Frank Auerbach, uno dei maggiori esponenti della scuola di Londra è mancato lunedì

Frank Auerbach, Self-portrait, 2023, Acrylic on board 660 x 610 mm. Frankie Rossi Art Project

Conosciuto per la caparbia dedizione al lavoro, l’essere abitudinario ai limiti del maniacale e per la laboriosità della sua opera, il pittore britannico Frank Auerbach, è mancato lunedì scorso. Aveva 93 anni, insieme a Francis Bacon e a Lucian Freud (nipote di Sigmund), era uno dei maggiori rappresentanti della Scuola di Londra.

Nel 2001 in occasione della mostra alla Royal Accademy, Frank Auerbach andò ad aspettare il giornalista John O'Mahony che doveva intervistarlo alla fermata della metropolitana e lo accompagnò fino al suo studio. Una camminata di soli cinque minuti per il quartiere di Camden Town nella zona nord di Londra ma il Signor O'Mahony scrisse: “Una volta reggiunta la scalinata del suo studio con il cancelletto rappresentato in modo esaustivo nei suoi dipinti To The Studios, questo breve viaggio sembra averci portato attraverso l'intera lunghezza e larghezza del piccolo universo di Auerbach”. Quello studio, che pare fosse angusto e freddo, il Signor Auerbach, lo aveva rilevato dal suo amico e collega Leon Kossoff nel ’54. Da allora vi si recava tutti i giorni, sette giorni su sette, per dipingere, a parte un giorno all’anno in cui prendeva il treno per Bringhton sulla costa meriodinale dell’Inghilterra (a circa un’ora e mezza da Londra) per respirare un po’ d’aria di mare e poi ritornare in fretta e furia. Nello studio, da quando era tornato con la moglie, la pittrice Julia Wolstenholme (da cui ha avuto il figlio Jake che adesso fa il regista), dopo la tumultuosa e appassionata relazione con Estella Olive West, lui dormiva anche cinque notti a settimana (nel weekend andava dalla moglie). Non guardava mai la televisione che riteneva “un’invenzione abominevole” e la mattina, prima delle sette per non trovare traffico, dipingeva i parchi, le strade e gli edifici lì intorno. Tuttavia erano i ritratti quelli a cui dedicava più tempo, impegno e dedizione.

Si parla di immagini stilizzate ma dinamiche che emergono dalla pittura densa e grumosa spesso al limite dell’immaginabile in cui raramente si riconosce il soggetto. Comunque il Signor Auerbach ritraeva un ristrettissimo gruppo di persone, sempre le stesse (in genere amici e famigliari, tra cui la moglie, l’amata West e la modella Juliet Yardley Mills). Uno dei motivi era che posare per lui doveva essere una vera e propria prova di sopportazione: due ore a settimana per un tempo indefinito che poteva protrarsi facilmente per un anno o due e niente ritardi altrimenti lui si innervosiva. Un modello ha riferito a The Guardian: “Era come andare dal dentista”. Un altro ha invece spiegato: “Parla da solo tutto il tempo, dicendo 'spazzatura, non è abbastanza buono, spazzatura completa'. Ma ti rendi conto che improvvisamente a un certo punto in questo atto di creazione è un po' più contento. Di punto in bianco entra in uno stato di meditazione e tocca la tela con grande delicatezza, e pensi che forse è finalmente soddisfatto".

