Ecco le opere pubbliche fiorentine di Tracey Emin in occasione della sua grande mostra a Palazzo Strozzi

La scultura “I Followed You To The End” vista dall'ingresso principale. Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Entrando nel cortile di Palazzo Strozzi dall’ingresso principale (quello che si apre sulla piazza omonima), il grande monumento di Tracey Emin che occupa la porzione di suolo a cielo aperto, sembra una figura femminile nuda che, in ginocchio ma con il busto completamente a terra, tenta di avanzare. In realtà le tonnellate di bronzo ricoperte di avvallamenti e cunette (come argilla appena modellata da mani gigantesche) già da quella angolazione lasciano spazio a qualche dubbio sulla natura del soggetto rappresentato, che sembra emergere dal suolo mentre faticosamente procede a carponi, in bilico tra figurazione e astrazione, tra sfacciata determinazione e goffaggine. Tra “Sesso e Solitudine”, appunto.

Se poi si cambia punto di vista, “I Followed You To The End” (“Ti ho seguito fino alla fine”, 2024), installata a Firenze in occasione della personale “Sex and Solitude”(“Sesso e Solitudine”; che con oltre sessanta opere è la più grande mostra mai dedicata in Italia a Tracey Emin), muta forma fino ad evocare: due figure distese l’una accanto all’altra, un corpo mutilato sul punto di liquefarsi, la schiena di un gigante colpito a morte, uno strano rettile dall’aria bonaria e chissà cos’altro. Forse queste immagini sono solo suggestioni (come quando si gioca a nominare la sagoma delle nuvole), di certo però questa grande scultura che riesce a dare all’intimità un aspetto monumentale, a momenti sfiorata persino da un respiro epico, è quanto di più lontano ci sia dall’arte pubblica tradizionale. Niente certezze, pigli vittoriosi, celebrazioni e uomini su piedistalli. Al loro posto uno strano mix di testardaggine e vulnerabilità condensati in un corpo femminile ferito, esposto, quasi sul punto di perdere consistenza, ma risoluto a continuare il proprio cammino. Eppure è un opera pubblica.

Quando ero più giovane- ha detto Tracey Emin intervistata dal direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino- l’arte pubblica mi faceva infuriare. La trovavo troppo maschile, pretenziosa, spesso poco attraente e un po’ imbarazzante se non estremamente conservatrice. Non riuscivo a capire perché non esistessero opere d’arte pubblica più appaganti dal punto di vista emotivo. Poi ho capito: il fatto è che c’è poco spazio per l’emozione nella sfera pubblica o quantomeno è un sentimento che viene considerato pericoloso”.

Una visione laterale della scultura “I Followed You To The End”. Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Io comunque volevo provarci” ha continuato. E c’è riuscita con una serie di opere minute, poetiche e profondamente femminili che ha descritto lei stessa: “Ho iniziato a fare sculture pubbliche di dimensioni ridotte, come Roman Standard (Insegna romana) che è il mio uccellino su un palo ed è molto piccolo. Poi ci sono quelle di Sydney: sessantotto sculture di uccellini posati lungo una strada nel Central Business District. A Folkestone ho installato Baby Things (Cose da bambini): sculture di abiti e oggetti per neonati lasciate in diversi luoghi della città. Volevo creare un impatto emotivo con sculture pubbliche che fossero piccole e femminili”. Finché non è approdata alla scultura monumentale: “Poi ho deciso di fare l’esatto contrario, evitando però di fare il macho e mantenendo un’impronta spiccatamente femminile. Così ora, a Oslo, c’è una mia scultura alta nove metri dal titolo The Mother (La madre) che rappresenta essenzialmente mia madre: una donna anziana in ginocchio. Non ho mai visto una scultura pubblica o una statua di una vecchia prima d’ora, quindi penso di aver fatto davvero qualcosa di nuovo e in un certo modo sensazionale” (si tratta di un’opera in bronzo alta nove metri collocata davanti al Munch Museum di Oslo).

Malgrado non sia stata creata per Palazzo Strozzi né per uno spazio collettivo in genere, “I Followed You To The End” (che mercoledì scorso è stata calata direttamente al centro del cortile con una grande gru), a Firenze è un’opera pubblica. Le persone possono entrare nel cortile dell’edificio rinascimentale e guardarla, girarle intorno, fotografarla o farsi un selfie accanto a lei (anche decidendo di non visitare la personale).

