“Stranieri Ovunque”: la Biennale degli indigeni e dei parenti di Adriano Pedrosa

Claire Fontaine ( Founded in Paris, France, 2004 - Based in Palermo, Italy ) Foreigners Everywhere – Spanish (2007) Suspended, wall or window mounted neon, framework, electronic transformer and cables - installation view 98 × 2.16 × 45 cm The Traveling Show, curated by Adriano Pedrosa, La Colección Jumex, Mexico / Photo by Studio Claire Fontaine / © Studio Claire Fontaine / Courtesy Claire Fontaine and Mennour, Paris 

Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, la sessantesima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, che si inaugurerà la prossima primavera (dal 20 aprile, al 24 novembre 2024), è un progetto ambizioso; mastodontico (riunisce 332 nomi di tutte le nazionalità ma per lo più provenienti dal sud del mondo); che è già stato definito un “colpo di coda woke”. In questa edizione, curata dal brasiliano Adriano Pedrosa (laureato in legge e artista con un master in arte e scrittura critica al California Institute of the Arts, che si è fatto un nome per l’eccellente lavoro svolto al Museu de arte de São Paulo in Brasile), infatti, “la migrazione e la decolonizzazione saranno le tematiche chiave”.

"Adriano Pedrosa - ha detto il presidente uscente della Biennale Roberto Cicutto (cui succederà Pietrangelo Buttafuoco)- è il primo curatore della Biennale Arte proveniente dall’America Latina, scelto perché portasse il suo punto di vista sull’arte contemporanea rileggendo culture diverse come fosse un controcampo cinematografico". 

Se, così su due piedi, l’idea dell’ennesima mostra su migranti e rifugiati potrebbe deludere, in realtà Pedrosa definitosi “il primo curatore della Biennale che lavora nel sud del globo”, oltre ad essere il primo curatore “queer” dichiarato, ha scelto di affrontare il tema in maniera profonda e guardandolo da molteplici punti di vista: “L’espressione Stranieri Ovunque – ha spiegato - ha più di un significato. Innanzitutto, vuole intendere che ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo dappertutto. In secondo luogo, che a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo si è sempre veramente stranieri”. Così oltre agli artisti provenienti dal sud del mondo (non tanto quelli che si sono trasferiti in Occidente a lavorare ma soprattutto quelli che sono rimasti in paesi in via di sviluppo), la mostra presenterà artisti dalla sessualità non binaria (“l’artista queer, che si muove all’interno di diverse sessualità e generi ed è spesso perseguitato o messo al bando”), artisti outsider e folk. In merito a questi ultimi, Pedrosa, in un’intervista rilasciata tempo fa, aveva affermato: “In Europa e negli Stati Uniti, ‘decolonizzare’ implica includere Africa, America Latina e Asia. In Brasile (e per estensione nei paesi non occidentali ndr), penso che ‘decolonizzare’ significhi guardare al popolare, all’autodidatta, all’outsider, al vernacolare”.

Poi sarà dato ampio spazio agli artisti indigeni (“spesso trattati come stranieri nella propria terra”), che andranno guardati con particolare attenzione, perchè uno dei motivi per cui Padrosa si è guadagnato rispetto e ammirazione nel mondo dell’arte, è proprio per il lavoro (per niente facile) di ricerca e studio dell’arte indigena che il curatore brasiliano ha cominciato da prima della sua nomina (e su cui quindi ha avuto più tempo per concentrarsi). “Il prossimo passo cruciale per noi- ha detto qualche anno fa parlando del museo di San Paolo- nel 2021, è l’inclusione dell’arte indigena. L'intero anno sarà dedicato alle storie degli indigeni, non solo brasiliani ma anche internazionali: Australia, Nuova Zelanda, Canada, Messico, Perù, Scandinavia e così via”. E poi, l’arte indigena nel 2024 sarà protagonista anche del Padiglione Stati Uniti (solitamente uno dei più belli del nucleo storico dei paesi espositori) che con l’artista di origine Cherokee, Jeffrey Gibson, sarà rappresentato per la prima volta in 129 anni di storia da un nativo americano (il padiglione sarà curato dalla nativa americana Kathleen Ash-Milby e da Louis Grachos e si intitolerà: “The space in which to place me”). Prima volta anche per la Danimarca, che si affiderà all’artista groenlandese Inuuteq Storch. L’Australia invece sarà incarnata da un singolo artista aborigeno per la seconda volta nella sua storia (l’onore sarà di Archie Moore).