E.O.W. Nude, 1953–4, Frank Auerbach Oil paint on canvas. 508 × 768 mm frame: 683 × 945 × 106 mm Tate Britain

Era un disegnatore geniale e un pittore, perennemente insoddisfatto (anche molti anni dopo ricomprava le opere che non lo convincevano per distruggerle) ma enorme, con la mente sempre rivolta ai grandi maestri (tra loro Picasso ma anche Tiziano, Rembrandt e Rubens). All’inizio della sua carriera sovrapponeva strati su strati di pigmento, talvolta raschiando via zone gli sembravano sbagliate, per poi applicarne ancora e ancora. Si trattava di volumi di colore incredibilmente tattili e talmente consistenti che nel ’55 quando vennero esposti per la prima volta (opere oggi celebrate come Head Of EOW del 1954-55 che aveva richiesto 300 sedute e due anni di lavoro e l'EOW Nude del 1953-54) ci vollero due o tre persone per reggerli talmente erano diventati pesanti, e, alla fine, si decise di appoggiarli sul pavimento per paura che la vernice si staccasse e cadesse a terra. Qualche anno dopo però cambiò tecnica e cominciò a dipingere per poi raschiare via l’intero risultato, poi ridipingeva poi raschiava di nuovo e così via per un infinito numero di volte. Secondo una stima fatta dallo stesso artista pare che il 95 per cento del colore da lui utilizzato finisse nell’immondizia.

Era nato a Berlino il 29 aprile del 1931 da una famiglia ebrea colta e benestante. Il padre Max era un avvocato specializzato in brevetti, mentre la madre Charlotte Borchardt aveva ricevuto una formazione artistica. Ma poi la situazione politica tedesca si complicò troppo e i genitori decisero di mandare il piccolo Frank Helmut Auerbach in Inghilterra attraverso un programma per bambini rifugiati. Poco tempo dopo loro furono internati in un campo di concentramento ed uccisi ma il figlio si salvò ed ebbe l’opportunità di studiare oltre Manica. Fin da piccolo sognava di fare l’artista e frequentò prima il Bunce Court School a Otterden, nel Kent, poi il Hampstead Garden Suburb Institute e la St. Martin's School of Art di Londra. Recuperò infine un semestre al Borough Polytechnic Institute (ora London South Bank University), dove studiò con il pittore vorticista David Bomberg (che lui ricordò per tutti gli anni a venire). Era dotato per l’arte ma lo era anche per il teatro e una volta finì a recitare in una produzione dell’opera di Peter Ustinov, "House of Regrets", lì incontrò la signora Estella Olive West. Lui aveva 17 anni lei 32, sarebbero stati insieme per 25 anni.

La tragica fine della sua famiglia e le difficoltà che porta intraprendere la carriera artistica, lo misero nella condizione di avere costanti problemi economici. Tanto che per sopravvivere insegnò, trovò lavoro presso la panetteria della famiglia Kossoff nell'East London, fece il corniciaio e vendette persino gelati a Wimbledon Common. Ne avrebbe risentito per molti anni anche la sua pittura: per risparmiare comperava soltanto pigmenti scuri che costavano meno. Man mano che la sua situazione finanziaria migliorava (ci vollero molti anni perché si sistemasse definitivamente) aggiungeva colori dalle tinte sempre più accese che emergevano irrequieti in mezzo alla biacca incrostata. La sua affermazione venne ritardata da vari movimenti come l’Arte Concettuale e il Minimalismo ma nell’86 rappresentò la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia e si aggiudicò il Leone d’Oro insieme al tedesco Sigmar Polke. Ora le sue opere superano molto spesso il milione.

Nel 2011 quando morì Lucian Freud una parte della sua vasta collezione di Aurbach fu donata al governo inglese al posto della tassa di successione di 16 milioni di sterline (al cambio attuale oltre 19 milioni di euro).

Nel corso del tempo raccolse critiche entusiastiche e pareri ferocemente contrari che vanno da “l’inglese testardo per eccellenza” con cui lo liquidò il critico Stuart Morgan a "uno degli artisti più ammirati che lavorano oggi in Inghilterra" del critico Robert Hughes. Ma martedì, dopo che il mondo aveva appreso della sua scomparsa tutti gli artisti più famosi del Regno Unito lo hanno celebrato.

