Tra poco aprirà la Summer Exhibition della Royal Accademy mentre in UK ci si chiede se sia un abitudine da proteggere o da abolire

“The Meddling Fiend” (2024). Installation view at the Royal Academy of Arts, London. Photos by Maxwell Attenborough. All images © Nicola Turner

Fondata nel 1768, la Royal Accademy of Arts di Londra, dall’anno successivo, tutte le estati, organizza una collettiva un po’ particolare. Si tratta della mostra di arte contemporanea più longeva del mondo, e vi hanno esposto maestri intramontabili dell’arte britannica come Turner e Constable ma anche, in tempi più recenti, star come Tracey Emin (che nel 2025 sarà in Italia per un’attesa personale a Palazzo Strozzi di Firenze). Però è un evento aperto ai non professionisti, che vengono selezionati da un comitato di artisti già membri dell’accademia reale e dal presidente della Royal Accademy in persona. Si intitola “Summer Exhibition” e sta per essere inaugurata anche quest’anno. Tuttavia, secondo le opinioni dei commentatori, avrebbe perso tutto l’antico smalto.

Un parere condiviso dal critico d’arte britannico, Jonathan Jones, che in una bella e accalorata recensione apparsa su The Guardian ha scritto: “Solo perché la Royal Academy Summer Exhibition è in corso dal 1769 non significa che debba continuare per sempre (...) Io voto contro”.

La “Summer Exhibition” si svolge a Burlington House, nel centralissimo quartiere di Piccadilly, si tratta di un’esposizione incredibilmente estesa e in cui la maggior parte dei lavori presentati è in vendita. Tanto che il sito della Royal Accademy ha scritto: “(…) con un numero di opere disponibili per meno di £ 250, rendendo questa l'occasione perfetta per iniziare la tua collezione d'arte. Le vendite della Summer Exhibition sostengono gli artisti espositori e il lavoro di beneficenza della RA, inclusa la formazione della prossima generazione di artisti nelle scuole della Royal Academy.” Chiunque voglia essere preso in considerazione può mandare la sua candidatura per un massimo di due opere (fino a poco tempo fa per ognuna di queste si pagavano 40 sterline ma dato il numero esorbitante delle richieste la cifra è da poco aumentata). Sia come sia, ogni anno vengono scleti almeno un migliaio di pezzi (in genere artigianali, anche se nulla vieta che nel numero si nasconda qualche perla grezza), cui si aggiungono quelli degli artisti del comitato di selezione e di qualche altro nome noto.

Quest’anno in tutto si tratta di ben mille e duecento lavori. La coordinatrice è la scultrice britannica Ann Christopher (nata nel ’47, famosa per le forme semplici e misteriose cui arriva prendendo spunto da varie fonti come quelle architettoniche, naturali o paesaggistiche) che ha detto di essersi ispirata all’idea di creare spazio: “Ho intenzione di esplorare l'idea di creare spazio, sia dando spazio che prendendo spazio. Questo può essere interpretato in vari modi: fare spazio può significare apertura – fare spazio a qualcosa o qualcuno, fare spazio anche tra le cose. Sono convinta che gli spazi intermedi siano importanti quanto qualunque cosa quegli spazi separino”. Sarà, ma in mostra però, almeno a giudicare dalle fotografie, di spazio pare restarne proprio pochino (la quantità di cose esposte dà l’impressione di farsi sentire, anche se l’installazione, di gusto molto british, sembra equilibrata e gradevole).

Insieme a lei sono stati invitati altri artisti conosciuti come: Ackroyd & Harvey, Vivien Blackett, Diana Copperwhite, Andrew Pierre Hart, Permindar Kaur, Radhika Khimji, Kathy Prendergast, Rachel Whiteread e Charmaine Watkiss. Sono inoltre esposte opere di Ron Arad, Frank Bowling, Michael Craig-Martin, Conrad Shawcross, Clare Woods e Rose Wylie. C’è anche un lavoro di Anselm Kiefer (ancora per poco protagonista di una mostra imperdibile, sempre a Palazzo Strozzi) che Jonathan Jones ha commentato così: “La colossale xilografia di girasoli con centri neri di Anselm Kiefer, fiori da incubo incisi profondamente nella carta, penetra nella tua immaginazione come fantasmi su un campo di battaglia che spuntano dalle ossa dei soldati morti. Eppure è ridicolo appenderlo accanto a una serie di piccole composizioni floreali di natura morta. Questo splendore tedesco circondato dalla vacuità britannica nelle mostre delle Fawlty Towers (sitcom made in England ndr) ti fa chiedere: come abbiamo vinto la guerra?