Il titolo della mostra “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, ha origine da una serie di sculture al neon realizzate a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine (nato a Parigi e con sede a Palermo) che recitavano in un numero imprecisato di lingue, appunto: “Stranieri Ovunque”. Sempre Pedrosa in una recente intervista ha spiegato: “Si tratta di un’espressione con molti livelli di significato: si può leggere come ‘ovunque tu vada ci sono stranieri e immigrati’ ma anche come ‘ovunque tu vada sei sempre uno straniero’. Trovo che abbia una connotazione sia poetica che politica, e persino psicanalitica; in questo senso ho pensato che fosse un buon punto di partenza”.

Installation view: Cité internationale des arts Paris, Monmartre, Paris, 2004 Claire Fontaine Foreigners Everywhere (Italian), 2004 Suspended, wall or window mounted neon, framework, electronic transformer and cables. Courtesy of the artist. Photo by Studio Claire Fontaine Copyright Studio Claire Fontaine Courtesy of Claire Fontaine and Galleria T293, Rome

Saranno privilegiati gli artisti che non hanno mai partecipato alla mostra della Biennale (al massimo possono aver rappresentato un paese o essere stati chiamati per un progetto collaterale). Non a caso i loro nomi, già di per sé parecchio ostici, sono in gran parte sconosciuti e comunque non ci saranno super-star. Almeno tra i nostri contemporanei, mentre per quanto riguarda quelli del passato la questione cambia, visto che tra loro c’è pure la famosissima Frida Kahlo. Inoltre, se è vero che il numero degli artisti chiamati a partecipare è altissimo, quelli che lo faranno consapevolmente si restringe di oltre un terzo: sono infatti solo un centinaio i viventi. Alcuni tra loro sono già anziani, altri lo sono decisamente. In questo senso la Biennale di quest’anno, sembra essersi autolimitata nel suo ruolo di osservatorio sul presente e su quello di istituzione votata a cogliere le tendenze, a prevedere il futuro. Come fosse un grande museo (magari del sud del globo) che riflette sulla storia, anzichè una delle maggiori e più influenti manifestazioni di arte contemporanea del mondo.

Come sempre la mostra si articolerà tra Padiglione Centrale ai Giardini e Arsenale. Quest’ultimo sarà lo spazio dedicato alla contemporaneità, in cui troverà posto pure un progetto vecchio stile, quasi nostalgico del ’68: “Il Nucleo Contemporaneo ospiterà nelle Corderie una sezione speciale dedicata a Disobedience Archive, un progetto di Marco Scotini che dal 2005 sviluppa un archivio video incentrato sulle relazioni tra pratiche artistiche e attivismo”. Mentre nel primo ci sarà un gruppo di opere storiche, così suddiviso: due sale dedicate ai ritratti (per lo più dipinti di persone non bianche), una sala all’astrattismo al di fuori dell’Occidente e poi una terza sala dedicata alla diaspora artistica italiana nel mondo lungo il corso del XX secolo (qui Pedrosa ha forzato un po' la mano, perché gli artisti di qualsiasi nazionalità da che mondo è mondo si spostano spesso).

Per quanto riguarda i linguaggi: l’arte generativa, la computer-art e l’arte che stringe legami con la scienza per creare opere innovative, avranno poco o niente spazio. Domineranno, invece, la scena, pittura, scultura e pratiche artigiane varie, con una corsia preferenziale per gli artisti che lavorano su tessuto (non a caso uno dei due leoni d’oro alla carriera andrà alla bravissima italiana naturalizzata brasiliana, Anna Maria Maiolino; l’altro, invece, se l’è aggiudicato la turca residente a Parigi, Nil Yalter). Ampio spazio poi verrà riservato alla performance art (con una serie di spettacoli organizzati per l’occasione ma anche con alcuni giovani artisti in mostra che usano anche il corpo in chiave post-umana nella loro pratica).

A sorpresa, questa Biennale di Venezia darà infine spazio ai rapporti parentali tra gli artisti (!): zio e nipote, zia e nipote, fratelli, madre e figlia, padre e figlio, più di una coppia (“Andres Curruchich e sua nipote Rosa Elena dal Guatemala; Abel Rodriguez e suo figlio Aycoboo dalla Colombia; Fred Graham e il figlio Brett, artisti Maori di Aotearoa/Nuova Zelanda; Juana Marta e sua figlia Julia Isidrez dal Paraguay; il Makhu, Movimento dos Artistas Huni Kuin, ossia il collettivo Huni Kuin della parte occidentale della regione amazzonica brasiliana; Joseca e Taniki Yanomami, della parte settentrionale della stessa zona; Santiago Yahuarcani e il figlio Rember dal Perù; Susanne Wenger e suo figlio adottivo Sangódáre Gbádégesin Ajàla dalla Nigeria e i fratelli Philomé e Senèque Obin da Haiti e Jewad e Lorna Selim, marito e moglie dall’Iraq e dalla Gran Bretagna”).