Il neon “Sex and Solitude” di Tracey Emin spento durante il giorno. Photo © artbooms

Nonostante in occasione delle grandi mostre contemporanee il museo abbia l’abitudine di installare un lavoro di dimensioni monumentali nel proprio cortile (durante il giorno è sempre aperto e la gente a volte lo usa per spostarsi da Piazza Strozzi alla via parallela, o si ferma alla caffetteria sotto il loggiato a bere qualcosa), è inconsueto che faccia di più. In questo caso invece ha esposto anche un'altra opera pubblica: un neon creato appositamente per l’evento.

Collocato sulla facciata recita con la calligrafia veloce e graziosa della signora Emin il titolo della mostra (“Sex and Solitude”), in un azzurro pop e raffinato, pensato per sposarsi col cielo terso al di sopra dell’edificio ma anche per evocare la purezza cromatica dell’arte rinascimentale e ricordare il mare. Infatti Tracey Emin, nata a Croydon e cresciuta a Margate (una cittadina costiera inglese nella contea di Kent), usa spesso questo materiale per ricordare le atmosfere balneari della sua infanzia. Ha spiegato: “Sono cresciuta circondata da neon: erano ovunque a Margate. Oggi lì ne sono rimasti pochi, ma nel resto del mondo sono tantissimi. Io ho iniziato a farli perché volevo vederne di più in giro”. Anche se Margate, con le sue enormi spiagge sabbiose e i suoi tramonti rosati capaci di stregare Turner, allora non fosse una meta molto gettonata per le villeggiature (era anzi diventata teatro di guerre tra bande dopo aver attraversato periodi felici in cui attirava centinaia di vacanzieri). Ma lei, che sulle prime aveva fatto di tutto per lasciarla (comprensibilmente, visto che da bambina le capitò di tutto: dal rimanere senza tetto allo essere stuprata), non se l’è mai dimenticata. Tant’è vero che un altro suo neon è collocato stabilmente sulla facciata della Droit House a Margate (dove hanno anche sede: lo Tracey Emin Museum; le Tracey Emin Artist Recidencies, una scuola d’arte che ha ridato vita ad un ex-stabilimento balneare; gli Tracey Emin Studios, cioè spazi di lavoro per artisti a prezzi agevolati; oltre ad uno studio, un archivio, un appartamento, un roof garden e una piscina solo per lei). Il neon di Margate è rosa (per fare il paio con i suoi tramonti) e dice “I Never Stopped Loving You”.

Il neon "Sex and Solitude" acceso la sera. Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Anche se quella di Margate è un’opera particolarmente sentita per i riferimenti biografici evocati dalla collocazione (e la poetica di Emin è legata a filo doppio alla sua storia personale) ha molto in comune con il neon “Sex and Solitude” di Palazzo Strozzi. Entrambi si accendono al buio e restano spenti durante il giorno ma soprattutto ognuno di essi si trova su edifici d’epoca (in realtà quello di Margate è solo la ricostruzione di uno stabile ottocentesco) dal carattere celebrativo, che le parole di Emin rendono personali, persino intimi.

Ma le opere ad accesso pubblico in occasione della mostra “Sex and Solitude” non finiscono qui. Difatti, a Palazzo Gucci (in Piazza della Signoria) si potrà anche godersi gratuitamente una selezione di video realizzati tra il ’97 e il 2005 dall’artista inglese. La signora Emin che li ha rivisti mercoledì scorso dopo tanto tempo ha detto: “Me li ero completamente dimenticati!

Le opere pubbliche tuttavia sono solo una piccola parte del percorso nell’arte di Tracey Emin che i visitatori di “Sex and Solitude” intraprenderanno. Con oltre sessanta opere provenienti da più continenti, infatti, la personale a Palazzo Strozzi curata da Arturo Galansino sarà la più grande mostra a lei mai dedicata in Italia (ne parleremo presto). E uno dei suoi pochi show ammirabili in generale, visto che da dopo il cancro (è stata operata nel 2020) li seleziona con cura e ne fa al massimo due all’anno.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

Tracey Emin, Sex and Solitude, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.

L’opera pazza ed elusiva di Leigh Bowery viene celebrata alla Tate trent’anni dopo la morte dell’artista

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 1 Look 2 1988 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery. 

