La notevole pittura di Tesfaye Urgessa a Palazzo Bollani illumina la prima volta dell’Etiopia alla Biennale

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Raggiungere Palazzo Bollani richiede un piccolo sforzo in più ai visitatori della 60esima edizione della Biennale Internazionale d’Arte. Non è molto lontano né dall’Arsenale (dove si estende una parte della mostra “Stranieri ovunque- Foreigners everywhere” curata da Adriano Pedrosa) né da Piazza San Marco ma le cose da vedere a Venezia sono sempre talmente tante che si mette in conto di perdere qualcosa. Tuttavia depennare dalla visita proprio il Padiglione Etiopia alla sua prima in laguna e soprattutto l’artista Tesfaye Urgessa che lo rappresenta, sarebbe un grave errore. Perché il Signor Urgessa è un pittore talentuoso e raffinato che ha saputo fondere la tradizione rappresentativa etiope (imprevedibilmente, legata a filo stretto al Realismo Socialista russo) con le avanguardie storiche europee e poi con il neo-espressionismo tedesco, con Francis Bacon e Lucian Freud (ma non solo), shakerare ogni cosa e creare uno stile tutto suo. Onirico e a tratti umoristico. Mentre la ricca cornice cinquecentesca dell’edificio, con soffitti alti e grandi finestre affacciate direttamente sull’acqua dei canali, mette in luce la sua abilità.

D’altra parte si vede che Urgessa dipinge e disegna come respira (tra l’altro passando agevolmente da pittura a olio, acquerello, pastelli ecc.): su un’opera in mostra c’è un’ombra dipinta, che a chi guarda sembra indistinguibile da un’ombra reale, salvo rendersi poi conto dell’assenza di qualcuno o qualcosa che potrebbe proiettarla.

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Il progetto presentato in Biennale si intitola "Prejudice and Belonging" (Pregiudizio e Appartenenza) ed è curato dallo scrittore e conduttore radiofonico britannico Lemn Sissay, che il Signor Urgessa ha scelto personalmente (è stato lui stesso, infatti, a convincere il governo etiope a partecipare alla manifestazione italiana e per questo si è pure potuto regalare il lusso di scegliere il curatore). Sviluppata attraverso un nutrito numero di dipinti di grandi dimensioni e qualche opera più piccola, la mostra, è una riflessione dell’artista su cosa significhi appartenere a qualcosa (per esempio: quanto tempo ci vuole? Quali le caratteristiche distintive? Quando si smette di esserne parte? ecc.) e sul concetto di pregiudizio. Per rendere questi pensieri, Urgessa utilizza simboli (i libri per lui sono il pregiudizio, gli schermi il controllo e così via), parti del corpo disancorate (gambe, mani), spesso schierate in massa ad evocare dinamismo, vitalità, trasformazione, cambiamento, rituali di una qualche quotidianità e volti. Soprattutto volti, che scrutano lo spettatore mentre li osserva incapace di capire il loro messaggio.

In un’intervista ha detto: “Il mio obiettivo era quello di creare un gruppo di figure impegnate in attività sconosciute, lasciando intenzionalmente la situazione ambigua per lo spettatore. (…) Creando un'atmosfera in cui il pubblico si sente sotto esame, spero di stimolare l'introspezione e la riflessione sulla natura della percezione e del giudizio. La mia intenzione è quella di incoraggiare gli spettatori a confrontarsi con i propri pregiudizi e preconcetti mentre interagiscono con la mia opera d'arte”.

Nonostante l’argomento, le sue composizioni esprimono spesso umorismo e leggerezza. A proposito dei personaggi, lui ha spiegato: "Spesso le persone credono che io dipinga vittime nelle mie tele, ma non è così. La società ha una forte tendenza a ridurre l'essere umano in categorie. Io sto facendo l'opposto. Cerco di ritrarre persone nella loro totalità con le loro sicurezze, le loro lotte, le loro cicatrici, tutte le loro sfide e tensioni. Le mie figure non sono né bianche né nere. Sono fragili e sicure di sé. Rappresentano tutti. Mostrano esseri umani fatti di cose in comune tra loro".

