Tra natura e storia dell’arte la “Foresta del Silenzio” di Toshihiko Shibuya si è fermata a Kyoto:

Toshihiko Shibuya, Forest of Silence- Between Art and Nature. All images courtesy Toshihiko Shibuya © Toshihiko Shibuya

L’artista giapponese Toshihiko Shibuya ha concentrato il suo impegno in un lavoro meditativo e minimale fatto di nevicate invernali, proliferare di muschi, uova primaverili e funghi autunnali, voli ineffabili di semi trasportati dal vento durante l’estate e di fiori gentili sbocciati da rustiche erbacce tra l’asfalto di ogni dove. Un’opera che, metodicamente, ogni anno, segue il succedersi delle stagioni. Al centro della quale la contemplazione della natura ha un ruolo quasi sacrale ma che l’artista usa anche per trasmettere una sorta di messaggio politico: “La natura non si può controllare. Invece di cercare di dominarla, credo che dovremmo usarla abilmente a nostro vantaggio senza allontanarci mai da lei.”

Per dirlo con il suo lavoro Shibuya, cerca di intervenire il meno possibile sull’oggetto della sua opera: il paesaggio. Così, capita che per rappresentare la rinascita della vita durante la primavera esponga un vaso pieno di muschio che, annaffiato con costanza, fa da substrato a semi sconosciuti all’autore, germinati in tanto graziose quanto minuscole piantine. Un fragile ecosistema che fa pensare al bosco ed evoca urgenze ambientali. Tuttavia l’artista preleva il muschio sempre in prossimità del luogo in cui espone (come farebbe uno scienziato con dei campioni) aggiungendo inaspettate volute concettuali all’opera. Di muschio, infatti, esistono migliaia di varietà diverse, accomunate dal fatto di non avere radici e dalle origini antichissime della specie (si stima che risalga a 460milioni di anni fa). Noi però tendiamo a utilizzare il termine muschio al singolare, esprimendo in questo modo sia la nostra disattenzione verso le forme di vita minuscole, sia l’incapacità di coglierne l’importanza nel contesto di provenienza, ma soprattutto la nostra inadeguatezza percettiva di fronte al pullulare di forme di vita diverse da noi. L’assenza di radici, i semi portati dal vento, spingono poi a riflettere su quanto siano relative le etichette di immobile o stanziale affibbiate alle piante.

Toshihiko Shibuya, di solito, ricopre il muschio con una moltitudine di puntine a testa sferica (a volte bianche altre colorate) per sottolineare il proliferare della vita e far pensare a cellule, spore, uova e funghi (ma anche a costellazioni). Lo ha fatto anche nelle opere più recenti presentate durante la sua mostra personale a Kyoto.

Toshihiko Shibuya, Forest of Silence- Between Art and Nature. All images courtesy Toshihiko Shibuya © Toshihiko Shibuya

L’esposizione intitolata “Forest of Silence- Between Art and Nature” si è tenuta a marzo alla Art Spot Korin una piccolissima galleria (composta da sue sole stanzette di pochi metri quadrati per una, su due piani) nei vicoli del centro storico di quella che fu la capitale del Giappone (fino al 1869). “Volevo spazi piccoli- ha detto- Ad esempio, le dimensioni sono quelle di una sala da tè giapponese”.

Dove ha presentato una coppia di riuscitissime installazioni che, in effetti, hanno tratto giovamento dall’ambiente raccolto della sede espositiva. In entrambe c’erano tronchi di legno (quattro in tutto, trovati nella foresta e prelevati così com’erano) dipinti di bianco e ricoperti da centinaia di candide puntine a testa sferica. La scultura più grande era posizionata in orizzontale nella stanza al secondo piano, insieme a lei, a parete, una grafica astratta del 2005 intitolata “Change of season” (che sembrava citare i dipinti della serie dedicata alle ninfee da Claude Monet attualmente conservati all’Orangerie di Parigi), ne sottolineava la forma, turbandone, contemporaneamente, il sonno: “Ho espresso un senso di quiete e tensione allo stesso tempo”:

Al piano terra Shibuya ha invece instellato tre sculture in legno verticali e due ciotole di muschio (prelevato a Kyoto, naturalmente). L’opera era raccolta, ma animata da una sorta di scambio dinamico tra gli elementi della composizione e per quanto possa sembrare strano richiamava alla mente i giardini zen ma anche certi gruppi di figure dipinte dagli antichi maestri. Interessante è pure il fatto che, ridotta all’osso, l’installazione si reggesse sul dialogo tra linee bianche verticali e cerchi verdi orizzontali (tutte forme pure inventante dall’uomo).

Shibuya ha detto a proposito di quest’opera: “Lo scopo era portare nello spazio il respiro del muschio vivo”.

Toshihiko Shibuya, Forest of Silence- Between Art and Nature. All images courtesy Toshihiko Shibuya © Toshihiko Shibuya

L’essenzialità delle composizioni, pur nella selva di forme biomorfe evocate, richiamava l’universo delle idee e momenti della storia dell’arte, in teoria, ben distanti dal lavoro dell’artista (ad esempio, il Rinascimento e l’Astrattismo geometrico). Mentre i campioni di muschio erano un riferimento esplicito ai musei di storia naturale, con le scoperte e gli enigmi irrisolti lì conservati.

Toshihiko Shibuya vive e lavora a Sapporo (sull’isola di Hokkaido, nella parte settentrionale del Giappone), le opere esposte a Kyoto fanno parte della serie “Generation”. Il suo nome è particolarmente noto per lo Snow Pallet Project che lo scorso inverno ha raggiunto la sua diciasettesima edizione.

Toshihiko Shibuya, Forest of Silence- Between Art and Nature (detail). All images courtesy Toshihiko Shibuya © Toshihiko Shibuya

Toshihiko Shibuya, Forest of Silence- Between Art and Nature. All images courtesy Toshihiko Shibuya © Toshihiko Shibuya

Toshihiko Shibuya, Forest of Silence- Between Art and Nature. All images courtesy Toshihiko Shibuya © Toshihiko Shibuya

Toshihiko Shibuya, Forest of Silence- Between Art and Nature. All images courtesy Toshihiko Shibuya © Toshihiko Shibuya

A Palazzo Strozzi Anselm Kiefer ha ricongiunto l’arte di oggi a quella del Rinascimento in una mostra imperdibile

L'enorme dipinto “Engelssturz” (“Angelo Caduto”) nel cortile di Palazzo Strozzi-“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Quando Palazzo Strozzi ha reso noto che Anselm Kiefer, in occasione della mostra a lui dedicata, avrebbe realizzato un’opera per il cortile rinascimentale dell’edificio, in molti hanno pensato che avrebbe presentato una delle sue torri apparentemente instabili; forse una di quelle fatte di containers o magari di rovine polverose, come già aveva fatto al Pirelli Hangar Bicocca ormai vent’anni fa (lo spazio espositivo milanese celebrerà la ricorrenza il 21 di aprile). Invece no, l’artista tedesco si è cimentato con una enorme tavola, forse una delle più grandi mai completate: un dipinto alto sette metri, talmente sovradimensionato da occupare interamente l’interno del loggiato e svettare fin quasi alle finestre del primo piano (l’opera è stata posizionata con il contributo della Fondazione Hillary Merkus Recordati). Engelssturz” (“Angelo Caduto”), così si chiama il quadro, dà il nome alla mostra, ne illustra il filo conduttore , ed è un monumentale confronto di Kiefer con la pittura del Rinascimento, risolto con un angelo lieve (quasi ineffabile, pure se in parte cupo e rugginoso), dipinto su un cielo piatto e sfavillante di foglia d’oro; che alla base dell’opera, ritrova però, i volumi materici tipici dell’artista, tanto densi che gli abiti vuoti, rigidi sulla superficie pittorica e poi ancora dipinti, a un primo sguardo, neppure si vedono.