Leggendo le parole con cui chi lo conosceva ha ricordato lo stilista e performer Leigh Bowery, in occasione di una importante mostra a lui dedicata in corso alla Tate Modern di Londra, si ha l’impressione di trovarsi di fronte alle descrizioni di persone diverse. C’è chi lo racconta come un uomo “timido e ben educato”, chi “silenzioso e riservato” e ancora qualcuno lo dipinge come “sfrontato e provocatorio”. Del resto lui che metteva al centro della sua opera i concetti di rinascita, mutamento e reinvenzione (e li applicava prevalentemente a se stesso), di fronte alla domanda di un giornalista che gli chiedeva in quali occasioni gli fosse capitato di mentire, aveva risposto “Quando pensi mi succeda di respirare?

Ugualmente elusivo, il suo lavoro sfugge alla categorizzazione. “Se mi etichetti, mi neghi” disse nel ’93, un anno prima di morire a soli 33 anni di AIDS. Era vero allora come adesso e forse anche per questo non è mai diventato davvero famoso. Almeno al di fuori del suo elemento: la Londra underground degli anni ’80: post-punk e new romantic in cui giovani festaioli e talvolta scapestrati si ritrovavano a ballare gomito a gomito con le celebrità del momento.

La stessa capitale inglese che torna a rivivere nell’antologica “Leigh Bowery!”.

La mostra della Tate è segnalata più o meno da tutti come uno degli appuntamenti più importanti dell’anno. Innanzitutto per la completezza del materiale esposto: fotografie, video, oggetti e costumi (il più delle volte completamente ricostruiti per “la sporcizia da discoteca” che li aveva ricoperti); oltre agli splendidi dipinti di Lucian Freud per cui ha fatto da modello. Ma anche perché, sebbene l’influsso dell’opera del signor Bowery sia ormai universalmente riconosciuto, è un errore piuttosto comune quello di collocarlo soprattutto nell’ambito della moda. Mentre lui, oggi icona drag e del movimento Lgbtqi+, è stato anche personaggio televisivo, club kid, promotore di locali, musicista, performer e artista.

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 4 Look 19 August 1991 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Nato nel 1961 a Sunshine (un sobborgo di Melbourn in Australia), Leigh Bowery proveniva da una famiglia piuttosto rigida e conservatrice (in proposito la sorella minore, Bronwyn, ha recentemente detto: "Quando cresci in quel tipo di ambiente, hai due scelte: conformarti o reagire. Leigh ha scelto di reagire. Fin da bambino, era istintivamente spinto dal desiderio di sfidare e sconvolgere lo status quo, sia a casa che nella comunità”). Probabilmente anche per questo a soli diciannove anni si trasferì a Londra. Dove arrivò con pochi soldi, una valigia e una macchina da cucire portatile. Nel giro di pochissimo tempo però diventò una presenza fissa dei club più di tendenza dell’epoca. Conosceva tutti e si mise a fare lo stilista; ma la moda non faceva per lui: le sue creazioni erano troppo bizzarre e trasgressive per il pubblico, mentre a lui non piaceva vestire altri e disprezzava la parte commerciale del mestiere.

Così si dedicò a ideare e produrre costumi sempre più radicali ed elaborati, fatti con tutto quello che gli capitava tra le mani per sé stesso (a un certo punto si copriva anche il volto con maschere o passamontagna multicolore), che, una volta indossati, lo trasformavano in una scultura vivente. Allo stesso modo il trucco (coloratissimo e spesso tattile) era un modo per dipingere usando il corpo come supporto. Usava anche parrucche e scarpe dai tacchi altissimi che lo rendevano ancora più imponente di quanto non fosse già (aveva una corporatura robusta e secondo la sorella era alto un metro e 87 centimetri). L’amico e cantante Boy George l’ha descritto in questo modo a un quotidiano statunitense: “Quando vedi le drag queen che fanno riferimento a Leigh è meraviglioso, ma troppo raffinato. Leigh era molto rozzo e aveva la corporatura di un giocatore di rugby, e non era né grazioso né fatato". Anche Marina Abramović ha scritto di lui: “Era un uomo enorme” (Leigh fece un costume da “regina dei topi” per Abramović nel ’94, quando lei rappresentò “Delusional”, in cui alla fine lei si calava nuda in una botola in cui erano intrappolati 400 topi vivi).

Leigh Bowery con la collaboratrice, amica e moglie Nicola Bateman Dave Swindells, Daisy Chain at the Fridge Jan '88: Leigh & Nicola 1988 (c) Dave Swindell

Tuttavia il signor Bowery ambiva a superare i limiti del proprio corpo e ad usarlo come fosse creta o stoffa: per questo si sottoponeva a bendaggi del torace, modellava il collo con bustini contenitivi e teneva ferme le maschere attraverso piercing al volto. Una volta ha affermato: “La carne è il tessuto più favoloso”.