Le partecipazioni nazionali saranno complessivamente 90. Quattro i Paesi che parteciperanno per la prima volta: Repubblica del Benin, Etiopia, Repubblica Democratica di Timor Est e Repubblica Unita della Tanzania. Nicaragua, Repubblica di Panama e Senegal, invece, partecipano per la prima volta con un proprio padiglione. 

Per concludere bisogna ricordare che il Padiglione Italia (quest’anno alle Tese delle Vergini in Arsenale) sarà di Massimo Bartolini. Un artista con una bella carriera alle spalle, già ospite della Biennale in passato oltre che di Documenta e Manifesta (fa parte della scuderia di Massimo de Carlo, la storica galleria di Maurizio Cattelan), che lavora sul rapporto tra uomo, natura e spazio architettonico e che di certo varrà la pena di essere visto.

Installation view: Cité internationale des arts Paris, Monmartre, Paris, 2004 Claire Fontaine Foreigners Everywhere (Italian), 2004 Suspended, wall or window mounted neon, framework, electronic transformer and cables. Courtesy of the artist. Photo by Studio Claire Fontaine Copyright Studio Claire Fontaine Courtesy of Claire Fontaine and Galleria T293, Rome

Vera Molnar, la donna che ha anticipato di oltre 50 anni l'uso dell'intelligenza artificiale nell'arte

Vera MOLNAR (1924-2023) Hypertransformation /Diptyque I-II/ (Hypertransformation /Diptych I-II/) 1974-1979 canvas, vinyl 147 × 150 cm; 147,5 × 150 cm courtesy of the Hungarian Museum of Fine Arts – Hungarian National Gallery

Pioniere dell’arte generativa e della computer-art, Vera Molnar, morta a Parigi il 7 dicembre scorso avrebbe compiuto 100 anni nemmeno un mese dopo (il 5 gennaio 2024). Malgrado a Molnar interessasse poco o niente delle questioni socio-politiche e degli interrogativi fantascientifico- filosofici di cui siamo abituati a sentir parlare in merito all’intelligenza artificiale, il suo lavoro anticipa largamente l’uso dell’IA nel campo delle arti visive. Molnar, infatti, si è servita di un computer per fare arte dal 1968 (per riuscirci ha dovuto imparare a programmare), ma già prima utilizzava delle “macchine immaginarie” (cioè semplici algoritmi che guidavano il posizionamento manuale di linee e forme sulla carta a quadretti). Questa spinta all’innovazione non l’avrebbe mai abbandonata: nel 2022, quando ha ideato il suo primo NFT aveva 98 anni.

Eppure diceva spesso: “La cosa che più mi piace è vedere una matita correre su un foglio di carta e seguirla. Di tanto in tanto puoi fermarti e cancellarla”.

A febbraio due importanti mostre celebreranno la sua arte: “A’ La Recherche de Vera Molnar” nella sede di Budapest del Ludwing Museum e “Speaking to the eye” al Centre Pompidou di Parigi.

Vera MOLNAR (1924-2023) Lent Mouvement Giratoire (Slow Circular Motion), 1957-2013 acrylic on canvas 80 x 80 cm courtesy of MNB Arts and Culture

Le sedi delle esposizioni non sono casuali ma frutto della biografia dell’artista, che, nata in Ungheria da una famiglia benestante, si trasferisce a Parigi nel’47 (dopo aver trascorso sei mesi a Roma per una borsa di studio). Non se ne sarebbe mai andata.

