di vestiti e altri materiali di recupero. Il susseguirsi di personaggi della serie regala all’opera una dimensione narrativa che fa pensare al cinema: primo amore di Schütte (prima di iscriversi al corso d’arte all’università, aveva preso in considerazione solo quello di cinema, di cui sarebbe rimasto un appassionato spettatore). “United Enemies”, tuttavia, ha una carica trasgressiva che travalica tutto questo. Un critico ci vide le due germanie finamente riunite, e per nulla felici di esserlo. Schütte non si trovò d’accordo. D’altra parte, pare che lui raramente condivida un’interpretazione. E poi i protagonisti delle sue opere sono riflessi di un’ansia, situata in uno spazio e in un tempo indefinito, che in definitiva ognuno può leggere a modo proprio.

Il critico d’arte statunitense Blake Gopnik, in un recente articolo ha scritto (riferendosi a varie sculture del tedesco): “Tali opere rappresentano un ripudio della tradizione modernista in cui Schütte era stato istruito. Rappresentano anche l'intransigenza che è tipica dello Schütte classico”.

Schütte stesso, invece, ha detto: “Cerco di vedere una cosa da cinque punti di vista e continuo a muovermi, lavorando attorno a un punto centrale. Ma cosa sia non lo so. Non appena lo definisci, è finito”.

Daughter of Freedom”, con la sua saletta di sole sculture di Schütte, rimarrà alla Beyeler Foundation fino al 5 gennaio. La grande retrospettiva del Moma si chiuderà più tardi (il 18 gennaio 2025). Mentre la mostra che Punta della Dogana di Venezia dedicherà a Thomas Schütte si inaugurerà il 6 aprile per concludersi il 23 novembre del 2025.

Thomas Schütte. Vater Staat (Father State), 2010 (detail). Patinated bronze. 149 5/8 × 61 × 55″ (380 × 155 × 139.7 cm). Collection Anne Dias Griffin Photo: Steven E. Gross. © 2024 Thomas Schütte / Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn

nstallation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Thomas Schütte. Bronzefrau Nr. 17 (Bronze Woman No. 17), 2006. Patinated bronze on steel table. 80 3/8 × 49 1/4 × 98 1/2″ (204 × 125 × 250 cm). The Art Institute of Chicago. Through prior gifts or bequests of Leo S. Guthman, Fowler McCormick, Albert A. Robin, Marguerita S. Ritman, Emily Crane Chadbourne, Florence S. McCormick, and Judith Neisser; purchased with funds provided by Per Skarstedt; 20th Century Purchase and Robert and Marlene Baumgarten funds. Photo: The Art Institute of Chicago / Art Resource, New York. © 2024 Thomas Schütte / Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn

Installation view of Thomas Schütte, on view at The Museum of Modern Art, New York from September 29, 2024 through January 18, 2025. Photo: Jonathan Dorado.

Thomas Schütte. Selbstportrait. 30/31.5.75 (Self-portrait: 5/30–31/75), 1975. Oil on nettle cloth. 23 5/8 × 17 11/16″ (60 × 45 cm). Collection the artist, Düsseldorf. Photo: Luise Heuter © 2024 Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn. © 2024 Thomas Schütte / Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn

La Chola Poblete, un’artista indigena e queer sulla cresta dell’onda

La Chola Poblete, 2022 Foto: Agustina Lamborizio / © La Chola Poblete

Nata a Mendoza nella parte nord-occidentale dell’Argentina (a ridosso delle Ande) come Mauricio trentacinque anni fa e cresciuta in una famiglia indigena di pochi mezzi prevalentemente femminile, La Chola Poblete, è oggi un artista in vertiginosa ascesa. La partecipazione alla Biennale d’arte di Adriano Pedrosa “Stranieri Ovunque. Foreigners Everywhere dove ha ottenuto la menzione speciale della giuria, infatti, non è venuta da sola. E, dopo aver vinto il prestigioso premio “Artist of the Year” di Deutsche Bank, il suo colorato universo dolente, animato da madonne, dee, simboli pop, erotismo e crudo umorismo, adesso è al centro della mostra “Guaymallénal” (da un dipartimento nella provincia della sua città natale) al Mudec di Milano.