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Nato nell’83 ad Adis Abeba, Tesfaye Urgessa, considera le sue composizioni come fossero un’ordinata cantina o dei surreali collages senza colla ne ritagli. Così, inserisce all’interno dei dipinti immagini diverse (a un primo sguardo verosimili ma mai realistiche), che gli vengono in mente in momenti diversi e sono il risultato di domande e sentimenti non sempre omogenei. Tanto che lavora su più opere contemporaneamente e tiene in studio ognuna per almeno un anno (alla fine sceglie se conservarle o rifarle daccapo). Dopo essersi laureato in arte e design all’Università di Adis Abeba (i suoi insegnati erano artisti etiopi che, com’era consuetudine fino agli anni ’80, erano stati mandati in Russia per imparare le tecniche del Realismo Socialista), si è specializzato all’Accademia Statale di Stoccarda in Germania (dove ha continuato a vivere fino a poco tempo fa). Questo gli ha permesso di conoscere da vicino i maestri dell’arte europea sia del passato remoto (ha detto, ad esempio, che l’equilibrio tra luce e ombre nelle sue opere fa spesso riferimento a Caravaggio), che del modernismo, oltre ai grandi nomi della pittura contemporanea. Nonostante ciò, un particolare che ha contribuito a forgiare il suo stile almeno quanto il confronto con questi giganti, viene dalla sua vita privata. Ha infatti sposato l’artista tedesca Nina Raber-Urgessa (anche lei usa la pittura e fa figurazione) specializzata in arteterapia (i due hanno tre figli e dal 2022 abitano in Etiopia). E le surreali composizioni del Signor Urgessa che metteno in scena una teatralità stralunata hanno molto a che fare con l’elaborazione di elementi onirici.

La tavolozza è terrosa e variegata nelle sfumature ma pronta a illuminarsi di colori sgargianti (e a tratti persino stilosi) quando meno ce lo si aspetti. Spesso è scura ma per qualche strana alchimia mai cupa, drammatica o tragica.

"Prejudice and Belonging" di Tesfaye Urgessa, il primo padiglione Etiopia della Biennale d’Arte di Venezia, rimarrà a Palazzo Bollani fino alla fine, ormai prossima, della manifestazione (resta meno di un mese per visitarla: fino al 24 novembre 2024)

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ETHIOPIA, Prejudice and belonging, 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Photo by: Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia

Berthe Morisot, l'ultima impressionista sottovalutata

Berthe Morisot Eugène Manet all’isola di Wight 1875 Olio su tela Parigi, musée Marmottan Monet, legs Annie Rouart, 1993. lnv. 6029

Berthe Morrisot

Nata il 14 gennaio del 1841 da una famiglia altoborghese, Berthe Marie Pauline Morisot più comunemente nota come Berthe Morisot, è la meno conosciuta tra gli impressionisti. Penalizzata da una critica che, fino a non molti anni fa, focalizzava il proprio interesse sugli esponenti maschili del gruppo, Morisot è ora considerata una tra gli artisti più importanti della sua epoca. Non solo perché lei, cui le scorribande dei colleghi nel cuore di una società in piena trasformazione erano precluse, ci ha lasciato un punto di vista unico sull’intimità familiare e sulla quotidianità dei parigini. Ma anche per la flessibilità tecnica (usava colori ad olio, pastelli ed acquerello contemporaneamente), il senso del colore raffinato e brioso e la spettacolare pennellata. Senza contare il suo occhio attento alla moda.

Il nuovo peso di Berthe Morisot nella storia dell’arte ce lo testimoniano le due mostre a lei dedicate, nella sola Italia, per celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’Impressionismo.

