“The Evidence of Things Not Seen” la più grande mostra di Carrie Mae Weems in Svizzera, ancora per poco a Basilea

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Una donna e una bambina siedono al tavolo della cucina, la luce cade dall’alto, il lampadario a forma di cono ricorda il chiarore emanato da un occhio di bue, entrambe le protagoniste si mettono il rossetto con movimenti speculari. “Woman and Daughter with Make Up” parte di “Kitchen Table”, la serie più famosa dell’artista statunitense Carrie Mae Weems, è probabilmente una delle immagini più belle della storia dell’arte recente. Nella sua finta spontaneità, la fotografia in bianco e nero costruita con attenzione da Weems (che qui è sia autrice che modella), parla di costrutti sociali che incidono sul sé, unione e separazione, vicinanza e solitudine, identità di genere, presente e futuro.

Ho sempre avuto un esercizio di autoritratto nelle mie lezioni- ha detto Weems che, nel tempo. ha insegnato fotografia in varie università degli Stati Uniti -Invariabilmente, tutte le studentesse erano in qualche modo coperte (…) Facevano sempre qualcosa per oscurare la chiara visione di se stesse. Perché le donne sono sempre state interessate ad essere oggetti, perché siamo state addestrate ad essere oggetti (…)”.

Questa immagine, insieme alle altre che costituiscono la serie “Kitchen Table”, fa parte della vasta retrospettiva “The Evidence of Things Not Seen” che il Kunstmuseum Basel (il museo d’arte contemporanea di Basilea) ha dedicato a Carrie Mae Weems: la prima artista afroamericana invitata a fare una personale al Guggenheim di New York (2012), la prima donna di colore a vincere il prestigioso premio internazionale di fotografia Hasselblad Award (2023). D’altra parte la mostra, la più grande che la Svizzera le abbia mai tributato, che si basa su altre esposizioni simili che dal 2022 si sono tenute in alcuni musei europei (Württembergischer Kunstverein di Stoccarda, Fundación MAPFRE e Fundación Foto Colectania di Barcellona, Barbican Centre di Londra), mette in fila ben trentacinque anni di lavoro dell’artista, attraverso un corpus di opere notevole: video, installazioni, testi e naturalmente fotografie.

Untitled (Eating Lobster), The Kitchen Table Series, Carrie Mae Weems, 1990/1999. Silver gelatin print,104.7 x 104.7 x 5.7 cm © bei der Künstlerin / the artist Courtesy of the artist and Gladstone Gallery

Il mezzo che Weems ama di più: “Credo- ha detto una volta- che la prima volta che ho preso in mano quella macchina fotografica, ho pensato: 'Oh, OK, questo è il mio strumento. Questo è tutto'” Allora, Weems aveva vent’anni e la macchina gliela aveva regalata il suo ragazzo dell’epoca: da quel momento in avanti Weems non avrebbe più smesso di fotografare. All’inizio concentrandosi su quello che meglio conosceva e sulla documentazione della realtà: dedica una serie alla vita nella sua città (“Environmental Profits” del ’78) e una ai rapporti tra lei i suoi familiari ed amici (“Family Pictures and Stories”, anche questa cominciata nel ’78 ma finita cinque anni dopo). Per poi capire che per lei fare fotografie significava anche mettere in scena. Talvolta in maniera ricercata, con soggetti che emergono dal buio dello sfondo, a cui sembrano voler ritornare da un momento all’altro, senza, tuttavia mostrarsi mai al mondo. E’ il caso della serie “The Louisiana Project” in cui le maschere che occultano le persone diventano modi per esprimere commenti sulla razza, filtri tra se e gli altri, dimostrando contemporaneamente, in maniera distorta, la propria identità senza però mai dimenticare lo sguardo altrui.

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Gina Folly

Del resto Carrie Mae Weems, nata nel ’53 a Portland in Oregon, durante il periodo della sua formazione ha studiato folklore all’Università della California di Berkeley, ed è naturale che abbia finito per affrontare il tema delle maschere e della teatralità. Nell’opera di Weems, ad ogni modo, l’ingiustizia, la maniera in cui la società rimodella l’identità sulla base della razza e del genere, sono argomenti che tornano costantemente, e non fa eccezione “The Louisiana Project” (così come le altre create dall’artista). In un’intervista, lei ha spiegato: “Da giovanissima ero già un esistenzialista. Quando avevo otto anni uscivo dai gradini di casa mia e guardando il cielo mi chiedevo perché eravamo qui in questo posto e quale sarebbe stato il mio ruolo nella vita. Mi interessavano la politica e la giustizia sociale. Cosa significava vivere una vita aperta e libera? Quali erano i problemi profondi dell’umanità che insistevano sul fatto che il ruolo del potere fosse quello di sottomettere gli altri? Qual è la voce dei soggiogati, degli oppressi, degli abbattuti e dei terrorizzati, e come si esprime quella voce? Tutto questo mi ha interessato molto presto, ma allora non sapevo come esprimerlo (…)