Del resto Kiefer (come diversi altri famosi artisti tra cui di nuovo un gigante come David Hockney) proprio durante la Summer Exhibition della RA è stato premiato con il Charles Wollaston Award. Infatti, nel corso dell’esposizione vengono assegnate circa 70 mila sterile di premi in denaro tra cui il Charles Wollaston Award (25mila) e uno conferito per l’architettura (10mila).

L’architettura in genere ha uno spazio importante nella mostra. Anche quest’anno è così, e a coordinare questo settore è stato chiamato il collettivo inglese Assemble, in passato vincitore del prestigioso Turner Price (sempre molto britannico-centrico ma di importanza internazionale) e accademico reale. Poi altri architetti tra cui Elsie Owusu e Nigel Coates, lo studio creativo e Structure Workshop e ancora il collettivo artistico, Cooking Sections. Per il resto progetti artigiani e prototipi di ogni genere. I membri di Assemble hanno dichiarato: “Abbiamo accolto con favore proposte che si concentrano e riflettono sul fare come processo, opere incompiute, campioni di materiali, prototipi industriali, modelli funzionanti, manufatti di spazi di lavoro ed elementi agricoli. Creare spazio è un processo complesso, sfaccettato e collaborativo abbiamo fortemente incoraggiato collettivi, individui o organizzazioni al di fuori del mondo dell’architettura e dell’arte a contribuire”.

Nel cortile della Royal Accademy, infine, è stata invitata la scultrice inglese, Nicola Turner, per creare un’opera capace di dialogare in maniera diretta con il ritratto bronzeo del pittore, fondatore e primo presidente dell’istituzione, Sir Joshua Reynolds (la statua firmata da Alfred Drury, fu installata nel 1931). Turner con un importante passato come scenografa (ha lavorato nei teatri più importanti del mondo dalla Royal Opera House all’Opera di San Francisco) in genere usa oggetti trovati ma soprattutto materiali organici di recupero, come crine di cavallo e lana vergine prelevata così com’era dopo la tosatura, per dar vita a forme tentacolari, scure ed imbottite. Lo ha fatto anche alla RA, dove adesso si trova: “The Meddling Fiend”. L’opera si arrampica e si annoda intorno al piedistallo di Reynolds per poi espandersi ed allungarsi da dietro il pittore fino a congiungersi al suo pennello (è stato rappresentato così, intento a dipingere). La scena che ne esce è in bilico tra l’incontro alieno e l’immaginazione di Reynolds che prende vita. Del resto le creature di Turner sono sempre ambivalenti, scure e prive di testa come sono, a volte fanno pensare a ragni, altre ad ammassi di enormi lumache senza guscio, altre ancora a polipi dall’aria poco simpatica, ma soprattutto a forme di vita extraterrestri. Non si capisce mai se i loro approcci al paesaggio, piuttosto che alla statua di Reynolds, come in questo caso, siano amichevoli o aggressivi. In genere suscitano inquietudine e curiosità nello spettatore. Sul suo sito internet c’è scritto: “Turner indaga la dissoluzione dei confini, gli stati liminali e gli scambi continui tra gli ecosistemi. Nel farlo, esplora l'interconnessione tra vita e morte, umano e non umano, attrazione e repulsione. Combina oggetti trovati che contengono tracce di memoria, con le forme di forme viventi e materiali di materia organica ‘morta’ come il crine di cavallo, un materiale usato in precedenza per la biancheria da letto e l'arredamento e, in tal senso, vivo di storia e memoria”. Tuttavia “The Meddling Fiend”, con al posto dei piedi le gambe lingnee a rotelle di mobili d’epoca, ha un ché di goffo e insicuro nella postura che ispira un certo grado di fiducia (che però le varie circonvoluzioni dei tentacoli vanificano).

La “Summer Exhibition 2024” della la Royal Accademy of Arts di Londra aprirà al pubblico il prossimo 18 giugno, mentre la chiusura è fissata per il 18 agosto. Chi la visiterà potrà vedere opere di vario genere a firma di alcuni accademici reali e tanti sconosciuti, per farsi un’idea se davvero sia una consuetudine inglese da abolire o una bizzarra anomalia da salvaguardare. Mentre nel cortile ad accogliere il pubblico, oltre alla statua di Sir Reynolds, troverà gli enormi tentacoli imbottiti di “The Meddling Fiend” di Nicola Turner.