Il via alle danze lo ha dato Genova il 12 ottobre, con l’inaugurazione di “Impression, Morisot” (a Palazzo Ducale fino al 23 febbraio 2025), immediatamente seguita da Torino, che il 16 dello stesso mese ha aperto le porte della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea (GAM) agli spettatori di “Berthe Morisot Pittrice impressionista” (fino al 9 marzo 2025).

Berthe Morisot, Bambina con bambola (Interno di cottage) 1886 Olio su tela Musée d’Ixelles

Nell’Appartamento del Doge sono installati 86 tra dipinti, acqueforti, acquerelli, pastelli, documenti fotografici e d’archivio (molti dei quali provenienti dai prestiti inediti degli eredi Morisot); la mostra curata dalla studiosa Marianne Mathieu “riserva novità scientifiche correlate ai soggiorni sulla Riviera tra 1881-1882 e 1888 -1889 e all’influenza della luce mediterranea sulla sua opera”. Alla GAM ci sono invece 50 opere tra disegni, incisioni e celebri dipinti provenienti da prestigiose istituzioni pubbliche come il Musée Marmottan Monet di Parigi, il Musée d'Orsay di Parigi, il Musée des Beaux-Arts di Pau, il Museo Nacional Thyssen-Bornemisza di Madrid, il Musée d'Ixelles di Bruxelles, l’Institut National d'Histoire de l'Art (INHA) di Parigi e importanti collezioni private. Curata dalle storiche dell’arte Maria Teresa Benedetti e Giulia Perin, l’esposizione di Torino promette di riunire le opere più emblematiche della francese. Al percorso espositivo ha contribuito con interventi davvero interessanti l’artista italiano Stefano Arienti.

Berthe Morisot Autoritratto 1885 Olio su tela Parigi, musée Marmottan Monet, legs Annie Rouart, 1993. lnv. 6022

Figlia del prefetto del dipartimento di Cher (nel centro della Francia) e della pronipote del famoso pittore Jean-Honoré Fragonard (ha ispirato molti, tra cui Jeff Koons che lo predilige), Berthe venne sostenuta dai genitori nella sua passione per l’arte e, insieme alla sorella Edma (l’unica oltre a lei, tra i quattro figli dei Morisot, ad avere il talento e la volontà di dedicarsi alla pittura), prese lezioni private da diversi rinomati artisti dell’epoca (tra loro c’era anche Jean-Baptiste-Camille Corot, a tutt’oggi considerato una figura fondamentale nella pittura di paesaggio). Mentre il meno celebre, Joseph Guichard, che le introdusse alle copie dei capolavori conservati al Louvre, scrisse delle due sorelle alla madre:

Con delle nature come quelle delle vostre figlie, non piccoli talenti per diletto, attraverso il mio insegnamento, esse diventeranno delle pittrici. Vi rendete conto di quello che vuol dire? […] questa sarà una rivoluzione, io direi quasi una catastrofe. Siete del tutto sicura di non maledire mai il giorno in cui l’arte […] sarà la sola padrona del destino di due delle vostre figlie?

Nonostante ciò, alle due ragazze vennero negate le possibilità che erano invece offerte agli aspiranti pittori (di fare lezioni di disegno anatomico con modelli nudi non si parlava e, di conseguenza, non potevano dipingere le grandi composizioni storiche e religiose, cioè i pezzi più considerati dalla critica, dalla società e dai committenti). E poi c’era la questione del matrimonio, che, si presupponeva, loro avrebbero anteposto alla carriera.

Fu così per Edma che si sposò e smise di dipingere per mancanza di tempo, ma non per Berthe. Quest’ultima difatti, prima tergiversò un bel po', e alla fine scelse Eugène Manet. Anche lui pittore e fratello del caro amico Édouard Manet che l’aveva usata come modella in alcune sue famose opere (ad esempio, “Berthe Morisot au bouquet de violettes”) oltre ad aver condiviso con lei la prima mostra degli Impressionisti nel 1874 (insieme a loro tra gli altri anche Monet, Renoir e Degas). Il rapporto tra i due era talmente stretto che gli studiosi hanno spesso ipotizzato che Édouard fosse segretamente innamorato della collega.