Se non bastasse, a giugno, si è confrontata con il mercato iper-competitivo della fiera più famosa in assoluto (Art-Basel). E poi i segnali premonitori c’erano già tutti, quando, durante Arco Madrid, la Regina di Spagna l’aveva voluta conoscere dopo essere stata colpita dai suoi acquerelli esposti nello stand della galleria che la rappresenta. Pare che La Chola Poblete, la cui opera è in gran parte una critica delle dinamiche post-coloniali, trovandosi di fronte Letizia abbia affermato: “Come stai? Eccoci qui, cinquecentotrenta anni dopo!”, suscitando un momento d’imbarazzo prontamente superato nella sovrana.

La Chola Poblete: Virgen del Carmen de Cuyo, 2023 Watercolor, acrylic, and ink colors on paper, 200 x 152 cm © La Chola Poblete

L’argentina, che dalla ricercatrice e curatrice, María Amalia García, sul sito e sul catalogo della Biennale, viene descritta così: “è un’artista transdisciplinare che opera con performance, videoarte, fotografia, pittura e oggetti: attraverso un sofisticato immaginario queer, recupera conoscenze ancestrali dai territori sudamericani(…)”, sembra non essersi però montata la testa. In un’intervista rilasciata in occasione dell’inaugurazione al Mudec ha detto: “È un periodo intenso. Ma guardami: io non sono cambiata per niente!” E poi forse è difficile credere a un cambiamento duraturo in un mondo ondivago come quello dell’arte contemporanea.

La Chola Poblete, che a Venezia è arrivata accompagnata dalla madre e dalla sorella al loro primo viaggio al di fuori del Paese, abita da anni a Buenos Aires dove da poco occupa uno studio in un’immobile prestigioso arredato con opere di alcuni dei più famosi artisti contemporanei come Leandro Erlich ed ha perfino un assistente. Ma non è sempre stato facile per lei: quando, fresca di laurea in Arti Visive a Mendoza, è arrivata nella capitale argentina, ha dovuto adattarsi a lavorare in un collettivo. Poi è arrivata qualche vendita e, pian-piano le cose hanno cominciato a marciare.

La Chola Poblete: Virgen de la Carrodilla, 2023 Watercolor, acrylic, and ink colors on paper, 200 x 152 cm © La Chola Poblete

Attualmente opera con vari medium che usa per parlare della propria identità. Si concentra sul suo essere queer e indigena ma non mancano simboli riferiti alla quotidianità pura e semplice (il condor ad esempio, perché volteggia sulle Ande) e alla banalità stereotipata di un immaginario globalizzato (i manga, etichette di prodotti di consumo ecc.). Ma anche alla storia (il barocco andino) e all’attualità dell’arte (“Comedian”, la banana che Maurizio Cattelan ha appeso a un muro, che compare in più di un’opera). Negli acquerelli, spesso eseguiti su larga scala, alla precisione calligrafica di alcuni elementi se ne contrappongono altri appena abbozzati, oltre a scritte e motivi decorativi, in un turbinio concitato e apparentemente spontaneo. Mentre il colore, vivo, a momenti accostato per toni contrapposti, tra eleganti chiaroscuri e colature drammatiche lotta per prendere il sopravvento sulla narrazione e sul bianco del supporto.

All’interno di questi pezzi ci sono i simboli prediletti da La Chola Poblete come: la madonna, le patate e il pane. In merito alla prima (che nelle sue opere appare idealizzata ma anche leggermente rivisitata, e sovrappone alla Vergine Maria la divinità latinoamericana della Pachamama) lei ha raccontato in un’altra intervista: “(…) Mio nonno è morto a 33 anni. Si raccontava che da ragazzo, in Bolivia, avesse trovato sepolta sotto terra la figura di una vergine. La prese e gli dissero che avrebbe dovuto adorarla: se trovi una piccola vergine devi adorarla sempre. Non l'ha fatto. Era uno stronzo, l'ha lanciata e si è rotta. Poi gli dissero che una maledizione lo avrebbe seguito. Ed è cresciuto con quell'idea. Morì fulminato, all’età di Cristo, e in punto di morte disse: ‘Questo è per la Vergine’. Quindi, sono cresciuta con rispetto per la Vergine a causa di questo mito familiare su quanto potente potesse essere questa figura (…)” Aggiungendo poi: “(…) Un giorno ho comprato un rotolo per realizzare grandi acquerelli. Stavo per compiere 33 anni e cominciavo ad avere paura di questo karma. Ho pensato che fosse ora di rompere con tutto ciò. Allora decisi di fare trentatré vergini, affinché mio nonno potesse riposarsi. È da lì che ho iniziato con la serie (…)”.