“The Meddling Fiend” (2024). Installation view at the Royal Academy of Arts, London. Photos by Maxwell Attenborough. All images © Nicola Turner

“The Meddling Fiend” (2024). Installation view at the Royal Academy of Arts, London. Photos by Maxwell Attenborough. All images © Nicola Turner

Biennale di Venezia| L’acqua è il filo conduttore del poetico Padiglione Gran Bretagna di Sir John Akomfrah RA

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

Poetico, monumentale ed epico al tempo stesso. Il Padiglione Gran Bretagna, “Listening All Night To The Rain” di Sir John Akomfrah RA per la a 60esima Esposizione Internazionale d'Arte - La Biennale di Venezia, in un certo senso è inafferrabile. Tante sono le storie, le immagini e i suoni che lo compongono. Si tratta di video ma anche di rumori, melodie, parole. C’è, ad esempio, la morte di David Oluwale , un britannico-nigeriano, annegato in un fiume dello Yorkshire (“lo Yorkshire-scrivono gli organizzatori- insieme alle Highlands scozzesi, sono luoghi cardine di tutta l'opera e fungono da dimora mitica per i vari personaggi”) dopo essere stato picchiato dalla polizia nel 1969, l’insetticida fumigato su un quartiere povero in anni non lontani, il botanico ed ecologista britannico, David Bellamy, che negli anni ’70 spiegava il riscaldamento globale in spezzoni di vecchi filmati, lavoratori di colore in una fabbrica di biciclette e poi l’acqua di un ruscello che scorre su fiori, perle e fotografie; il mare, la pioggia che cade, scene da un’alluvione in terre lontane, da un temporale e poi acqua, altre storie, filmati e ancora acqua. Un fiume di racconti e suggestioni talmente vasto da non poterlo interamente abbracciare con lo sguardo, l’udito, e persino con il pensiero.

D’altra parte all’artista britannico di origini ghanesi e ai suoi collaboratori hanno impiegato decenni nella ricerca di documenti storici per “contestualizzare la nostra esperienza del presente” e costruire questa mostra.

Commissionato dal British Council, “Listening All Night To The Rain”, è un’installazione video multicanale formata da otto diverse opere multimediali e sonore che “si intersecano e si sovrappongono” a partire dalla facciata del padiglione fino a ognuna delle diverse stanze a cui si accede dall’ingresso posteriore dell’edificio. Il titolo della mostra è quello di una poesia dello scrittore e artista cinese dell'XI secolo Su Dongpo, in cui l’autore esplorava la natura transitoria della vita durante un periodo di esilio politico. Si tratta di un componimento breve e toccante che recita: “Sono come una barchetta/ Che percepisce una distesa/ Di acqua infinita/ Qui sotto boschetti di alberi/ Faccia a faccia in camera da letto/ Ascoltando tutta la notte la pioggia.” Già perché l’acqua, nel padiglione di Akomfrah, è un elemento portante, un tema ricorrente e un filo conduttore. L’artista ha detto che "Se l'acqua non ha memoria, certamente può essere sequestrata per parlare poeticamente di questioni di memoria." Senza contare che l’acqua (spesso utilizzata da Akomfrah nel suo lavoro per via delle tratte degli schiavi e delle rotte migratorie) in Biennale simboleggia anche Venezia con la sua laguna, il mare, i commerci del passato, il fragile ecosistema del presente. Oltre allo scorrere della Storia.

E poi, quale elemento migliore per legare post-colonialismo e crisi ambientale? Temi di cui l’artista parla diffusamente, risalendo alle loro radici storiche, in quelli che lui stesso ha definito collage-visivi.

Listening All Night To The Rain” si sofferma anche sul potere evocativo della storia dell’arte, al di fuori di fotografia e riprese cinematografiche. Prima di tutto la pittura religiosa chiamata in causa dall’installazione degli schermi ed ispirata alle pale d’altare, per suscitare nel pubblico un “senso di contemplazione e fantasticheria”. Poi c’è la scelta dei colori di cui sono state dipinte le pareti del padiglione (rosso, giallo senape, blu oltremare, blu profondo), che prende a modello la tavolozza dello statunitense Mark Rothko, per “evidenziare i modi in cui l'astrazione può rappresentare la natura fondamentale del dramma umano”. Per finire, in mostra c’è un’installazione in cui vecchi strumenti tecnologici audio, appesi e lasciati fluttuare come una nuvola nostalgica, richiamano alla mente una lunga fila di scultori che hanno affidato la loro opera agli oggetti trovati.