“Engelssturz” è, per il momento, anche un’opera pubblica (chiunque per vederla o fotografarla sarà libero di entrare nel cortile di Palazzo Strozzi), per realizzarla, l’artista ha avuto bisogno di osservare lo spazio dall’alto. Questo è successo parecchio tempo fa, dato che Angeli Caduti” (“Fallen Angels”), l’importante personale di Anselm Kiefer che si è inaugurata venerdì scorso a Firenze, ha avuto una gestazione durata sette anni.

Lui, che qui propone vecchi lavori ma anche tante nuove produzioni (in tutto 25 pezzi, per la maggior parte di grandi dimensioni, tra cui una spettacolare e complessa installazione), una volta ha detto: “Lavoro a molti progetti contemporaneamente. Il risultato è simile a un giardino dove crescono molte piante contemporaneamente”.

Alcune opere della serie “Heroische Sinnbilder” (“Simboli Eroici”) in mostra a Firenze-“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Una di quelle frasi che probabilmente avranno fatto storcere il naso ai suoi conterranei, che, a momenti gli rimproverano l’aria da austero vate, altre le radici antiche della sua arte, altre ancora l’erudizione. "Solo che noi in questo paese non abbiamo ancora capito bene cosa abbia da proclamare", ha commentato una volta un critico tedesco sul quotidiano Die Welt. Ma probabilmente il fatto è solo che le cose tra Kiefer e la Germania sono cominciate male. Alla fine degli anni ’60, infatti, l’artista presenta la serie “Heroische Sinnbilder (“Simboli Eroici”: titolo rubato a un articolo pubblicato nel ’43 sulla rivista ufficiale delle arti naziste), in cui si fa fotografare in vari luoghi europei (tra cui alcuni occupati dall’esercito) mentre indossa la divisa della Werhmacht del padre e alza il braccio destro in segno di saluto: apriti cielo! L’intenzione dell’artista era quella di spingere provocatoriamente al dialogo i suoi connazionali, esortandoli ad affrontare il rimosso; i tedeschi da parte loro, invece, si sono offesi a morte e non l’hanno mai completamente perdonato. Il ché a conti fatti è bizzarro, visto che Kiefer e la sua arte sono molto germanici.

A Palazzo Strozzi ci sono anche quattro fotografie della serie “Heroische Sinnbilder. Per l’occasione sono state stampate su lastra di piombo, lavorate a simulare degli stendardi, giacchè per lui nessuna opera è mai finita (finchè rimangono nel suo studio continua a lavorarci sopra, così, a volte, un pezzo cominciato negli anni 60 viene presentato in forma rivista nel 2024). E a vederle adesso, lievi sulla distesa argentea della superficie metallica, fanno pensare alla pittura romantica tedesca e a Caspar David Friedrich, con il suo “Viandante sul mare di nebbia”, in particolare. D’altra parte Kiefer è così: un indistricabile gomitolo di colti riferimenti pittorici, letterari, filosofici, poetici, teologici, astronomici, scientifici e persino cabalistici, che trovano inaspettatamente terreno fertile nello stile, nelle tecniche e nel pensiero, del tutto personali, dell’artista.

Una stanza della mostra, in fondo il dipinto con carciofi "Cynara"-“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Kiefer è uno dei massimi artisti viventi- ha detto Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi e curatore della mostra, Arturo Galansino- e la sua ricerca attinge dalla letteratura, dalla filosofia e dalla storia, in una riflessione continua sulla natura dell’essere umano.

