Venezia Arte 2022| Tutto il meglio de “Il Latte dei sogni”. Una Biennale da non dimenticare
Attesissima, si è inaugurata lo scorso fine settimana a Venezia, la 59esima Esposizione Internazionale d’Arte, “Il Latte dei Sogni” (fino al 27 novembre 2022). La biennale, che l’emergenza sanitaria ha trasformato in triennale, un evento inimmaginabile prima dell’epidemia. Un ritardo che, dall’anno dell’inaugurazione della manifestazione (1895), ha precedenti solo durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. E che, paradossalmente, per la curatrice, Cecilia Alemani (capo- curatrice del programma di arte pubblica del parco sopraelevato, High Line di New York, già, tra le altre cose, curatrice del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2017), ha significato un solo anno per costruire la complessa esposizione che dai Giardini della Biennale si snoda fino all’Arsenale. Oltre ad enormi difficoltà. “Che la mostra possa aprire è di per sé un fatto straordinario- ha dichiarato - non tanto il simbolo di una ritrovata normalità, quanto piuttosto il segno di uno sforzo collettivo che ha qualcosa di miracoloso”.
IL LATTE DEI SOGNI:
Alla fine Alemani se l’è cavata egregiamente, riuscendo nel non facile compito di costruire una mostra omogenea ma non piatta, degna d’essere esplorata, con un numero davvero alto di artisti alla loro prima esperienza in laguna (oltre 180 su 213). Soprattutto donne: “Per la prima volta negli oltre 127 anni di storia dell’istituzione veneziana, la Biennale include una maggioranza preponderante di artiste e persone non binarie”. Ma anche artisti che “attingono da saperi indigeni”. E, probabilmente, proprio per queste ragioni, “Il latte dei Sogni”, è una biennale atipica, a tratti delicata ma vibrante, molto personale. Che non si limita a erodere il solco della Storia dell’Arte, mettendo in evidenza nomi e sottolineando eventi meno conosciuti, a leggere la contemporaneità a modo suo, ma che ridefinisce il gusto. Se in maniera fugace o, in qualche modo, permanente, si vedrà col tempo.
“Il latte dei Sogni”, ruba il titolo a un libro di fiabe della scrittrice e artista surrealista di origine inglese, Leonora Carrington (le cui opere sono in mostra a Venezia insieme a quelle di altre surrealiste storiche come Remedios Varo e alla danese Ovartaci). Perché “descrive un mondo magico nel quale la vita viene costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e nel quale è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé”. E proprio il surreale è la suggestione che permea l’esposizione. Infatti: “L’esposizione Il latte dei sogni sceglie le creature fantastiche di Carrington, insieme a molte altre figure della trasformazione, come compagne di un viaggio immaginario attraverso le metamorfosi dei corpi e delle definizioni dell’umano”. Il tema è il postumano (“il divenire- macchina e il divenire terra”). Invece le domande che fanno da guida alla mostra sono: “Come sta cambiando la definizione di umano? Quali sono le differenze che separano il vegetale, l’animale, l’umano e il non-umano? Quali sono le nostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo? E come sarebbe la vita senza di noi?”.
LE CAPSULE DEL TEMPO:
Tra il Padiglione Centrale e gli spazi dell’Arsenale, poi, nel racconto vengono inserite delle mini-mostre a carattere storico: le “capsule del tempo”. I cui contenuti dialogano con il lavoro degli artisti contemporanei esposti nelle vicinanze. Tuttavia, nel percorso stesso della mostra ci sono artisti che non sono più tra noi e che concentrano la loro produzione in anni più o meno distanti dall’oggi. Come, al Padiglione Centrale l’artista indiana Mrinalini Mukherjee (che per tutta la vita ha creato sculture con l’antica e faticosa tecnica araba della tessitura a mano del macramé ed è mancata nel 2015) o all’Arsenale la cubana Belkis Ayon o la più nota artista di origine francese Niki de Saint Phalle. Senza dimenticare lo splendido pittore giapponese, Tatsuo Ikeda, le cui opere compaiono anche sulla copertina della guida (sempre Arsenale). In breve, fatti i conti, forse le parentesi storiche sono un po’ troppe per una delle più grandi mostre d’arte contemporanea del mondo.
IN GIRO PER IL PADIGLIONE CENTRALE:
Al Padiglione Centrale ad accogliere i visitatori è la scultura in poliestere verde scuro “Elefant/Elephant “1987), della tedesca Katharina Fritsch. L’opera, che fa un figurone nella prima sala, ovale e dipinta in tinta per l’occasione, è stata realizzata, a grandezza naturale dal calco di un elefante impagliato e che rimanda il visitatore con la mente a suggestioni di magnificenza, favole, intelligenza, cattività nonché all’elefante Toni che alla fine del XIX secolo viveva a Venezia nel Parco di Castello. Dopo, un dipinto di Maria Primachenko introduce alla mostra vera e propria e ricorda il conflitto in Ucraina. Fritsch, quest’anno è Leone d’oro alla carriera insieme alla cilena Cecilia Vicuña a cui, poco più a avanti, è dedicato molto spazio. Ci sono diversi oli su tela, decisamente in tema con “I latta dei Sogni” (anche se realizzati molti anni fa). Ma è soprattutto “NAUfraga” (creata per la Biennale), una grande scultura sospesa al soffitto fatta di corde e detriti raccolti in laguna, a rapire per la sua complessa e poetica ricchezza. Diverse, poi, le opere a cui non è possibile non dedicare tempo al Padiglione Centrale, come le sculture mutanti, rese preziose e cangianti dal cristallo, che l’artista di origini rumene, Andra Ursuta, spesso realizza da calchi del suo stesso corpo. O una selezione inedita di “quadri a maglia” della famosa tedesca Rosemarie Trockel. Per non parlare dei disegni fantastici dell’artista inuk Shuvinai Ashoona (menzione speciale della giuria tra i partecipanti alla mostra 2022 insieme alle futuristiche riflessioni della statunitense, Lynn Hershman Leeson, che espone invece all’Arsenale), o dei 111 squali di ceramica bianca della tedesca Jana Euler. Oltre ai potenti dipinti della portoghese (vive in Inghilterra), Paula Rego, che usa la pittura senza se e senza ma. E ai video irrinunciabili della statunitense Nan Goldin.