D’altra parte l’idea di abbandonare il suo paese natale ce l’aveva da parecchio: “Ricordo- ha detto in un’intervista alla Brown University- che una mattina, quando avevo 16 anni, dissi: ‘Mamma, ci sono alcune cose che voglio dirti: primo, non voglio suonare il piano, voglio dipingere. Non voglio andare in chiesa. Non voglio indossare gli occhiali. E infine… voglio rifarmi la vita in Francia’. La mia povera madre, è stata colpita tutto in una volta. Ma era una donna intelligente. Mi ha detto: ‘Va bene, c'è una cosa che non è negoziabile, sono gli occhiali. Hai una brutta miopia e verrai schiacciata da un'auto. Del resto parleremo al tuo ritorno da scuola. Ora mettiti gli occhiali’.” E poi Parigi non sarebbe stata avara con lei: lì conoscerà artisti che sarebbero stati centrali per la sua formazione, come Michel Seuphor , Félix del Marle , Georges Vantongerloo , Constantino Brancusi , Auguste Herbin , Étienne Hadju e soprattutto Sonia Delaunay (da cui avrebbe ricevuto dei preziosi incoraggiamenti); sempre nella capitale francese sarà l’unica co-fondatrice donna tra gli esponenti del GRAV (Group de Recherche d’Art Visuel), tra il 1961 e il 1968.

Vera MOLNAR (1924-2023) Electra, 1983 ink on paper 29,5 x 42 cm courtesy of MNB Arts and Culture

In Ungheria, invece, si era laureata in estetica e storia dell’Arte presso l’Università Ungherese di Belle Arti, e aveva incontrato il marito François Molnàr (psicologo e ricercatore, per un periodo era stato artista a sua volta e occasionalmente aveva collaborato con la moglie), di cui aveva scelto di usare il cognome quando faceva arte. Lei però si chiamava Vera Gacs e aveva deciso di dipingere già da bambina, mentre guardava un suo zio, pittore a tempo perso. In seguito avrebbe detto, che però, la sua vera epifania, sarebbe arrivata solo con la scoperta del Cubismo (Picasso rimarrà un suo idolo e il Mont Saint-Victoire di Cézanne comparirà in intere serie di sue opere).

Vera MOLNAR (1924-2023) Un Carré Round (Squaring the Circle) 1962-1964 oil on canvas 110 x 110 cm courtesy of MNB Arts and Culture

Malgrado Molnar fosse affascinata dalle forme create dall’uomo e si servisse di un computer per lavorare, la sua opera è molto varia e visivamente piacevole. Usava per lo più colori primari.

Al centro della sua ricerca il tentativo di razionalizzare il caos, destrutturarlo, aumentarlo gradualmente in un ambiente controllato (come se i lavori fossero esperimenti veri e propri), trovare il perfetto equilibrio tra ordine e disordine. Questo dà alla sua opera una forte valenza simbolica (il caos rappresenta la vita, il fato, i sentimenti, mentre le forme o l’ordine delle linee a cui viene applicato sono il cerebrale, l’idea, l’ideale ecc.). Non a caso Molnar amava molto anche le trasformazioni e cercava di individuare il preciso momento in cui accadevano (per esempio, quello in cui un rettangolo diventa un trapezio, o un quadrato un rettangolo). Il suo lavoro però, a momenti, lascia filtrare anche scampoli della vita, delle passioni e dei sentimenti di Vera. E’ il caso di “Lettres à ma mère” (1981-1990) in cui l’artista rievoca attraverso i disegni del computer le forme della calligrafia della madre e il loro variare nel corso degli anni (il non detto, la forza dei legami a prescindere dalle parole, l’effetto dello scorrere del tempo sulle persone, sono tutti argomenti che quest’opera tratta).

In genere, ad ogni modo, il lavoro di Vera Molnar non è affatto freddo ma anzi in qualche modo profondamente poetico, perché ha (anche) a che fare con le parole non pronunciate, le stravaganze, e con quella parte dell’esperienza che non si tramuta in memoria consapevole.

Vera MOLNAR (1924-2023) Electra, 1983 ink on paper 29,5 x 42 cm courtesy of MNB Arts and Culture

La sua opera fin dall’inizio si situa nel solco dell’arte concreta e affonda le radici nel vivace ambiente artistico parigino di quegli anni (lo aveva ricordato lo scomparso maestro dell’Op Art Carlos Cruz-Diez, di origini venezuelano ma a sua volta parigino per scelta). Mentre l’impegno pionieristico nell’arte generativa non solo è straordinario ma ai tempi venne accolto con non poco scetticismo. Infatti, quando nel ’68 Molnar si è presentata al capo del laboratorio informatico da cui avrebbe ottenuto l’accesso al suo primo computer, dicendogli che intendeva usarlo per fare arte, l’uomo (ha ricordato più volte l’artista): “Mi ha dato un’occhiata e ho avuto la sensazione che stesse valutando se chiamare un’infermiera per sedarmi o rinchiudermi”.