La mostra è composta, come già detto, da otto lavori multimediali che l’artista ha chiamato “Cantos”, facendo riferimento al poema incompiuto dello scrittore statunitense Ezra Pound ma anche alla radice latina della parola canzone. I suoni, infatti, qui sono fondamentali: voci canzoni, musiche, rumori, c’è di tutto. Perché come ha detto lo stesso Akomfrah in un’intervista: “L’atto di ascoltare presuppone sempre un altrove. Il suono chiama da un aldilà.”

Nato ad Accra nel ’57, John Akomfrah, vive in Gran Bretagna fin dall’infanzia e si sente sinceramente inglese. Figlio di un politico che lavorava nel gabinetto di Kwame Nkrumah, primo Primo Ministro dopo la liberazione del Ghana dal giogo coloniale, sembrava destinato a un futuro radioso in patria, ma le cose presero presto una brutta piega. Il padre venne assassinato nel periodo immediatamente precedente al colpo di stato del ’66, così lui (che allora aveva otto anni) e la madre fuggirono prima negli Stati Uniti poi in Gran Bretagna. Ha studiato con risultati eccellenti in Inghilterra, dove si e fatto notare già nell’86 con il film “Handsworth Songs”. L’opera di cui era regista, parlava delle conseguenze delle rivolte di Handsworth (un quartiere vicino a Brixton, che fu a sua volta coinvolto nelle sommosse, per questo da noi l’evento è ricordato come Rivolta di Brixton dell’81) ed era radicale sia nella forma che nella sostanza. Handsworth Songs si aggiudicò un premio e da quel momento la fama di John Akomfrah non fece che crescere.

Gli argomenti di cui si occupa l’artista però non sono mai cambiati (razzismo, problemi post-coloniali, migrazioni) a modificarsi è stato l’atteggiamento dell’autore verso la sua patria d’adozione che nel tempo si è fatto più maturo e riflessivo, mentre la sua opera assumeva sfumature via via più poetiche; a tratti oniriche. Nel frattempo Akomfrah è stato nominato Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico e, tra le altre cose, gli è stato assegnato il premio Principessa Margaret (in ricordo della sorella della scomparsa regina). Adesso si chiama Sir John Akomfrah RA.

Per concludere il padiglione britannico di John Akomfrah, “Listening All Night To The Rain”, curato da Tarini Malik, è sicuramente molto bello. Ma quando lo si visita bisogna tenere presente che i video e gli audio-collages, non sono fatti per essere visti o ascoltati dall’inizio alla fine, perchè sono lunghissimi (il film al piano superiore, per esempio, dura diverse ore da solo) e strutturati in modo ondivago. Come gli altri resterà aperto per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024.

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah,  Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council. All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

John Akomfrah, Canto I, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah,  Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council. All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

John Akomfrah, Canto III, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

Still from Listening All Night To The Rain by John Akomfrah,  Listening All Night To The Rain is commissioned by the British Council. All artworks are courtesy of Lisson gallery and Smoking Dogs Films Copyright S

John Akomfrah, Canto IV, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

John Akomfrah, Canto VII, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

John Akomfrah, Canto VIII, Listening All Night To The Rain, British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

John Akomfrah and Tarini Malik. British Pavilion 2024 Photo: Jack Hems

Biennale di Venezia| “What Work Is” il Padiglione Romania di Șerban Savu tra realismo socialista e contemporaneità

Șerban Savu Pavilion of ROMANIA WHAT WORK IS 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Courtesy

Dipinti figurativi che catturano scene sospese e mosaici sono le opere scelte da Șerban Savu per “What Work Is” il Padiglione Romania alla 60esima Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia. Savu, infatti, si interroga sul presente del Paese usando gli strumenti di propaganda del realismo socialista che però sovverte in maniera sottile.