Malgrado qualsiasi sua uscita fosse una mise en scene, la carriera ufficiale di performer per Leigh Bowery, inziò nell’88 alla Anthony D'Offay Gallery di Londra. Durante la mostra si distendeva su un divano del XIX secolo disposto dietro uno specchio unidirezionale (come quelli nella sala interrogatori dei film e delle serie tv), ogni tanto si alzava, si sistemava il trucco e rimirava il proprio riflesso. Contemporaneamente nello spazio riservato al pubblico (che lo osservava senza essere visto) venivano diffusi suoni e odori. Lo show durò una settimana, nel corso della quale l’artista si presentò con un costume diverso ogni giorno, parlando di storia dell’arte ma anche del guardare ed essere guardati.

Amico del coreografo britannico Michael Clark, il signor Bowery, per un certo periodo creò i costumi per gli spettacoli di Clark e, a volte, si esibì come solista. La sua performance più famosa però richiedeva molto più impegno. Intitolata “Birthing”, l’esibizione lo vedeva cantare e ballare con un pesante costume di velluto finchè non si sdraiava per terra e, aprendo le gambe davanti al pubblico, partoriva la sua assistente Nicola Bateman che usciva dall’imbracatura (nascosta sulla pancia dell’artista), ricoperta di sangue di scena e con una fila di salsicce al posto del cordone ombelicale. A conclusione dello spettacolo, già stupefacente di per se, Bowery tagliava anche il finto cordone ombelicale e nutriva Bateman, facendo cadere nella bocca di lei una cucchiaiata di minestrone (che era riuscito a conservare, non si sa come, sotto il costume). Potete vederne una rappresentazione qui.

Lucian Freud, Nude with Leg Up (Leigh Bowery) 1992 © The Lucian Freud Archive. All Rights Reserved 2024.

Nella sua storia, il fatto che nell’85 l’artista abbia fondato Taboo (un locale notturno londinese rivolto soprattutto alla clientela gay ma frequentato anche da etero) ha un peso. Innanzitutto per il successo del club, in cui gente di ogni tipo si mischiava a celebrità come Bryan Ferry, George Michael e Mick Jagger. “Di questi tempi- scrisse la giornalista Alix Sharkey su ID, bibbia dello street style dell’epoca- il giovedì sera nel West End di solito significa Taboo, il club più squallido, più kitsch e più stronzo del momento a Londra, pieno di stilisti, modelle, studenti, feccia e, si spera, alla moda (…)” E poi perché fu un palcoscenico a sua misura che gli permise di farsi conoscere e conoscere (qui, per esempio, incontra l’artista Cerith Wyn Evans che gli presenterà il famoso pittore Lucian Freud e comincerà l’amicizia con la sua futura collaboratrice, la stilista Nicola Bateman).

Il signor Bowery era apertamente gay ma appena pochi mesi prima di morire sposò Bateman. In merito a questo improbabile matrimonio nel corso del tempo sono girate varie spiegazioni (si erano sposati per il permesso di soggiorno, per ragioni fiscali ecc.) e lo stesso sposo ha definito la cerimonia “una performance artistica personale" ma Sue Tilley (amica strettissima dell’artista) ha detto che in ospedale lui le aveva confessato di temere che Nicola lo lasciasse per un altro uomo.

Solo a Bateman e Tilley, lui confidò di avere l’AIDS (che ai tempi era un killer senza scampo né pietà). Morì la notte di capodanno del ’94, Freud pagò il rimpatrio della salma in modo che potesse riposare accanto alla madre. Ma al momento della sepoltura i famigliari si resero conto che la fossa era troppo piccola per la grande bara che conteneva le spoglie dell’artista e dovettero rimettersi a scavare.

Leigh Bowery!”, organizzata dal museo inglese in collaborazione con Nicola Rainbird (nata Bateman) e curata da Fiontán Moran, resterà alla Tate Modern di Londra fino al 31 agosto 2025.

