Il Padiglione Stati Uniti è forse il più bello della Biennale d’Arte di Venezia 2019. Rappresentato dall’artista Martin Puryear, si intitola semplicemente: “Martin Puryear: Liberty/Libertà”. Attraversandolo si avverte una vibrazione nell’aria, una sorta di tensione silenziosa, che supera i precari equilibri della contemporaneità per sintonizzarsi su una visione più ampia. D’un tratto i rumori di fondo scompaiono e si ha la sensazione di trovarsi a cospetto della Storia. Eppure lì dentro ci sono solo sculture. Di legno per lo più.
Classe 1941, afro-americano, Martin Puryear si è laureato in biologia prima di passare all’arte. In Sierra Leone per un progetto di volontariato ha imparato il mestiere dei falegnami locali. Da quel momento in poi ha affiancato lo studio delle tecniche artistiche tradizionali a quelle usate dagli artigianali in diverse parti del pianeta (ad esempio il metodo con cui i nativi americani costruivano le barche, piuttosto che quello usato dagli ebanisti svedesi per fare i mobili). Il suo lavoro si regge sulla meticolosa ricerca della perfezione di una forma ridotta all’osso, eppure intensamente simbolica.
"Per più di cinque decenni- spiega la curatrice del Padiglione Stati Uniti, Brooke Kamin Rapaport- Martin Puryear ha creato un corpo di lavoro distinto da un complesso vocabolario visivo e da un significato profondamente ponderato. Il suo metodo rigoroso e il suo sottile potere di sfumatura hanno influenzato generazioni di artisti a livello internazionale "
Ovvio che questo significhi venire a patti con la materia. Ma Puryear non si limita a padroneggiare la scultura. Riesce nell’impresa quasi alchemica di mettere leggerezza dove dovrebbe stare peso, rigore dove a logica c’è la mollezza e via discorrendo. Basta leggere di che sono fatte le sue opere per rendersene conto.
"Quando Puryear venne a sapere che avrebbe rappresentato il nostro paese alla Biennale Arte-continua Rapaport- la sua risposta fu che lo avrebbe fatto sia da artista che da cittadino.”
Così lo scultore statunitense a Venezia presenta una riflessione fatta di simboli sulla libertà. Dove, per esempio, un cappello (il berretto frigio) basta a farne un’idea che si scrolla di dosso sia storia che geografia (indossato nell’antica Roma dai liberti, lo ritroviamo in capo alla Libertà che guida il Popolo di Delacroix e ancora in testa agli schiavi neri dei Caraibi impegnati a rivendicare l’uguaglianza sotto il dominio francese). Oppure un carro coperto è sufficiente a proiettarla nel terreno del viaggio verso l’ignoto e al tempo stesso a lasciala precipitare dolcemente nella routine dei lavori stagionali.
Un altro aspetto interessante del lavoro dell’artista è la contemporaneità dei simboli che utilizza. Infatti, per quanto spesso antichissimi, finiamo per renderci conto che non sono mai tramontati e li riconosciamo come parte della cultura pop.
Va, infine, sottolineato che la scultura di Puryear in foto il più delle volte non rende per niente l'idea.