La Chola Poblete lavora alle opere di pane per la mostra al Mudec al panificio Davide Longoni di Milano

Le patate invece, che spesso usa sotto forma di snack prelevandole semplicemente dai sacchetti della multinazionale Lay’s, simboleggiano soprattutto la deprivazione del suolo latino-americano da parte dei colonizzatori (questi ultimi, ha spesso raccontato, le credevano frutti infernali perché crescevano sottoterra e volevano spingere gli indigeni a smettere di mangiarle).

Mentre il pane, con cui fa anche delle sculture (al Mudec ne sono esposte diverse realizzate per l’occasione), ricorda la fertilità della terra, l’originarietà e il nutrimento ma l’artista argentina lo ha anche paragonato all’acquerello: “Quando realizzo una maschera di pane o lavoro con l'acquerello fuso, entrambi seguono un percorso irreversibile. Da un lato, la pasta assume diverse sfumature di colore a seconda di quanto tempo rimane nel forno, cambiando forma, lievitando, crepando e bruciando. Allo stesso modo, l'acquerello distorce il disegno, si mescola con altre macchie e crea nuove forme. Ho la sensazione che questi materiali abbiano una qualità performativa, incarnando la mutevolezza e il flusso”. Senza contare che è un materiale deperibile.

Alcune opere de La Chola Poblete si possono ammirare alla Biennale di Venezia 2024 (fino al 24 novembre). Molte di più rimarranno invece al Mudec di Milano per tutta la durata della mostra a lei dedicata (fino al 20 ottobre soltanto). La personale “Guaymallénal” è a ingresso gratuito.

La Chola Poblete: Virgen de la leche, 2023 Photograph, 152 x 160 cm © La Chola Poblete

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

L’equilibrio instabile dell’opera di Bharti Kher (in mostra allo Yorkshire Sculpture Park)

Bharti Kher, Ancestor, 2022 (detail). Collection of the Kiran Nadar Museum of Art, Delhi. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Quando Bharti Kher teminò gli studi era indecisa se trasferirsi negli Stati Uniti o in India: lanciò una moneta e uscì l’india; lì tre mesi dopo avrebbe incontrato il suo futuro marito (l’artista indiano Subodh Gupta, da cui ha poi avuto due figli). Nata e cresciuta a Londra da una coppia di immigrati del Punjab, Kher allora (era l’inizio degli anni ’90), la patria dei suoi antenati l’aveva visitata una sola volta da bambina e in giro per le strade si faceva capire a fatica, ma andò tutto nel migliore dei modi. In quest’episodio, si può scorgere anche il segno della dualità che da sempre modella il suo lavoro. Poeticamente sospeso nell’equilibrio instabile tra fissa determinazione del pensiero e apparente imprevedibilità del fato.

Un bilanciamento che a volte richiede pronta flessibilità intellettuale. Così quando nel 2008, alla vigilia dell’inaugurazione di una mostra in un museo inglese (il Baltic Centre for Contemporary Art di Gateshead) il pezzo forte dell’esposizione, una scultura in fibra di vetro simile a un albero ("The Waq Tree") alta 5 metri è crollata, Kher l’ha lasciata a terra, senza farne parola con nessuno (qualche anno dopo raccontò che sul momento si era messa a piangere ma poi il marito l’aveva esortata a non scoraggiarsi e, di fronte all’opera ferita, si era resa conto che, in fondo, in quella nuova posizione stava anche meglio di prima).

Dalla fine di giugno l’artista anglo-indiana è protagonista di una vasta retrospettiva allo Yorkshire Sculpture Park di West Bretton in Inghilterra. Intitolata “Bharti Kher: Alchemies”, la mostra, si estende tra gli spazi espositivi interni e gli splendidi giardini del museo che celebrano la bellezza della campagna inglese in ogni stagione. Lì, tra le altre grandi opere tridimensionali, c’è anche “Ancestor” (lo scorso anno posizionata nel Central Park di New York), una donna simile a una divinità indiana, accanto alla cui testa escono quelle di 23 bambini. Descritta da Kher come "una forza femminile mitica e potente che rende omaggio alle generazioni precedenti e successive". Anche lei, però, frutto di una mediazione tra la volontà dell’artista e i capricci del destino.

L’idea della serie “Intermediaries” (di cui “Ancestor” fa parte), infatti, le venne alcuni anni fa durante una visita alla cittadina portuale di Kochi nell’India meridionale: "Ho visto tutte queste meravigliose bambole golu (statuette tradizionali della zona, spesso esposte durante le feste religiose n.d.r.)- ha detto a Vogue India- Ho chiesto a un artigiano locale di raccoglierne alcune per me, ma quando sono arrivate nel mio studio, molte erano rotte".