Di fronte all’ospite d’onore di un evento certe frasi sono dovute ma Kiefer è un artista al cospetto del quale la rilevanza del lavoro di chiunque altro si incrina. Uno degli unici due contemporanei esposti al Louvre, l’unico ad aver posato una complessa installazione permanente, pittorica e scultorea, al Pantheon di Parigi (nel 2020 su incarico di Macron in persona). Del resto i francesi lo adorano e lui li ricambia vivendo e operando nel loro Paese (sta a Parigi e ha uno studio di 3mila 300 metri quadri a Croissy-Beaubourg, alle porte della capitale; mentre l’ex fabbrica di seta di Barjac, La Ribaute, sua ex-abitazione-studio nel sud, in cui ha costruito un dedalo di gallerie e percorsi sotterranei, sculture, dipinti e padiglioni, è aperta al pubblico). Pluripremiato (anche dalla Germania con la Croce al Merito) è conosciuto per l’impegno che mette nel lavoro e per l’intransigenza verso un certo tipo di collezionismo e di mercato dell’arte (ad esempio si rifiuta categoricamente di esporre in famose fiere, nonostante sia rappresentato dalla prestigiosa Gagosian Gallery). Anche per questo fa dipinti così grandi (ritenuti dal mercato difficili da vendere e movimentare). Che non sono, oltretutto, per niente facili da portare a termine: Kiefer per dipingere viene issato con un carrello elevatore da cui applica il colore con delle spatole (non usa pennelli), come documentato dal regista Wim Wenders nel film “3D Anselm” (uscito lo scorso anno). Usa i materiali più disparati (piante, terra, vetri rotti, metalli, vestiti, semi, paglia, radici ecc.). Anche se predilige quelli che, in passato, usavano gli alchimisti (come il piombo). In mostra a Palazzo Strozzi c’è persino un dipinto (“Cyrana”, dedicato alla mitologia greca e alla storia della ninfa che respinse Zeus) in cui la foglia d’oro è disseminata di veri carciofi (seccati e dorati). E poi fa esperimenti, una volta ha spiegato: “Non uso colori convenzionali e nemmeno la vernice. Uso le sostanze. Una macchia sbiadita che pare rossa, per esempio è ruggine, semplicemente ruggine.” Dice che vuole estrarre "lo spirito che già vive dentro” i materiali e per farlo sottopone le opere a bagni acidi o si limita a colpirle con asce e bastoni.

Visitatori guardano l'installazione “Vestrahite Bilder”(“Dipinti Irradiati”)- “Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Una delle stanze più stupefacenti della mostra fiorentina di Kiefer, definita da Galansino “una sala che è un colpo al cuore. (…) un ambiente veramente immersivo”, è quella dedicata all’installazione “Vestrahite Bilder(“Dipinti Irradiati”, 1983-2023), composta da sessanta opere di diverso formato, che sono stati irraggiate con il plutonio.

La distruzione è un mezzo per fare arte- ha detto- Io metto i miei dipinti all’aperto, li metto in una vasca di elettrolisi. La scorsa settimana ho esposto una serie di dipinti che per anni sono stati sottoposti a una sorta di ‘radiazione nucleare’ all’interno di container. Ora soffrono di malattie da radiazione e sono diventati temporaneamente meravigliosi”.