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Weems naturalmente ha particolarmente a cuore i diritti degli afroamericani. A Basilea tra le opere in mostra c’è persino un’installazione (“Land of Broken Dreams: A Case Study” del 2021) in cui sono stati esposti veri cimeli del Black Panther Party, mischiati a riviste degli anni ’60-’70 in cui sono documentate violenze verso i neri. Senza contare le fotografie che ha scattato nella sua città natale dopo l’assassinio di George Floyd: qui Weems ha immortalato particolari di vetrine murate e graffiti cancellati, più e più volte, fino a costruire un lirico omaggio alla pittura dimenticata degli espressionisti astratti americani di colore.

Preservare la memoria di attrici e cantanti afroamericane del passato è invece stato il pensiero alla base del gruppo di immagini sfocate a loro dedicate, in cui l’artista, per conservare il loro ricordo, le ha rese inafferrabili fantasmi. Weems si è poi creata un alter-ego che un po’ quelle dive le ricorda, con il suo lungo abito nero, e che compare, in varie, sue serie (in genere lo usa per rimarcare l’inacessibilità o l’esclusività di determinati luoghi).

“The Evidence of Things Not Seen” di Carrie Mae Weems al Kunstmuseum Basel (il museo d’arte contemporanea di Basilea), a cura di Maja Wismer con Alice Wilke, si potrà visitare fino al 7 aprile 2024.

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Department of Lavorare - Mussolini's Rome, Roaming, Carrie Mae Weems, 2006 Digital C-print 186.531 x 156.21 x 6.66 cm © bei der Künstlerin / the artist Courtesy of the artist and Galerie Barbara Thumm

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Gina Folly

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Gina Folly

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Carrie Mae Weems, Medienkonferenz, The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel, Gegenwart, 24.10.2023 Photo Credit: Julian Salinas

“The Third Hand” una riflessione sul potere di Maurizio Cattelan al Moderna Museet di Stoccolma

Maurizio Cattelan, HIM (2001) © Maurizio Cattelan 2024, Roy Lichtenstein, Finger Pointing. (1973) © Roy Lichtenstein. Photo: My Matson/Moderna Museet

Inaugurata il 24 febbraio scorso al Moderna Museet di Stoccolma, “The Third Hand”, grande retrospettiva che il museo nord europeo ha dedicato a Maurizio Cattelan, è una sfilata di capolavori (come si addice all’occasione, del resto). C’è il papa colpito dal meteorite de “La Nona Ora” (1999), l’Hitler in versione bimbo che dice le preghiere di “Him” (2001), una copia a grandezza naturale della mano con le dita mozzate (tutte tranne una) che si può osservare in Piazza degli Affari a Milano (L.O.V.E., 2010), fino a lavori più recenti, più riflessivi, in cui un senso di sorda contemplazione, se non un’eco di tragedia imminente, prendono il sopravvento sull’anima provocatoria e vitale della sua opera. Tutti sono stati inseriti direttamente nelle gallerie del museo, fondato nel 1958 e collocato sull’Isola di Skeppsholmen, per creare un dialogo tra loro e il ricco patrimonio storico conservato nelle sale progettate dall’architetto spagnolo Rafael Moneo.

Il titolo enigmatico, “The Third Hand” (“La Terza Mano”), Cattelan, l’ha spiegato in questo modo sulle pagine di Living CorriereForse perché la terza mano è quella che non sai di avere, quella che sa fare cose che le altre due non sono in grado di fare o che arriva in soccorso quando le altre sono occupate”. L’artista originario di Padova, infatti, è stato restio a rilasciare interviste per un lungo periodo ma ormai lo fa abbastanza spesso, conservando, però, un certo grado di elusività nelle risposte. Ed anche in questo caso ha aggiunto un po’ di mistero all’idea di mettere in scena una riflessione sul concetto di potere, che, invece, è stata sviluppata in maniera molto puntuale, sia attraverso le opere scelte che l’interessante installazione dei lavori. Il protagonista di “Him”, ad esempio, se ne sta in ginocchio di fronte a “Finger Point” (del ’73) di Roy Lichtenstein; la stanza è completamente rossa, l’illuminazione discreta e il pubblico può vedere le opere attraverso una finta cornice, che crea un gioco di specchi su chi voglia veramente indicare la mano con l’indice puntato dell’artista Pop statunitense (Hitler o noi?). La collocazione scelta per “Him” rafforza il paradosso e i doppi sensi su cui si basa la scultura e dà vigore al racconto.