Frank Auerbach, Mornington Crescent - Summer Morning 2004 © Frank Auerbach Tate Britain

Con "Moon Phases", prima scultura ‘autorizzata’ sulla Luna, Jeff Koons è entrato nella Storia

Le sculture di Jeff Koons posizionate sul lander. Photo: Jeff Koons\X

Sono 125 sfere di acciaio che riproducono in modo meticoloso la superficie lunare, si distinguono l’una dalle altre per il punto di vista da cui sono state originariamente osservate (62 fasi lunari viste dalla terra ed altrettante da altri punti nello spazio, più un’eclissi) e la settimana scorsa sono arrivate sulla Luna. Ognuna misura poco meno di tre centimetri e tutte insieme, impacchettate in un cubo di plexiglass, compongono Moon Phases” di Jeff Koons, la prima opera d’arte ‘autorizzata’ ad occupare il suolo del satellite terrestre. Si tratta di un progetto che molti prima di Koons hanno potuto soltanto sognare e che, comunque la si voglia vedere, segna una tappa nella Storia.

Siamo atterrati!- ha commentato Koons- Congratulazioni a Intuitive Machines e SpaceX per il loro straordinario risultato nel realizzare questa storica missione privata sulla Luna! Sono così onorato che le mie opere d’arte Moon Phases siano parte della missione Odysseus!

Infatti, quando il lander Odysseus (chiamato anche Odi o IM1), partito il 15 febbraio, è allunato con successo giovedì scorso, dopo essersi staccato dal razzo SpaceX Falcon 9 (supervisionato dalla società Intuitive Machines con sede a Houston), era la prima volta che gli Stati Uniti tornavano sulla Luna dopo 50 anni ma si trattava anche della prima missione spaziale privata mai portata a termine. Un progetto, con tanto di sponsors, che ci si aspetta porti ricadute, non solo geopolitiche sulla Terra, ma soprattutto economiche.

Dal canto suo “Moon Phases”, oltre alle piccole lune di metallo luccicante che rimarranno sul suolo del satellite in qualità di primo monumento umano nello Spazio, si compone di una serie di NFT (di cui si occupa la sezione Pace Verso della galleria internazionale Pace Gallery) e di altre 125 sculture più grandi e preziose destinata a rimanere sulla Terra (per essere vendute). Queste ultime, fatte di acciaio inossidabile riflettente a specchio (come “Rabbit” il coniglio record d’asta di Koons), pur se uguali alle altre, misurano 39 centimetri e mezzo di diametro e, nel punto in cui Oddi è allunato portano una pietra preziosa applicata (un diamante bianco, un diamante giallo, uno zaffiro blu, uno smeraldo verde e un rubino rosso).

L’artista si aspettava che la sua opera venisse posizionata sulla Luna già nel 2022 ma il progetto ha avuto diverse battute d’arresto. Secondo la Pace Verso “Jeff Koons ha tratto ispirazione dalla Luna come simbolo di curiosità e determinazione (…)”, spiegando così il motivo per cui ogni scultura dell’artista statunitense porta il nome di una persona il cui nome ha contribuito al progresso dell’umanità (tra loro: Galileo Galilei, Platone, Nefertiti, Leonardo da Vinci, Artemisia Gentileschi, Andy Warhol, Ada Lovelace, David Bowie. Mahatma Gandhi; l’elenco completo è qui). Koons ha, invece, detto a New York Times che l’idea di mandare un’opera sulla Luna gliel’ha data il figlio Sean Koons, che aveva visto una proposta in tal senso. Sean, adesso 22enne, fa a sua volta l’artista, è uno dei sette figli di Koons e in un’intervista ha recentemente dichiarato: “Sarà stucchevole ma uno dei miei eroi è proprio mio padre”.