Va infine detto che ai tempi usare un computer era tutt’altro che semplice: era necessario imparare i primi linguaggi informatici come Fortran e Basic e inserire i dati nella macchina con schede perforate. Nonostante ciò Molnar ha affermato: “Il grande giorno della mia vita è stato quando abbiamo ricevuto un computer a casa. Ci siamo addormentati la notte al rumore del tavolo del plotter, qualcuno lavora al tuo posto, uno schiavo che non è iscritto al sindacato, che non vuole andare in vacanza e che fa tutto quello che gli chiedo!

A’ La Recherche de Vera Molnar” nella sede di Budapest del Ludwing Museum curata da Richard Castelli  e Zsófia Máté, si inaugurerà il 10 febbraio (fino al 14 aprile 2024). La mostra sarà la prima di un tour internazionale di esposizioni dedicate ai più influenti pionieri della computer-art dal polo museale tedesco. “Speaking to the eye” al Centre Pompidou di Parigi si terrà, invece, dal 28 febbraio al 26 agosto 2024

Vera MOLNAR (1924-2023) Hypertransformation /Diptyque I-II/ (Hypertransformation /Diptych I-II/) 1974-1979 canvas, vinyl 147 × 150 cm; 147,5 × 150 cm courtesy of the Hungarian Museum of Fine Arts – Hungarian National Gallery

Vera MOLNAR (1924-2023) Portrait © Horváth László

Ludwig Museum Budapest Outside view Photo: Balázs GLÓDI © Ludwig Museum – Museum of Contemporary Art

Chiara Camoni "una delle artiste più importanti della sua generazione" al Pirelli Hangar Bicocca

Chiara Camoni, Sister (Capanna), 2022 (particolare) Ferro, terracotta nera, fiori freschi e fiori secchi 220 x 140 x 150 cm Courtesy l’artista Nicoletta Fiorucci Collection Foto Camilla Maria Santini

Laboriose sculture in porcellana, tessuti tinti con piante o bacche raccolte qua e là, fiori veri, elementi architettonici che richiamano un sito archeologico e oggetti trovati, sono solo alcuni dei pianeti che convivono nell’universo artistico di Chiara Camoni. Un mondo insieme fiabesco e poetico, bizzarro e misterioso, dove gli elementi di critica sociale si diluiscono in un’atmosfera magica e giocosa, che, dal 15 febbraio sarà protagonista della mostra “Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse” (e con un titolo così) al Pirelli Hangar Bicocca di Milano.

Nata nel ’74 a Piacenza, Camoni ha alle spalle un lavoro costante e ininterrotto, senza corsie agevolate o drastici colpi di fortuna, che nel tempo (si laurea all’Accademia di Brera nel ‘99 e inizia subito a dedicarsi all’arte a tempo pieno) si è evoluto, fino a diventare stratificato e complesso, capace di racchiudere al suo interno riflessioni e suggestioni multiformi. E i risultati hanno cominciato ad arrivare. Tanto che Pirellli Hangar Bicocca sul suo sito la definisce “una delle artiste italiane di maggior rilievo della sua generazione”.

Camoni, che adesso abita in provincia di Lucca con la famiglia (a Serravezza, un paese di 12mila abitanti sull’Appennino, non lontano dalle cave di marmo), usa vari medium espressivi (scultura, disegno, video); ha una particolare predilezione per la ceramica e spesso ottiene o modifica i colori delle opere attraverso elementi naturali (fiori, piante e bacche appunto, ma anche diversi tipi di argilla e ceneri). A volte non lavora da sola ma organizza delle riunioni con altri (parenti o amici ma non solo) chiamati a svolgere un particolare compito. D’altra parte, la dimensione rituale che si crea durante questi eventi e le diverse sfumature psicologiche che confluiscono nelle opere plasmandole in maniera impercettibile, sono aspetti che si ritrovano in tutta la sua pratica. E poi i raduni aiutano a ricordare.

Alla memoria, infatti, fanno riferimento sia le citazioni di antiche civiltà che si ritrovano disseminate nelle sue sculture, sia fiabe e racconti vari, da lei evocati. Come pure gli oggetti trovati che inserisce nelle sue opere, che possono essere industriali, o, più spesso, naturali (ad esempio foglie secche o ossicini).