In giustapposizione a Cattelan, anche diverse artiste nord e mitteleuropee, del passato e del presente, come la svizzera Eva Aeppli, le svedesi Cecilia Edefalk e Lena Svedberg, oltre alla famosa tedesca Rosemarie Trockel (appena due anni fa c’è stato modo di ammirarla alla Biennale di Venezia). I lavori, sono stati, infine, accostati pure alle pagine ingiallite della rivista underground della Svezia anni ’60, PUSS.

La curatrice della mostra, la direttrice del museo Gitte Ørskou, ha detto: “Questa è la seconda volta che invitiamo un artista ad approfondire la nostra vasta collezione. La pratica di Maurizio Cattelan affonda le sue radici nell'arte concettuale e pone domande sulla e sulla nostra realtà. Come curatore e fondatore di riviste d'arte, è stato in costante dialogo con l'arte. La sua visione critica e penetrante della nostra collezione restituisce all’arte il suo potere”.

Il Moderna Museet, che si estende per 5mila metri quadri, nella propria collezione ha, tra gli altri, anche dipinti e sculture di: Edvard Munch, Pablo Picasso, Salvador Dalí, Giorgio de Chirico, Alberto Giacometti, Henri Matisse, Marcel Duchamp, Louise Bourgeois, Jean Tinguely, Niki de Saint Phalle e Robert Rauschenberg. E le opere di Cattelan sono collocate lungo ben sei gallerie del vasto spazio espositivo a contatto con molte di queste.

Nato nel 1960 da una famiglia umile, Maurizio Cattelan, che ha raggiunto il successo già negli anni ’90, è da tempo considerato il più importante artista italiano vivente. Non fornisce mai un’interpretazione delle sue opere (che, per altro, sono aperte a diverse riflessioni), per lasciare allo spettatore la libertà di contribuire con la propria personale spiegazione. In un’altra recente intervista ha detto: “Ho sempre creduto che se qualcosa può essere ridotto a un concetto chiaro, è sicuramente artisticamente morto. L'arte non ha un intento diretto e univoco, altrimenti è un problema già risolto, e in questo non c'è niente di interessante”. Tuttavia, il suo lavoro accoglie lo spettatore con un’apparente chiarezza d’intenti, per poi intrappolarlo attraverso provocazione, paradosso e ironia. Uno dei punti di partenza ricorrenti delle sue installazioni è il cambio di dimensione: ciò che normalmente è piccolo diventa grande, quello che normalmente sarebbe troppo vasto diventa a misura d’uomo, Così la Cappella Sistina, meticolosamente riprodotta e miniaturizzata in “Untitled” (2018), diventa accessibile, smette di incutere timore, ci rassicura e ci fa sentire importanti (in questo caso, Cattelan, con la consueta ironia si interroga sia sul rapporto dell’uomo con la fede, sia con l’arte stessa). I piccioni tassidermizzati di “Ghosts”, invece, sono a grandezza naturale ma mettono disagio con il loro sguardo puntato su di noi dal loro punto d’osservazione esterno al teatro in cui ci muoviamo (qui Cattelan fa anche riferimento a tutti quelli che non hanno voce, umani e non umani). In mostra a Stoccolma c’è, infine, la poetica e struggente Breath”, presentata solo lo scorso anno al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, che rappresenta un uomo e un cane (scolpiti in marmo bianco) vicini e raggomitolati su se stessi.

Maurizio Cattelan, con la sua retrospettiva “The Third Hand”, rimarrà al Moderna Museet di Stoccolma fino al 12 gennaio 2025. Ma quest’anno sarà possibile godersi almeno una sua opera anche al Padigione della Santa Sede della Biennale di Venezia.