Si dice che “Moon Phases” sia la prima opera d’arte ‘autorizzata’ ad essere stata posizionata sulla Luna perché già ai tempi dell’Apollo12 (1969) un gruppo di artisti famosi dell’epoca (Andy Warhol, Robert Rauschenberg, John Chamberlain, Claes Oldenburg, Forrest Myers e David Novros) chiese il permesso di inviarne una. Non ricevettero mai risposta ma pare che “The Moon Museum” (così si chiamava la piastrellina su cui ogni artista aveva tracciato un velocissimo disegno) sia stata nascosta in qualche punto del lander e adesso sia ancora lì, benchè occultata. In seguito (1971), gli astronauti dell’Apollo 15, lasciarono una minuscola scultura d’alluminio dell’artista belga Paul Van Hoeydonck sul suolo lunare (in questo caso a memoria dell’impresa restano delle fotografie), oltre ad una targa commemorativa con i nomi dei loro colleghi morti in servizio. Sono molte di più, invece, le opere che nel tentativo di superare l’atmosfera terrestre sono state inghiottite dallo Spazio o andate distrutte prima di raggiungerlo.

Adesso “Moon Phases” di Koons insieme all’intera zona in cui è avvenuto l’allunaggio è tutelata dagli storici accordi di Artemis (firmati nel ’67) che estendono il concetto di siti di interesse storico allo spazio extra-atmosferico.

Le opere di Jeff Koons che nel 2022 sono state esposte a Palazzo Strozzi di Firenze in Italia, nei prossimi mesi saranno incluse in due collettive in Europa (alla Bourse de Commerce di Parigi prima e alla Pinakothek der Moderne di Monaco poi) mentre l’artista statunitense per il momento non ha annunciato l’apertura di nessuna personale.

Jeff Koons con le sue sculture di fronte alla navicella. Photo: Jeff Koons\X

Il Papa visiterà la Biennale di Venezia. Sarà la prima volta nella storia della manifestazione

Padiglione Centrale ai Giardini della Biennale Photo by Francesco Galli

Ad aprile quando Papa Francesco farà tappa al Padiglione della Santa Sede della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte (che quest’anno si terrà alla Casa di reclusione femminile della Giudecca visto che il Vaticano non ha una sede stabile per la manifestazione lagunare) sarà una data storica. E’, infatti, la prima volta in assoluto che un papa visita la Biennale di Venezia. “Accogliamo con gioia la notizia della visita di papa Francesco al Padiglione della Santa Sede alla Biennale presso il carcere femminile della Giudecca, che rispettosamente interpretiamo anche come un gesto di attenzione verso tutta la Biennale di Veneziaha commentato il presidente della Biennale, Roberto Cicutto, cui (il prossimo 2 marzo) succederà Pietrangelo Buttafuoco (ci sarà anche lui, mussulmano per scelta e affinità intellettuale, ad accoglierlo insieme al sindaco Luigi Brugnaro e al presidente della Regione Veneto Luca Zaia). E poi ci sarà pure il curatore di “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, la sessantesima edizione della Biennale di Venezia, Adriano Pedrosa.

 Nato a Rio de Janeiro in Brasile nel ’65, Pedrosa, che da diversi anni lavora al Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand (per praticità MASP) ed è apprezzato, tra le altre cose, per gli approfonditi e pionieristici studi sull’arte indigena (e non solo quella del sud-america) si definisce “il primo curatore della Biennale che lavora nel sud del mondo”, oltre ad essere il primo curatore queer dichiarato dell’importante manifestazione artistica internazionale, è un intellettuale latino-americano. E il fatto che anche Bergoglio provenga dalla stessa area del pianeta non sembra casuale. Come di certo non lo è il fatto che il Vaticano partecipi nel 2024, dopo una storia di presenze altalenanti, quando il focus è sull’alterità e sul sud del mondo. Questo nonostante il colonialismo sia stato anche un fatto religioso.