Bharti Kher, Virus XV, 2024. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

D’altra parte l’opera di Kher fa continuamente riferimento a trasformazione e metamorfosi (di concetti, di natura e di materiali). Cui allude anche il titolo della mostra (“Alchemies”), in cui sono esposte molte opere, realizzate appunto, in maniera ingannevole (le imponenti “Intermediaries”, per esempio, imitano delle fragili statue di terracotta ma sono in metallo, sembrano antiche ma non lo sono affatto). Mentre l’artista affronta il tema dell’identità e quello della spiritualità. Ma anche cose meno universali: “Sono una persona politica- ha spiegato in un’altra intervista- ma non reagisco alle situazioni man mano che accadono. L'arte non è un'azione impulsiva. È più simile a una combustione lenta. Ciò che facciamo quando creiamo arte è distillare e condensare. Condenso molto rumore e ricerca in un singolo momento".

L’elemento più conosciuto della sua pratica è il bindi (dal sanscrito bindu, che significa goccia, particella, punto, cioè il principio di tutto e non per niente queste decorazioni sono dette anche terzo occhio) con cui ha ricoperto l’immagine di un elefante morente a grandezza naturale (l’opera è poi diventata un record d’asta), ma anche dipinti astratti, specchi frantumati e quant’altro.

Tradizionalmente usato dalle donne indiane, il bindi un tempo ne indicava lo stato civile ma anche quello religioso ed etnico, mentre oggi viene principalmente usato come decorazione. Nell’opera di Kher è un simbolo complesso: fa riferimento all’identità privata (le donne alla sera lo tolgono) e a quella pubblica; al femminile e al maschile (spesso i suoi bindi sono a forma di serpente o spermatozoo); oltre che alla resilienza imperfetta delle tradizioni di fronte all’erosione di significato della globalizzazione (i bindi del presente sono spesso ninnoli a basso costo prodotti in ogni dove).

Ma Kher ha lavorato anche con altri oggetti-simbolo della femminilità nel subcontinente, come i bracciali di vetro e i sari. Riguardo a questi ultimi ha detto: "I sari custodiscono le storie delle nostre vite; il singolo pezzo di tessuto che indossi per tutta la vita, alla fine diventa il tuo sudario".

La serie di opere dedicate a quest’indumento si intitola “Sari Women” e, quasi sempre, rappresenta una figura femminile in scala uno a uno, di cui solo i piedi o le gambe sono visibili, mentre il resto del corpo (volto compreso) è nascosto da pile di tessuti drappeggiati (la bellezza e la violenza della negazione; l’assenza).

Allo Yorkshire Sculpture Park c’è più di una scultura di questa serie e, nonostante si tratti di lavori emotivamente disturbanti, non riescono a raggiungere il livello di vibrazione suscitata dalla semplicità funeraria di “The Deaf Room” (2001-2012) in cui l’artista ha costruito una stanza con mattoni scuri, ottenuti dalla fusione di 10 tonnellate di braccialetti di fibra di vetro usati. L’opera fa riferimento alle rivolte religiose nel Gujarat del 2002 in cui la violenza contro le donne era pratica diffusa.

In mostra pure il toccante calco in gesso di sei prostitute di New Delhi (“Six Women”, 2012-2014), restituite agli occhi del pubblico, nude, in una posa raccolta.

Del resto il genere femminile è protagonista dell’esposizione inglese di Kher che raffigura le signore in maniera molteplice e ambivalente. Il museo spiega l’argomento così: “Presenta la donna come madre, prostituta, mostro, guerriera e divinità, spesso ibridata con animali o come avatar della dea. I suoi personaggi mitologici confondono i confini tra genere umano, natura e narrazione, rivelando un potenziale espansivo e un nuovo significato”.

Bharti Kher: Alchemies” resterà allo Yorkshire Sculpture Park fino al 27 aprile 2025.

Bharti Kher, The Intermediary Family, 2018. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Bharti Kher, Alchemies, installation view at Yorkshire Sculpture Park, 2024. Courtesy the artist Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park.

Bharti Kher, Djinn, 2024. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Bharti Kher, Alchemies, installation view at Yorkshire Sculpture Park, 2024. Courtesy the artist Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park.

Bharti Kher, Six Women, 2012– 2014. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Bharti Kher, The deaf room, 2001–2012 (detail). Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Bharti Kher with Djinn, 2024. Courtesy the artist Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park.