Maurizio Cattelan, Untitled, 2018 Photo: My Matson/Moderna Museet © Maurizio Cattelan 2024

Maurizio Cattelan, La Nona Ora, 1999 Photo: My Matson/Moderna Museet © Maurizio Cattelan 2024

Maurizio Cattelan, Breath, 2023 Photo: My Matson/Moderna Museet © Maurizio Cattelan 2024

Installation view with full-sized copy of Maurizio Cattelan’s monumental sculpture L.O.V.E. Photo: My Matson/Moderna Museet © Maurizio Cattelan 2024

Maurizio Cattelan, Untitled, 2018 (Detail) Photo: My Matson/Moderna Museet © Maurizio Cattelan 2024

Maurizio Cattelan, Breath, 2023 Photo: My Matson/Moderna Museet © Maurizio Cattelan 2024

Maurizio Cattelan, L.O.V.E. Photo: My Matson/Moderna Museet © Maurizio Cattelan 2024 (Full-sized copy of the artist's monumental sculpture L.O.V.E.)

Maurizio Cattelan, 2024 Photo: My Matson/Moderna Museet

“Ground Break”: Performances e sculture impossibili di oggetti trovati in giro per Harlem da Nari Ward, tra poco a Milano

Nari Ward Hunger Cradle, 1996 (particolare) Filo, corda e materiali trovati Installazione site specific Dimensioni variabili Veduta dell'installazione, "Global Vision: New Art From The '90s (Part II)", Fondazione Deste, Atene, 1998 Collezione privata Courtesy the artist Foto: Fanis Vlastaras and Rebecca Constantopoulou

Artista newyorkese di origine giamaicana attivo fin dai primi anni ’90, Nari Ward, crea complesse installazioni, composizioni fatte di oggetti trovati in giro per il suo quartiere (Harlem), con cui riconfigura l’estetica del quotidiano e intesse di riferimenti alla storia dell’arte più recente un viscerale sentimento di nostalgia. Si potrebbe addirittura dire “nostalgia del presente”, parafrasando l’artista Pop britannica Pauline Boty, per il continuo rinnovamento che impone agli scarti attraverso il suo lavoro (non si limita a usarli per le sue sculture ma li giustappone in maniere sempre differenti, li fa diventare parte di performances, osserva le reazioni che suscitano in pubblici provenienti da contesti diversi ecc.), se non fosse che Ward usa la sua opera per parlare di problemi sociali.

A volte di vere e proprie tragedie. Ad esempio, “Amazing Grace” (una delle installazioni con cui si è importo al pubblico internazionale già nel ’93), composta da centinaia di passeggini ammassati lasciati in penombra mentre il pubblico si muove in mezzo ad essi su un vialetto tortuoso fatto di manichette d’idranti, parla dell’impatto dell’AIDS sulle comunità afroamericane, la giornalista Marta Schwendener ha scritto a proposito: “Ward ha trovato tutti i passeggini per questo lavoro abbandonati nelle strade di Harlem all'inizio degli anni '90, al culmine della crisi dell'AIDS e di un'epidemia di droga che colpì in modo sproporzionato i residenti”.

Gli sono più cari i temi che toccano la comunità nera come il colonialismo, la gentrificazione dei quartieri storicamente black, oltre a diseguaglianze ed emarginazione. Nel corso del tempo, tuttavia, Ward ha affrontato anche argomenti molto meno penosi come la spiritualità o la necessità di esprimere e stessi in modi apparentemente bizzarri. Gli piace anche porsi domande sul confine che separa pubblico e privato, o su quello che passa tra arte e creatività individuale fine a se stessa. Alla base del suo lavoro c’è naturalmente il consumismo, visto che le sue sculture sono spesso fatte di rifiuti, ma lui punteggia l’analisi della società dei consumi con osservazioni allo stesso tempo ironiche e spiazzanti. Come quando tratta i materiali: Ward, infatti, ha l’abitudine di invecchiare o semplicemente modificare la tessitura di alcuni di essi in modo paziente e laborioso, utilizzando dei prodotti apparentemente innocui come zucchero e bevande a base di soda (che oltre a corrodere indicano gruppi sociali del presente e abitudini del passato).

Nato nel ’63 a St. Andrew in Giamaica, Nari Ward, è arrivato negli Stati Uniti quando aveva solo 12 anni, dove ha studiato, fino a completare la sua formazione all’Hunter College, prima e al Brooklyn College, poi (lì ha conseguito un master in fine arts). Già da parecchi anni vive in una ex caserma dei pompieri di Harlem dove aveva inizialmente esposto le sue opere. E, nonostante il successo raggiunto in giovane età ne abbia fatto un cittadino del mondo, lui continua a mantenere un legame profondo con il suo quartiere, con la città e la comunità afroamericana, che si percepisce anche in opere recenti.