Anche il titolo della mostra sembra una filastrocca o una formula magica (magari più da strega della Disney che da vera e propria occultista), ma declinata al femminile. Ed è anche una maniera ironica e faceta di evocare il femminismo. Del resto, Camoni rivendica con decisione il diritto di fare arte con strumenti tradizionalmente più usati dalle donne (fino a pochi anni fa relegati dalla critica nel campo di serie b delle arti applicate), di citare artiste e scrittrici donne ma soprattutto di risolvere l’opera con una sensibilità e un gusto del tutto femminili. Lei a tal proposito ha detto:

Come artista donna, la mia identità nasce in modo archeologico, in un tempo e uno spazio lontano, dove torno sempre per poi trovare la mia collocazione nel presente. Così hanno origine le opere, che hanno una loro vita autonoma, muovendosi nel tempo e nello spazio che viene dopo, quello futuro. Comincia quella dualità che le rende mutevoli, ambigue, dedite al cambiamento”.

L’opera, in generale, è una rivisitazione del tema del paesaggio, anche se a volte si sovrappone e si intreccia alla natura morta e, persino al ritratto (non prima però di aver fatto un viaggio a ritroso nella storia dell’arte verso volti e forme archetipiche). Tutto è molto tattile. Non a caso l’artista utilizza quasi esclusivamente l’artigianato nella sua pratica: disegna, modella l’argilla, tinge i tessuti ecc. Il contatto diretto con la materia, talvolta ripetitivo, diventa una forma di meditazione e una maniera per far emergere l’inconscio. Oltre a un modo per portare alla luce legami, citazioni e inaspettate assonanze, con altre civiltà, talvolta lontane nel tempo altre nello spazio. Mentre le forme organiche insieme alla cangiante bellezza della natura, dominano la composizione.

Questi aspetti daranno forma anche all’allestimento della mostra al Pirelli Hangar Bicocca, che, ispirato al giardino all’italiana tardo-rinascimentale e agli antichi anfiteatri, si svilupperà come un percorso: “Il disegno- spiega il comunicato del museo milanese- simmetrico e radiale della pianta crea corridoi e stanze, strade e ambienti, che dividono lo spazio dello Shed in aree dove i visitatori possono sostare o dialogare. Il centro vuoto è il fulcro attorno a cui ruota il progetto di mostra: le opere sono infatti disposte come sugli spalti di un’arena, trasformando l’esposizione in un raduno o uno spettacolo”.

Per lasciare che l’ambiente (i giochi della luce, le ombre serali, il particolato, la brezza) faccia la sua parte, esaltando il ciclo naturale e la mutevolezza del paesaggio, le finestre dello spazio espositivo rimarranno aperte (quest’ultimo è stato uno stabilimento industriale, dove all’inizio del secolo scorso si costruivano e assemblavano locomotive).

Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse” (a cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli) al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, aprirà in abbinata alla mostra di James Lee Byars (la sede è molto grande e ospita sempre due esposizioni contemporaneamente), per poi sposarsi a quella del giamaicano Nari Ward (dal 28 marzo; quella di lei si concluderà però sette giorni prima di quella di Ward: il 21 luglio). Raccoglierà il numero più ampio di opere di Chiara Camoni mai presentato in Italia, insieme ad una serie di nuovi lavori.

Chiara Camoni Sister #04, 2021 Terracotta nera, ferro 85 x 150 x 80 cm Veduta dell'installazione, “Io dico Io – I say I” Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, 2021 Courtesy l’artista  Collezione 54, Milano Foto Monkeys Video Lab

Chiara Camoni Barricata #1, 2016 (particolare) Terracotta policroma, acqua, fiori Dimensioni variabili Courtesy  l’artista e SpazioA Pistoia Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Serpentessa ‒ parte di Ipogea, 2021 Pietra Installazione site specific permanent  Courtesy l’artista e Palazzo Bentivoglio, Bologna Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Sister (Capanna), 2022 Ferro, terracotta nera, fiori freschi e fiori secchi 220 x 140 x 150 cm Courtesy l’artista Nicoletta Fiorucci Collection Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Senza Titolo, Mosaico #04, 2018 Marmo Dimensioni variabili Courtesy l’artista Collezione Agovino Foto Studio Gonella, Torino

Chiara Camoni Sister (degli Scarti), 2023 Terracotta policroma, ferro, vegetale secco, plastica e materiali vari 150 x 220 x 150 cm Courtesy l’artista e SpazioA Pistoia Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Vasi Farfalla, 2020 Grès smaltato, elementi vegetali Dimensioni variabili Courtesy l’artista e SpazioA, Pistoia Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Ritratto Foto Lorenzo Bottari