I quadri sono stati disposti l’uno accanto all’altro (come si usava anche nel Rinascimento), ad occupare tutte le pareti e l’intero soffitto, e lasciati nella penombra, mentre uno specchio a pavimento permette di vedere al di sopra della propria testa ma, nello stesso momento, dà l’impressione di precipitare (qui, come sempre succede con Kiefer, i riferimenti sono infiniti a cominciare dal tema dell’angelo caduto e dalla Sindrome di Stendhal, per arrivare alla fragilità della vita e alle catastrofi nucleari nella Storia). L’opera è vibrante e la cornice quattrocentesca dell’edificio, fiduciosa e leggere, la completa, le regala la forza (che in un luogo più cupo o privo di storia non avrebbe) per sostenere le reazioni viscerali del pubblico di fronte a un tale bombardamento di simboli e pittura. D’altra parte è Kiefer stesso a ripetere che l’arte è una questione di equilibrio tra ordine e caos. E poi Palazzo Strozzi, che ha visto per la prima volta a vent’anni nel corso di un viaggio in Italia, è uno dei suoi edifici storici preferiti.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Nato l’8 marzo del ’45 a Donaueschingen (graziosa cittadina tedesca nel circondario della Foresta Nera), che proprio quella notte venne bombardata, Anselm Kiefer, avrebbe potuto morire appena nato se non fosse stato all’ospedale, visto che la loro casa venne abbattuta durante l’attacco. Da bambino giocava con le macerie con cui amava costruire casette e piccoli edifici, aveva anche una memoria straordinaria (ha dichiarato che in quel periodo sapeva a memoria 200 poesie) e leggeva molto (passione che non lo avrebbe mai abbandonato). E’ stato iscritto alla facoltà di Diritto e Lingue Romanze che ha però abbandonato per l’Accademia di Belle Arti di Friburgo in Brisgovia prima e l'Accademia d'Arte di Karlsruhe poi. Oggi è uno degli artisti più stimati al mondo e, almeno secondo una rivista mensile tedesca, anche uno dei più ricchi di Germania (lui dice di no) nonostante le sue quotazioni in asta non raggiungano quelle di altri professionisti (ad esempio, l’inglese David Hockney, l’italiano Maurizio Cattelan, o lo statunitense Jeff Koons), le sue opere sono esposte in un consistente numero di autorevoli musei nel mondo. Ha avuto due mogli e ben cinque figli. Chi lo ha conosciuto di persona, dice che, a dispetto dell’aria ascetica e nonostante la vasta cultura di cui dà prova, sia un tipo scherzoso e relativamente alla mano, oltre ad essere un appassionato di macchine e un guidatore impavido.

Con l’Italia ha un legame consolidato (già nell’80 ha esposto alla Biennale di Venezia, mentre nel ’97 è tornato in laguna in occasione dell’Esposizione Internazionale d’Arte per una personale al Museo Correr). Come ha testimoniato la grande mostra tenutasi a Palazzo Ducale di Venezia due anni fa (sempre in concomitanza con la Biennale) e adesso la personale a Palazzo Strozzi. Quest’ultima tuttavia, supera la precedente, perché se nel primo caso Kiefer ha bisticciato con la location per trasformarla in qualcosa di diverso, qui mette in fila le note dominanti della sua poetica modellandole intorno alla melodia degli angeli caduti. Un tema che parla del legame tra divino e terreno ma che fa pure un po' cattivo ragazzo e, anche se in una maniera tortuosa, gli si adatta.

Angeli Caduti” (“Fallen Angels”) la personale di Ansel Kiefer rimarrà a Palazzo Strozzi di Firenze fino al 21 luglio 2024. E’ una mostra assolutamente da non perdere.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Arturo Galansino e Anselm Kiefer osservano i particolari di un'opera in mostra- “Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ludovica Arcero, SayWho.

Ansel Kiefer parla nella stanza in cui è collocata l'installazione "Dipinti Irradiati"- “Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ludovica Arcero, SayWho.

Le sculture biomorfe di Ranjani Shettar nell’oasi tropicale del Barbican Conservatory di Londra

Ranjani Shettar, In the thick of the twilight, 2023. Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songs on the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar © Max Colson, Barbican Art Gallery.

Per lo più ispirate alle piante, anche se astratte, le grandi sculture sospese dell’artista indiana Ranjani Shettar, mixano materiali industriali e completamente naturali che lei lavora con tenacia, seguendo antichi e desueti metodi artigianali indiani. Nel 2018, ad esempio, ha realizzato una grande opera per il Metropolitan Museum di New York, saldando e modellando la base in acciaio inossidabile del lavoro, colorando la mussola, per poi legare il tessuto all’armatura metallica con pasta di tamarindo: ha detto che questa tecnica l’ha rubata ai fabbricanti di bambole di una piccola città nel sud dell’India.

Da alcuni mesi Ranjani Shettar ha inaugurato una mostra nell’oasi tropicale in stile brutalista del Barbican Conservatory di Londra. Una superficie enorme in cui, tra percorsi labirintici e muri in cemento armato, prosperano ben mille e 500 specie di alberi e piante provenienti da tutto il mondo e che ogni anno accoglie un milione e mezzo di visitatori. L’esposizione, commissionata dal Barbican, si intitola “Cloud Songs on the Horizon” ed è il primo grande show istituzionale dedicato all’artista indiana in Europa. Particolarmente adatto per il tema delle opere, ad una visita primaverile.