Bergoglio, comunque, non sembra avere in programma nemmeno un passaggio veloce ai Giardini della Biennale (sede principale e cuore pulsante della manifestazione) ma solo al Padiglione della Santa Sede alla Giudecca, lontano dal centro della kermesse battuto dai turisti. In questo senso il Papa renderà la location, sulla carta troppo decentrata, appetibile al grande pubblico. Alzando la palla ad una mostra che sembra studiata per fare il pieno di visite ma che avrebbe potuto essere fortemente penalizzata dalla sede. Tutto ciò indica chiaramente che la Chiesa crede profondamente nell’importanza dell’arte contemporanea, come mezzo per veicolare il messaggio pastorale del pontefice.

La partecipazione della Santa Sede alla Biennale d’Arte è recente (una decina d’anni). A promuoverla è stato il cardinale Gianfranco Ravasi, ai tempi presidente del Pontificio consiglio della cultura, ma già Benedetto XVI, durante il suo mandato, aveva incoraggiato un nuovo rapporto tra Chiesa ed arti.

La mostra del padiglione (molto francese nella scelta e nell’equilibrio degli artisti) si intitola “Con i miei occhi” e, a livello concettuale, intende essere un reimpasto del tema proposto da Pedrosa in chiave cattolica. Ma i curatori (la storica dell’arte, Chiara Parisi, attuale direttore del Centre Pompidou-Metz, oltre allo scrittore francese, Bruno Racine, amministratore delegato e direttore di Palazzo Grassi) sono stati abili nella scelta degli artisti, regalando vibrazioni vitali e un alone potenzialmente trasgressivo al progetto. Ci sarà la star indiscussa dell’arte italiana, Maurizio Cattelan, poi la ballerina e coreografa francese, Bintou Dembélé (pioniere della danza hip hop oltralpe, che esplora il tema della memoria del corpo), la scrittrice e artista libanese Simone Fattal (fresca della partecipazione alla mostra principale de “Il Latte dei Sogni”, la Biennale Arte 2022, di Cecilia Alemani), la coppia Marco Perego & Zoe Saldana (regista italiano trapiantato negli States lui, diva figlia di immigrati lei), la pittrice francese Claire Tabouret (tavolozza acquea, spesso animata da sfumature di colore pastello tendenti al fluorescente, che rompono composizioni figurative inquiete), il collettivo parigino Claire Fontaine (quello che creava i neon con la scritta “Stranieri Ovunque”, d’ispirazione per il titolo della Biennale 2024) e l’artista ed educatrice statunitense Suor Corita Kent (mancata nel 1986).

Sono diversi i segni di rinnovamento che si possono intravedere dagli artisti chiamati a rappresentare quest’anno la Santa Sede (il progetto dell’esposizione, come quelli di tutte le altre partecipazioni nazionali, è ancora segreto). E malgrado la stampa per ora si sia soffermata sulla presenza di Maurizio Cattelan, che, proprio alla Biennale nel 2001, aveva suscitato polemiche con “La Nona Ora” (l’opera rappresenta Papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite, e, dietro la patina ironica e neo-pop da cartoon, è, in realtà, una toccante riflessione sul tema della fragilità della vita e sul destino), la presenza più rilevante sembra quella di Suor Mary Corita Kent. Nata Frances Elizabeth Kent, quest’ultima, fu un’artista Pop a lungo dimenticata ma che di recente ha recuperato centralità nella storia dell’arte. Nella sua opera, mischiava immagini di marchi di consumo, a, tra le altre cose, citazioni della Bibbia, di filosofi e di personaggi dei cartoni animati. Prese attivamente parte alle marce degli anni ‘60 per i diritti civili e contro la guerra ma, a causa dei contrasti con il cardinale e l’arcidiocesi di Los Angeles dell’epoca, tornò alla vita secolare già nel ’68. Ai tempi il cardinale aveva definito il suo lavoro “blasfemo”.

Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, la sessantesima edizione dell’Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia, inaugurerà il 20 aprile insieme a tutti i padiglioni nazionali e rimarrà visitabile fino al 24 novembre. Mentre Papa Bergoglio visiterà il Padiglione della Santa Sede domenica 28 aprile 2024.