Berthe Morisot Eugène Manet e sua figlia nel giardino di Bougival 1881 Olio su tela Parigi, musée Marmottan Monet, legs Annie Rouart, 1993. lnv. 6018

Il marito insomma non le fu mai d’ostacolo, è anzi al centro di una delle opere più iconiche di Morisot: “In Inghilterra (Eugène Manet sull’isola di Wight) (normalmente conservato al Musée Marmottan di Parigi ma adesso in mostra alla GAM di Torino). Lei lo dipinse nel 1875 mentre la coppia era in luna di miele al mare. Il tratto è fremente e sicuro, ogni cosa è abbandonata alla pennellata veloce e all’immediata forza del colore, senza tuttavia perdere in accuratezza e riconoscibilità. La luce (molto diversa da quella parigina), resa attraverso segni liberi, macchie e grumi, definisce le forme e l’atmosfera del quadro. Anche se a renderlo straordinario è la composizione teatrale ma fluttuante (la posizione della sedia su cui è seduto Eugène, la finestra e il recinto determinano la profondità di un’immagine altrimenti piatta, sul punto di scomporsi) e la molteplicità di punti di vista rappresentati dall’artista che spinge a riflettere su cosa significhi guardare ed essere guardati.

Nell’opera c’è anche una bambina, come spesso capitava nei suoi dipinti, pieni di figure femminili pensose e fiori. E proprio la figlia, Eugénie Julie Manet, da dopo la sua nascita (avvenuta nel 1878) sarà uno dei soggetti preferiti di Berthe. D’altra parte, già prima di sposarsi lei dipingeva i suoi familiari (un po’ per comodità un po’ perché non sarebbe stato ben visto che facesse altrimenti).

Berthe Morisot Ragazza con cane 1892 Olio su tela Collezione privata

Tuttavia Morisot affrontava le difficoltà di fare la pittrice senza scomporsi. Quello che invece la faceva soffrire ed arrabbiare era la minor considerazione che i critici maschi attribuivano alla sua opera rispetto a quella dei colleghi: "Non credo- scrisse una volta- che ci sia mai stato un uomo che abbia trattato una donna come un'eguale e questo è tutto ciò che avrei chiesto, perché so di valere quanto loro".

Berthe Morisot morì di polmonite a soli 54 anni. E’ stata la prima impressionista donna e resta a tutt’oggi l'unico esponente sottovalutato del gruppo.

Berthe Morisot  Il giardino di Bougival 1884 Olio su tela Parigi, musée Marmottan Monet, legs Annie Rouart, 1993. lnv. 6017

Berthe Morisot Donna con ventaglio (Al ballo) 1875 Olio su tela Parigi, musée Marmottan Monet, don Eugène et Victorine Donop de Monchy, 1940. lnv. 4020

Berthe Morisot La Roche-Plate au Portrieux 1894 Olio su tavola Private collection LGR Brussel

Berthe Morisot Pastorella sdraiata 1891 Olio su tela Parigi, musée Marmottan Monet, legs Annie Rouart, 1993. lnv. 6021

Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea (GAM) di Torino, Berthe Morisot Pittrice Impressionista. Installation view. Photo: Perottino

Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea (GAM) di Torino, Berthe Morisot Pittrice Impressionista. Installation view. Photo: Perottino

Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea (GAM) di Torino, Berthe Morisot Pittrice Impressionista. Installation view. Photo: Perottino

Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea (GAM) di Torino, Berthe Morisot Pittrice Impressionista. Installation view. Photo: Perottino

Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea (GAM) di Torino, Berthe Morisot Pittrice Impressionista. Installation view. Photo: Perottino

Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea (GAM) di Torino, Berthe Morisot Pittrice Impressionista. Installation view. Photo: Perottino

Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea (GAM) di Torino, Berthe Morisot Pittrice Impressionista. Installation view. Photo: Perottino

La Chola Poblete, un’artista indigena e queer sulla cresta dell’onda

La Chola Poblete, 2022 Foto: Agustina Lamborizio / © La Chola Poblete

La Chola Poblete

Nata a Mendoza nella parte nord-occidentale dell’Argentina (a ridosso delle Ande) come Mauricio trentacinque anni fa e cresciuta in una famiglia indigena di pochi mezzi prevalentemente femminile, La Chola Poblete, è oggi un artista in vertiginosa ascesa. La partecipazione alla Biennale d’arte di Adriano Pedrosa “Stranieri Ovunque. Foreigners Everywhere dove ha ottenuto la menzione speciale della giuria, infatti, non è venuta da sola. E, dopo aver vinto il prestigioso premio “Artist of the Year” di Deutsche Bank, il suo colorato universo dolente, animato da madonne, dee, simboli pop, erotismo e crudo umorismo, adesso è al centro della mostra “Guaymallénal” (da un dipartimento nella provincia della sua città natale) al Mudec di Milano.

Se non bastasse, a giugno, si è confrontata con il mercato iper-competitivo della fiera più famosa in assoluto (Art-Basel). E poi i segnali premonitori c’erano già tutti, quando, durante Arco Madrid, la Regina di Spagna l’aveva voluta conoscere dopo essere stata colpita dai suoi acquerelli esposti nello stand della galleria che la rappresenta. Pare che La Chola Poblete, la cui opera è in gran parte una critica delle dinamiche post-coloniali, trovandosi di fronte Letizia abbia affermato: “Come stai? Eccoci qui, cinquecentotrenta anni dopo!”, suscitando un momento d’imbarazzo prontamente superato nella sovrana.

La Chola Poblete: Virgen del Carmen de Cuyo, 2023 Watercolor, acrylic, and ink colors on paper, 200 x 152 cm © La Chola Poblete

L’argentina, che dalla ricercatrice e curatrice, María Amalia García, sul sito e sul catalogo della Biennale, viene descritta così: “è un’artista transdisciplinare che opera con performance, videoarte, fotografia, pittura e oggetti: attraverso un sofisticato immaginario queer, recupera conoscenze ancestrali dai territori sudamericani(…)”, sembra non essersi però montata la testa. In un’intervista rilasciata in occasione dell’inaugurazione al Mudec ha detto: “È un periodo intenso. Ma guardami: io non sono cambiata per niente!” E poi forse è difficile credere a un cambiamento duraturo in un mondo ondivago come quello dell’arte contemporanea.

La Chola Poblete, che a Venezia è arrivata accompagnata dalla madre e dalla sorella al loro primo viaggio al di fuori del Paese, abita da anni a Buenos Aires dove da poco occupa uno studio in un’immobile prestigioso arredato con opere di alcuni dei più famosi artisti contemporanei come Leandro Erlich ed ha perfino un assistente. Ma non è sempre stato facile per lei: quando, fresca di laurea in Arti Visive a Mendoza, è arrivata nella capitale argentina, ha dovuto adattarsi a lavorare in un collettivo. Poi è arrivata qualche vendita e, pian-piano le cose hanno cominciato a marciare.