UN ARSENALE INDIMENTICABILE:
L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Anche se sono gli spazi dell’Arsenale quelli capaci di rimanere nel cuore per davvero. Vuoi perché qui la struttura della mostra divide i tre temi portanti. E quindi risulta più chiara. Vuoi per le due bellissime, grandi e intense installazioni immersive che concludono il percorso: il labirinto odoroso a grandezza naturale di terra mista a fieno, farina di manioca, polvere di cacao e spezie (come chiodi di garofano e cannella), “Earthly Paradise” del colombiano Delcy Morelos o il paesaggio di terra, figure, piante, insetti e ruscelli, “To see the earth before the end of the world”, dell’artista e poetessa statunitense di origini africane Precious Okoyomon (di lei e del suo “Earthseed”, di cui l’installazione in biennale è un estensione, Artbooms ha già parlato). Vuoi per il monumentale e magnifico busto in bronzo di una donna nera, “Brick House”, dell’afro-americana, Simone Leigh (Leone d’oro come miglior artista partecipante a “Il Latte dei Sogni” e rappresentante del suo paese con un Padiglione Stati Uniti da non dimenticare).
Da vedere anche “Bonteheuwel/Epping”, del sudafricano Igshaan Adams. Si tratta di una delle sue “linee del desiderio”, ossia percorsi nati dall’erosione del traffico pedonale, usati durante l’Apparteheid per collegare comunità che il governo voleva separate. Adams li rappresenta dall’alto in modo che diventino solo dei pattern dagli infiniti colori che rende unendo tra loro minuscoli e disparati materiali (perline di pietra e vetro, conchiglie legno colorato, plastica, corda, filo metallico ecc). Poi gli splendidi vasi antropomorfi dell’afro-americana, Magdalene Odundo. Gli arazzi vodoo di perline e lustrini dell’haitinana, Myrlande Costant. I piccoli dipinti di silenziosi paesaggi naturali con tragedia della statunitense, Jessie Homer French. La grande installazione della conosciutissima statunitense, Barbara Kruger. Le sculture cinetiche della coreana Mire Lee. E il grande gruppo di forni (perchè li associamo ai concetti di calore, nutrimento e cura) in argilla dell’argentino, Gabriel Chaile. Dalle forme ispirate ai manufatti delle civiltà precolombiane, le opere, sono ritratti stilizzati, ironici e teneri, dei suoi famigliari (al centro c’è la nonna materna).
UN ARSENALE DA FILM (SE RESTA IL TEMPO):
All’Arsenale ci sono infine molti video da vedere. Come quello del Leone d’Argento come miglior artista emergente presente alla mostra, Ali Cherri (nato in Libano vive in Francia). Quello del cinese Zeng Bo o quello della greca, Janis Rafa. Ma se non vi spaventa l’atmosfera lugubre, almeno un veloce sguardo al video-canto d’animazione tra un uccellino e un omicida-suicida (insieme ai sui famigliari defunti) dell’italiano Diego Marcon dovete darlo per forza.
I PADIGLIONI PREMIATI E QUELLI DA NON PERDERE:
I padiglioni premiati a Venezia sono: la Gran Bretagna (Giardini), Francia (Giardini) e Uganda (che partecipa per la prima volta ed è però in città). Gli irrinunciabili (insieme alla Francia) sono: Stati Uniti (da non perdere per nessun motivo! Anche a costo di una lunga fila), Corea (Giardini), Svizzera (Giardini), Grecia (Giardini), Danimarca (Giardini), Paesi Nordici (che quest’anno hanno lasciato il padiglione dei Giardini ai lapponi Sami). E Italia, che dopo la brutta partecipazione del 2019, ritorna con un Padiglione tutto da vedere, anzi da godersi come un film in prima persona (Arsenale). Ma, a sorpresa, anche (assolutamente) Malta (Arsenale). In fine Arabia Saudita (Arsenale) e almeno uno sguardo a Nuova Zelanda (Arsenale).
AGGIORNAMENTO: IL LATTE DEI SOGNI E’ STATA LA BIENNALE PIU’ VISITATA DI SEMRRE
Con oltre 800.000 biglietti venduti (più le 22.498 presenze della pre-apertura), la 59. Esposizione Internazionale d’Arte, Il latte dei sogni, a cura di Cecilia Alemani (prodotta dalla Biennale di Venezia) è stata la più visitata di sempre.