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 4 Look 17 August 1991 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 7, Look 37 June 1994 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

9. Dick Jewell Still from What's Your Reaction to the Show 1988 © Dick Jewell.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

17. Lucian Freud, Leigh Bowery 1991 © The Lucian Freud Archive. All Rights Reserved 2024.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 3 Look 14 August 1990 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

L’artista della globalizzazione e del nazionalismo Yukinori Yanagi tornerà sulla scena internazionale al Pirelli Hangar Bicocca nella nuova era post-globale

Yukinori Yanagi Hinomaru Illumination, 2010 Neon, neon transformer, programming circuit, painted steel, mirror, water 220 x 450 x 660 cm Permanent installation, ART BASE MOMOSHIMA, Hiroshima Photo Road Izumiyama

All’apice della fama tra gli anni ’90 e i primi del 2000 (non a caso, proprio nel momento di prima maturità della globalizzazione), Yukinori Yanagi sta tornando ad esporre a livello internazionale dopo aver passato un lungo periodo della sua vita su isole asiatiche remote (in cui ha costruito musei ridando slancio ad architettura, economia, turismo e demografia, oltre a consegnare ai posteri la sua opera).

E una delle tappe più importante di questa ripartenza sarà proprio in Italia il mese prossimo, quando si inaugurerà “Icarus”. La mostra, che si terrà al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, infatti, sarà la prima antologica mai dedicata in Europa al sessantacinquenne giapponese.

Originario della prefettura di Fukuoka, nel Giappone meridionale, il signor Yanagi, con le sue opere concettuali ma visivamente accattivanti, esplora temi complessi come globalizzazione, tecnologia, nazionalismo, dinamiche governative e paradossi delle società attuali. Senza dimenticare materie particolarmente sensibili (in Giappone) come il sistema imperiale e la costituzione dell’arcipelago nipponico (non nacque spontaneamente ma venne imposta dagli americani alla fine della guerra). Per questo è considerato uno dei primi artisti contemporanei ad essere stati apertamente critici nei confronti della società e della politica governativa giapponese.

A regalargli il successo internazionale però furono le formiche.

Yukinori Yanagi The World Flag Ant Farm, 1990 Ants, colored sand, plastic boxes, plastic tubes, plastic pipes, monitors 180 boxes, 24 x 30 cm (each) Installation view, Benesse House Museum, Naoshima, Kagawa, Japan, 2008 Photo YANAGI STUDIO Collection of Benesse Holdings, Inc., Okayama

Intenti a scavare gallerie nelle bandiere di sabbia, erodendole e portando granelli dell’una in quelli dell’altra, i minuscoli insetti, protagonisti della serie “Ant Farm”, gli permisero di aggiudicarsi il premio Aperto (allora Aperto era la sezione dedicata agli artisti più attuali) alla Biennale di Venezia del ’93. Da quel momento in avanti il signor Yanagi si era guadagnato un posto sul palco globale dell’arte contemporanea; da cui avrebbe affrontato gli argomenti che gli stavano a cuore, attraverso un linguaggio capace di fondere cultura alta e bassa (sono frequenti i riferimenti ad insegne, personaggi di fantasia e anime). Tuttavia questa posizione privilegiata gli avrebbe portato anche delle grane (a cominciare dalla resistenza in patria verso alcune sue opere che toccavano nervi scoperti della rappresentazione dell’identità giapponese).

Ai tempi Yukinori Yanagi abitava negli Stati Uniti, dove aveva affrontato parte dei suoi studi (è stato borsista d’arte a Yale con Vito Acconci e Frank Gehry) e dove si era trasferito stabilmente dopo aver vinto Aperto alla Biennale. Del resto non avrebbe potuto fare altrimenti, visto che al principio della sua carriera aveva la sensazione di “essere intrappolato in una gigantesca bandiera giapponese, in una gabbia, inghiottito dall'identità nazionale”. In quel periodo le sue opere furono acquisite dal Moma di New York, dal Virginia Art Museum e della Tate di Londra. Ma quel ciclo era destinato a concludersi e se ne tornò in Giappone.

In un’intervista ha detto: "In un certo senso, avevo raggiunto un certo livello di successo in Occidente, ma sono sfuggito dalle 'restrizioni' che derivavano dalla fama che avevo acquisito lì e sono finito su un'isola in Giappone”.