La Chola Poblete: Virgen de la Carrodilla, 2023 Watercolor, acrylic, and ink colors on paper, 200 x 152 cm © La Chola Poblete

Attualmente opera con vari medium che usa per parlare della propria identità. Si concentra sul suo essere queer e indigena ma non mancano simboli riferiti alla quotidianità pura e semplice (il condor ad esempio, perché volteggia sulle Ande) e alla banalità stereotipata di un immaginario globalizzato (i manga, etichette di prodotti di consumo ecc.). Ma anche alla storia (il barocco andino) e all’attualità dell’arte (“Comedian”, la banana che Maurizio Cattelan ha appeso a un muro, che compare in più di un’opera). Negli acquerelli, spesso eseguiti su larga scala, alla precisione calligrafica di alcuni elementi se ne contrappongono altri appena abbozzati, oltre a scritte e motivi decorativi, in un turbinio concitato e apparentemente spontaneo. Mentre il colore, vivo, a momenti accostato per toni contrapposti, tra eleganti chiaroscuri e colature drammatiche lotta per prendere il sopravvento sulla narrazione e sul bianco del supporto.

All’interno di questi pezzi ci sono i simboli prediletti da La Chola Poblete come: la madonna, le patate e il pane. In merito alla prima (che nelle sue opere appare idealizzata ma anche leggermente rivisitata, e sovrappone alla Vergine Maria la divinità latinoamericana della Pachamama) lei ha raccontato in un’altra intervista: “(…) Mio nonno è morto a 33 anni. Si raccontava che da ragazzo, in Bolivia, avesse trovato sepolta sotto terra la figura di una vergine. La prese e gli dissero che avrebbe dovuto adorarla: se trovi una piccola vergine devi adorarla sempre. Non l'ha fatto. Era uno stronzo, l'ha lanciata e si è rotta. Poi gli dissero che una maledizione lo avrebbe seguito. Ed è cresciuto con quell'idea. Morì fulminato, all’età di Cristo, e in punto di morte disse: ‘Questo è per la Vergine’. Quindi, sono cresciuta con rispetto per la Vergine a causa di questo mito familiare su quanto potente potesse essere questa figura (…)” Aggiungendo poi: “(…) Un giorno ho comprato un rotolo per realizzare grandi acquerelli. Stavo per compiere 33 anni e cominciavo ad avere paura di questo karma. Ho pensato che fosse ora di rompere con tutto ciò. Allora decisi di fare trentatré vergini, affinché mio nonno potesse riposarsi. È da lì che ho iniziato con la serie (…)”.

La Chola Poblete lavora alle opere di pane per la mostra al Mudec al panificio Davide Longoni di Milano

Le patate invece, che spesso usa sotto forma di snack prelevandole semplicemente dai sacchetti della multinazionale Lay’s, simboleggiano soprattutto la deprivazione del suolo latino-americano da parte dei colonizzatori (questi ultimi, ha spesso raccontato, le credevano frutti infernali perché crescevano sottoterra e volevano spingere gli indigeni a smettere di mangiarle).

Mentre il pane, con cui fa anche delle sculture (al Mudec ne sono esposte diverse realizzate per l’occasione), ricorda la fertilità della terra, l’originarietà e il nutrimento ma l’artista argentina lo ha anche paragonato all’acquerello: “Quando realizzo una maschera di pane o lavoro con l'acquerello fuso, entrambi seguono un percorso irreversibile. Da un lato, la pasta assume diverse sfumature di colore a seconda di quanto tempo rimane nel forno, cambiando forma, lievitando, crepando e bruciando. Allo stesso modo, l'acquerello distorce il disegno, si mescola con altre macchie e crea nuove forme. Ho la sensazione che questi materiali abbiano una qualità performativa, incarnando la mutevolezza e il flusso”. Senza contare che è un materiale deperibile.

Alcune opere de La Chola Poblete si possono ammirare alla Biennale di Venezia 2024 (fino al 24 novembre). Molte di più rimarranno invece al Mudec di Milano per tutta la durata della mostra a lei dedicata (fino al 20 ottobre soltanto). La personale “Guaymallénal” è a ingresso gratuito.

La Chola Poblete: Virgen de la leche, 2023 Photograph, 152 x 160 cm © La Chola Poblete

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin

La Chola Poblete, Guaymallénal, Mudec. Installation view.. Photo ©juleherin