Curata da Ciprian Mureşan la mostra ha due sedi: l’edificio dei Giardini in cui è in corso un’esposizione di pittura e l’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Palazzo Correr. Già perché l’artista nato a Sighișoara (una cittadina nella storica regione della Transylvania) per tutta la durata della manifestazione lagunare dirigerà un team di mosaicisti delle scuole d’arte di Iaşi, in Romania e di Chişinau, in Moldavia, impegnati a creare una scena di pic-nic in scala monumentale che verrà poi installata in Moldovia (la cui storia è strettamente legata a quella rumena). Il mosaico era una tecnica ideale per questo progetto (che si ispira a un precedente dipinto di Savu), perché, tipico delle chiese ortodosse, conobbe un boom negli anni ’30 in tutti i paesi del blocco sovietico come forma di abbellimento (e propaganda) nella cornice altrimenti spoglia dell’architettura brutalista. Nicolae Ceaușescu prediligeva quelli che rappresentavano lavoratori eroici. Savu invece catturerà una scena di svago che porta alla mente la Francia borghese della seconda metà dell’800 e le pubblicità americane degli anni ’50. Con un’atmosfera, però, tipicamente est europea.

A Șerban Savu del resto piace dipingere immagini ibride: in bilico tra città e campagna, tra passato e presente, tra ordine e disordine. Ama anche quelle mistiche ma, pure in questo caso, non è la religione a interessarlo direttamente ma la sua fusione con l’arte sociale (per esempio: le chiese in fase di restauro dopo il crollo del Comunismo). Non a caso ai Giardini i suoi dipinti sono esposti come polittico: ben 45, a coprire la grande parete frontale dello spazio veneziano. Le opere, come anticipato dal titolo, sono dedicate al lavoro, o meglio ai momenti di sospensione dell’attività, che non si possono definire tempo libero ma nemmeno vacanza: ci sono archeologi che si riposano, un pescatore dorme accanto alle canne ecc.. Attraverso queste scene sospese, dove i protagonisti appaiono fuori posto e il mondo sembra aver smesso di girare, l’artista intende parlare del suo paese, della divisione delle patrie dei lavoratori migranti rumeni (che lavorano in un paese e spendono il loro tempo libero in un altro) ma anche porsi domande su cosa sia il lavoro stesso e quali siano i suoi confini. Apparentemente uno strano tema per la Biennale nel 2024, tuttavia, esprime il disagio delle popolazioni est europee nel affrontare la lunga fase di transizione che dal crollo del comunismo ha condotto allo stabilizzarsi del sistema capitalista.

Savu spiega così la questione: “Partendo dal tema del lavoro e del lavoratore, prediletto nell’arte realista-socialista, ma allontanandosi da esso, i personaggi delle mie opere non sono né eroici né utopici, sono persone comuni intrappolate tra mondi e sistemi, sfuggire sia alla propaganda che alla produttività economica. Questa sospensione tra lavoro e tempo libero delinea uno spazio anarchico, uno spazio di libertà personale, a cui faccio riferimento attraverso il filtro della storia dell’arte.”

Di nuovo ai mosaici si riferiscono i modellini di edifici installati nel Padiglione. Miniature di cui gli organizzatori scrivono: “I modelli, che vanno dal condominio in cui Savu è cresciuto a una chiesa in rovina e a un sito archeologico, presentano mosaici che si discostano dagli usi tradizionali di questo mezzo nell'arte religiosa e dalla glorificazione del lavoro nell'arte socialista. Invece di rappresentare conquiste industriali o scene mistiche, i mosaici di Savu trasmettono silenzio, ambiguità e confusione.

What Work Is” il Padiglione Romania di Șerban Savu (fino al 24 novembre), non è tra i più innovativi della la Biennale di Venezia 2024, ma esprime un punto di vista e una riflessione che difficilmente verrebbero in mente a un cittadino dell’Europa occidentale, per questo va visto. Senza contare che l’artista rumeno è un gran pittore e, la percentuale di costrizione realistico-socialista che impone alle sue composizioni, unita alla libertà espressiva che si concede, le rende misteriose e narrative ma soprattutto decisamente godibili.

Pavilion of ROMANIA WHAT WORK IS 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Matteo de Mayda Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ROMANIA WHAT WORK IS 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Matteo de Mayda Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ROMANIA WHAT WORK IS 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Matteo de Mayda Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ROMANIA WHAT WORK IS 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ROMANIA WHAT WORK IS 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ROMANIA WHAT WORK IS 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Matteo de Mayda Courtesy: La Biennale di Venezia