Nata nel ’77 a Bangalore, Shettar tuttavia, ha già ricevuto premi e riconoscimenti importanti sia nel suo Paese che negli Stati Uniti. Le sue opere fanno tra l’altro parte delle collezioni permanenti del Met e del MoMA di New York, oltre che del Kiran Nadar Museum of Art di Delhi. La commissione per il Barbican Conservatory, infatti, è stata frutto della collaborazione con quest’ultimo.

Di Shettar, la fondatrice e presidente dell’enorme polo culturale indiano (100mila metri quadri), Kiran Nadar (moglie del miliardario Shiv Nadar, che condivide con lei una collezione faraonica di oltre 6mila opere d’arte), ha detto: “La pratica di Ranjani Shettar è stata di particolare interesse per il Kiran Nadar Museum of Art (KNMA) da quando abbiamo acquisito e installato per la prima volta il suo lavoro al museo nel 2011. Abbiamo osservato da vicino la sua evoluzione artistica che unisce una rara sensibilità ad un lavoro paziente. Il progetto avviato presso il Barbican Conservatory è ben allineato con i nostri sforzi di collaborazione volti a portare visibilità e attenzione critica all’enorme talento degli artisti indiani e dell’Asia meridionale in tutto il mondo”.

Ranjani Shettar per il giardino tropicale londinese ha creato cinque sculture sospese, che ricordano fiori di plumeria ed heliconia, ma anche boccioli, semi, foglie secche, cellule e forme di vita microscopica (ma restituite in grande scala). Tra loro anche un tronco di legno di teak di recupero, modellato fino a trasformarsi in qualcosa di strettamente connesso con la natura ma in qualche modo enigmatico. Il lavoro di Shettar trae ispirazione dal paesaggio per mettere in scena forme astratte biomorfe, che a momenti lasciano intravedere un legame con la maniera di rappresentare degli antichi maestri indiani, e a volte si tingono di una sfumatura vagamente fantascientifica o semplicemente inquietante. Sarà forse per la larga scala dei suoi interventi. In genere, però, a prevalere è una sensazione di ingenua meraviglia, che l’artista sottolinea con un’illuminazione drammatica capace di rendere l’insieme delle opere simile a un cielo stellato o allo spettacolo che si può godere nel subcontinente durante il Diwali (la festa della luce).

Cloud Songs on the Horizon” di Ranjani Shettar rimarrà al Barbican Conservatory di Londra fino a luglio 2024 (si tratta anche di un evento gratuito, perciò, i biglietti vanno prenotati con largo anticipo).

Ranjani Shettar, Cloud songs on the horizon, 2023. Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songs on the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar © Max Colson, Barbican Art Gallery

Ranjani Shettar, Cloud songs on the horizon, 2023. Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songs on the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar, Talwar Gallery, New York | New Delhi © Ranjani Shettar, Talwar Gallery

Ranjani Shettar, On the Wings of Crescent Moons, 2023. Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songon the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar © Max Colson, Barbican Art Gallery

Ranjani Shettar, Above the crest, 2023. Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songs on the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar © Max Colson, Barbican Art Gallery

Ranjani Shettar, Moon dancers, 2023. Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songs on the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar © Max Colson, Barbican Art Gallery.

Ranjani Shettar, Cloud songs on the horizon, 2023 (detail) Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songs on the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar, Talwar Gallery, New York | New Delhi © Ranjani Shettar, Talwar Gallery

Ranjani Shettar, In the thick of the twilight, 2023. Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songs on the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar © Max Colson, Barbican Art Gallery.

Ranjani Shettar, Cloud songs on the horizon, 2023 (detail) Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songson the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar, Talwar Gallery, New York | New Delhi © Ranjani Shettar, Talwar Gallery