Dal prossimo 28 marzo Nari Ward sarà protagonista di un’importante retrospettiva al Pirelli Hangar Bicocca di Milano intitolata “Ground Break”. L’esposizione, curata da Roberta Tenconi e Lucia Aspesi, sarà modellata intorno al concetto di “memoriale di strada” cioè “uno spazio devozionale e spirituale di scambio non connotato da simbologia religiosa e reso tale dalle memorie collettive” che sarà anche il fulcro dell’opera realizzata su commissione dello spazio espositivo milanese, da cui prende il nome la mostra: “Groud Break”, appunto. Quest’ultima, concepita anche come un palcoscenico, sarà composta da 4mila mattoni rivestiti di rame posti a terra a comporre dei disegni astratti e sarà la versione ampliata di un lavoro precedente. Per dargli vita è previsto un programma di spettacoli che verranno eseguiti da vari performers e musicisti. D’altra parte, la mostra sarà centrata su collaborazione e performatività nel lavoro di Ward, quindi non avrebbe potuto essere altrimenti. Ma ci saranno anche tanti lavori capaci di fare una panoramica della storia artistica dello statunitense: ben 30 tra installazioni, sculture e video (verranno proposte anche opere grandi dal forte impatto spettacolare e evocativo come “Hunger Cradle” (del 1996, una ragnatela di corde sospende a mezz’aria una varietà di oggetti pesanti che i visitatori sono chiamati ad attraversare), o poco esposte al pubblico come le scenografie per la performance “Geography Trilogy” di Ralph Lemon.

Ground Break” di Nari Ward procederà in abbinata alla mostra già in corso, Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse.” dell’italiana Chiara Camoni fino alla pausa estiva del Pirelli Hangar Bicocca di Milano (il vasto spazio espositivo èad accesso gratuito anche durante gli eventi).

Nari Ward Carpet Angel, 1992 The Museum of Contemporary Art, Los Angeles Dono di Jennifer McSweeney in onore di Joan "Penny" McCall Foto Matthew Hermann

Nari Ward Happy Smilers: Duty Free Shopping, 1996 Tenda da sole, bottiglie di soda, manichette antincendio, scala antincendio, sale, elementi domestici, registrazione audio, altoparlanti e pianta di aloe Dimensioni variabili Veduta dell'installazione, “Nari Ward: Happy Smilers”, Deitch Projects, New York, 1996 Courtesy l’artista e Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seul, e Londra, e GALLERIA CONTINUA

Nari Ward Savior, 1996Carrello, sacchi della spazzatura di plastica, stoffa, bottiglie, recinzione metallica, terra, ruota, specchio, sedia e orologi 325,1 x 91,4 x 58,4 cm Institute of Contemporary Art, Boston Collection; Acquistato grazie alla generosità di un donatore anonimo. Veduta dell'installazione, "Nari Ward: RePresence", Nerman Museum of Contemporary Art, Johnson County Community College, Overland Park, Kansas, 2010. Courtesy l’artista e Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seul, e Londra Fotografia di EG Schempf

Nari Ward  Ground (In Progress), 2015 Rame, patina oscurante, 702 mattoni 9 sezioni da 78 mattoni 6,4 x 121,9 x 121,9 cm (ogni sezione) 6,4 x 365,8 x 365,8 cm (complessivamente come installato)Veduta dell'installazione, "Nari Ward: Breathing Directions", Lehmann Maupin, New York, 2015 Courtesy l'artista e Lehmann Maupin, m New York, Hong Kong, Seoul e Londra, e GALLERIA CONTINUA Foto Max Yawney

Nari Ward Ground (In Progress), 2015 (particolare) Rame, patina oscurante, 702 mattoni 9 sezioni da 78 mattoni 6,4 x 121,9 x 121,9 cm (ogni sezione) 6,4 x 365,8 x 365,8 cm (complessivamente) Courtesy l'artista e Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seoul e Londra, e GALLERIA CONTINUA Foto Max Yawney

Nari Ward Apollo/Poll, 2017 Acciaio, legno, vinile e luci LED  914 x 365,8 x 121,9 cm Veduta dell’installazione, Socrates Sculpture Park, New York, 2017 Commissionato da Socrates Sculpture Park, New York Courtesy l’artista e Lehmann Mauping, New York, Hong Kong, Seoul e Londra

Nari Ward Crusader, 2005 Sacchetti di plastica, metallo, carrello della spesa, elementi per trofei, bitume, lampadario e contenitori di plastica 279,4 x 129,5 x 132,1 cm Courtesy l’artista e Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seul, e Londra Foto EPW Studio / Maris Hutchinson

Nari Ward Ritratto Courtesy l’artista e Lehmann Maupin, New York, Hong Kong, Seoul e Londra Foto Axel Dupeux