Inujima Seirensho Art Museum, Japan, 2008 Photo YANAGI STUDIO

Prima c’è stata Inujima, un'isola nel Mare interno di Seto (al largo della costa della città di Okayama nel Giappone centro-meridionale) che nel 2017 contava una popolazione di 47 abitanti, dove c’erano i resti di una raffineria di rame abbandonata all’inizio del ‘900 e che “veniva utilizzata per depositare rifiuti”. Il signor Yanagi lì ha costruito un museo innovativo e completamente ecosostenibile (mantiene la stessa temperatura tutto l’anno attraverso l’energia di terra, vento e sole che lo illuminano pure). Al Inujima Smelter Museum è seguito il Momoshima Art Base sulla minuscola isola di Momoshima (al largo della città di Onomichi nella prefettura di Hiroshima) e poi un altro sull’isola di Anjwa in Corea del Sud (probabilmente si chiamerà Museo Galleggiante e dovrebbe essere inaugurato nella primavera di quest’anno).

Riguardo il suo impegno verso delle isolette sperdute ha spiegato: “Ho sempre amato le navi e sono il tipo di persona che non riesce a creare arte se non è vicino al mare. Penso che le isole siano come una versione in miniatura del Giappone”.

Se lo spirito provocatorio e la predilezione per temi politici del signor Yanagi, si possono leggere come dirette conseguenze della sua storia famigliare (il padre si arruolò volontario come pilota kamikaze durante la seconda guerra mondiale), l’interesse per i confini si deve alla posizione geografica della loro casa (vista la vicinanza della costa di Fukuoka alla Corea, il piccolo Yukinori raccoglieva oggetti trasportati dal mare da un Paese straniero). Nipote dell’artista d’avanguardia Miyazaki Junnosuke, fin da bambino era abituato all’arte contemporanea e, spesso, si inventava giochi che includevano la partecipazione delle formiche e di altri insetti.

A Milano oltre a dipinti in cui lui ha seguito con il pennello il percorso di una formica, ci sarà una grande versione di Ant Farm: “The World Flag Ant Farm 2025” (composta da duecento bandiere di sabbia in scatole di plexiglass che rappresentano i 193 Stati riconosciuti dalle Nazioni Unite e 7 stati che non sono membri delle Nazioni Unite come Taiwan, Tibet e Palestina. Le bandiere saranno collegate da tubi in cui si muoveranno migliaia di formiche). Altre installazioni fondamentali nel percorso dell’artista giapponese ma soprattutto un gruppo di opere completamente nuove completeranno l’importante antologica.

La mostra “Icarus” (il nome, ispirato al mito greco, fa riferimento ai pericoli della tecnologia) di Yukinori Yanagi sarà al Pirelli Hangar Bicocca di Milano dal 27 marzo al 27 luglio 2025. Un periodo particolarmente azzeccato, se si pensa che solo da poco il mondo è entrato in una nuova era post-globale.

Yukinori Yanagi Icarus Cell, 2008 Iron corridor, mirrors, frosted glass, video, sound Permanent installation, “Hero Dry Cell,” Inujima Seirensho Art Museum, Okayama, Japan, 2008 Photo Road Izumiyama Collection of Fukutake Foundation, Naoshima

Yukinori Yanagi Wandering Position, 1997 Ant, steel angle, wax-crayon, monitor 520 x 520 cm Installation view, Chisenhale Gallery, London, 1997 Photo YANAGI STUDIO

Yukinori Yanagi Article 9, 1994 Neon, plastic box, print on transparency sheet, acrylic frame Dimensions variable Installation view, 8. Busan Biennale, 2016 Photo Road Izumiyama

Yukinori Yanagi Absolute Dud, 2007 Iron 305 x ⌀ 76 cm Installation view, BankART Studio NYK, Yokohama, Kanagawa, Japan, 2016 Photo Road Izumiyama

Yukinori Yanagi Project God-Zilla Onomichi U3, 2017 Mixed media, scraps from a demolished house, mirrors, acrylic, video, sound Installation view, Nishigosho Prefectural Warehouse No.3, Hiroshima, Japan, 2017 Photo YANAGI STUDIO

Yukinori Yanagi Banzai Corner, 1991 Plastic toys, mirror 112 x 239 x 241 cm Permanent installation, ART BASE MOMOSHIMA, Hiroshima, Japan Photo Road Izumiyama

Yukinori Yanagi The World Flag Ant Farm, 1990 Ants, colored sand, plastic boxes, plastic tubes, plastic pipes, monitors 180 boxes, 24 x 30 cm (each) Installation view, Benesse House Museum, Naoshima, Kagawa, Japan, 2008 Photo YANAGI STUDIO Collection of Benesse Holdings, Inc., Okayama

Yukinori Yanagi Portrait Photo Hideyo Fukuda