L’opera pazza ed elusiva di Leigh Bowery viene celebrata alla Tate trent’anni dopo la morte dell’artista

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 1 Look 2 1988 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery. 

Leggendo le parole con cui chi lo conosceva ha ricordato lo stilista e performer Leigh Bowery, in occasione di una importante mostra a lui dedicata in corso alla Tate Modern di Londra, si ha l’impressione di trovarsi di fronte alle descrizioni di persone diverse. C’è chi lo racconta come un uomo “timido e ben educato”, chi “silenzioso e riservato” e ancora qualcuno lo dipinge come “sfrontato e provocatorio”. Del resto lui che metteva al centro della sua opera i concetti di rinascita, mutamento e reinvenzione (e li applicava prevalentemente a se stesso), di fronte alla domanda di un giornalista che gli chiedeva in quali occasioni gli fosse capitato di mentire, aveva risposto “Quando pensi mi succeda di respirare?

Ugualmente elusivo, il suo lavoro sfugge alla categorizzazione. “Se mi etichetti, mi neghi” disse nel ’93, un anno prima di morire a soli 33 anni di AIDS. Era vero allora come adesso e forse anche per questo non è mai diventato davvero famoso. Almeno al di fuori del suo elemento: la Londra underground degli anni ’80: post-punk e new romantic in cui giovani festaioli e talvolta scapestrati si ritrovavano a ballare gomito a gomito con le celebrità del momento.

La stessa capitale inglese che torna a rivivere nell’antologica “Leigh Bowery!”.

La mostra della Tate è segnalata più o meno da tutti come uno degli appuntamenti più importanti dell’anno. Innanzitutto per la completezza del materiale esposto: fotografie, video, oggetti e costumi (il più delle volte completamente ricostruiti per “la sporcizia da discoteca” che li aveva ricoperti); oltre agli splendidi dipinti di Lucian Freud per cui ha fatto da modello. Ma anche perché, sebbene l’influsso dell’opera del signor Bowery sia ormai universalmente riconosciuto, è un errore piuttosto comune quello di collocarlo soprattutto nell’ambito della moda. Mentre lui, oggi icona drag e del movimento Lgbtqi+, è stato anche personaggio televisivo, club kid, promotore di locali, musicista, performer e artista.

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 4 Look 19 August 1991 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Nato nel 1961 a Sunshine (un sobborgo di Melbourn in Australia), Leigh Bowery proveniva da una famiglia piuttosto rigida e conservatrice (in proposito la sorella minore, Bronwyn, ha recentemente detto: "Quando cresci in quel tipo di ambiente, hai due scelte: conformarti o reagire. Leigh ha scelto di reagire. Fin da bambino, era istintivamente spinto dal desiderio di sfidare e sconvolgere lo status quo, sia a casa che nella comunità”). Probabilmente anche per questo a soli diciannove anni si trasferì a Londra. Dove arrivò con pochi soldi, una valigia e una macchina da cucire portatile. Nel giro di pochissimo tempo però diventò una presenza fissa dei club più di tendenza dell’epoca. Conosceva tutti e si mise a fare lo stilista; ma la moda non faceva per lui: le sue creazioni erano troppo bizzarre e trasgressive per il pubblico, mentre a lui non piaceva vestire altri e disprezzava la parte commerciale del mestiere.

Così si dedicò a ideare e produrre costumi sempre più radicali ed elaborati, fatti con tutto quello che gli capitava tra le mani per sé stesso (a un certo punto si copriva anche il volto con maschere o passamontagna multicolore), che, una volta indossati, lo trasformavano in una scultura vivente. Allo stesso modo il trucco (coloratissimo e spesso tattile) era un modo per dipingere usando il corpo come supporto. Usava anche parrucche e scarpe dai tacchi altissimi che lo rendevano ancora più imponente di quanto non fosse già (aveva una corporatura robusta e secondo la sorella era alto un metro e 87 centimetri). L’amico e cantante Boy George l’ha descritto in questo modo a un quotidiano statunitense: “Quando vedi le drag queen che fanno riferimento a Leigh è meraviglioso, ma troppo raffinato. Leigh era molto rozzo e aveva la corporatura di un giocatore di rugby, e non era né grazioso né fatato". Anche Marina Abramović ha scritto di lui: “Era un uomo enorme” (Leigh fece un costume da “regina dei topi” per Abramović nel ’94, quando lei rappresentò “Delusional”, in cui alla fine lei si calava nuda in una botola in cui erano intrappolati 400 topi vivi).

Leigh Bowery con la collaboratrice, amica e moglie Nicola Bateman Dave Swindells, Daisy Chain at the Fridge Jan '88: Leigh & Nicola 1988 (c) Dave Swindell

Tuttavia il signor Bowery ambiva a superare i limiti del proprio corpo e ad usarlo come fosse creta o stoffa: per questo si sottoponeva a bendaggi del torace, modellava il collo con bustini contenitivi e teneva ferme le maschere attraverso piercing al volto. Una volta ha affermato: “La carne è il tessuto più favoloso”.

Malgrado qualsiasi sua uscita fosse una mise en scene, la carriera ufficiale di performer per Leigh Bowery, inziò nell’88 alla Anthony D'Offay Gallery di Londra. Durante la mostra si distendeva su un divano del XIX secolo disposto dietro uno specchio unidirezionale (come quelli nella sala interrogatori dei film e delle serie tv), ogni tanto si alzava, si sistemava il trucco e rimirava il proprio riflesso. Contemporaneamente nello spazio riservato al pubblico (che lo osservava senza essere visto) venivano diffusi suoni e odori. Lo show durò una settimana, nel corso della quale l’artista si presentò con un costume diverso ogni giorno, parlando di storia dell’arte ma anche del guardare ed essere guardati.

Amico del coreografo britannico Michael Clark, il signor Bowery, per un certo periodo creò i costumi per gli spettacoli di Clark e, a volte, si esibì come solista. La sua performance più famosa però richiedeva molto più impegno. Intitolata “Birthing”, l’esibizione lo vedeva cantare e ballare con un pesante costume di velluto finchè non si sdraiava per terra e, aprendo le gambe davanti al pubblico, partoriva la sua assistente Nicola Bateman che usciva dall’imbracatura (nascosta sulla pancia dell’artista), ricoperta di sangue di scena e con una fila di salsicce al posto del cordone ombelicale. A conclusione dello spettacolo, già stupefacente di per se, Bowery tagliava anche il finto cordone ombelicale e nutriva Bateman, facendo cadere nella bocca di lei una cucchiaiata di minestrone (che era riuscito a conservare, non si sa come, sotto il costume). Potete vederne una rappresentazione qui.

Lucian Freud, Nude with Leg Up (Leigh Bowery) 1992 © The Lucian Freud Archive. All Rights Reserved 2024.

Nella sua storia, il fatto che nell’85 l’artista abbia fondato Taboo (un locale notturno londinese rivolto soprattutto alla clientela gay ma frequentato anche da etero) ha un peso. Innanzitutto per il successo del club, in cui gente di ogni tipo si mischiava a celebrità come Bryan Ferry, George Michael e Mick Jagger. “Di questi tempi- scrisse la giornalista Alix Sharkey su ID, bibbia dello street style dell’epoca- il giovedì sera nel West End di solito significa Taboo, il club più squallido, più kitsch e più stronzo del momento a Londra, pieno di stilisti, modelle, studenti, feccia e, si spera, alla moda (…)” E poi perché fu un palcoscenico a sua misura che gli permise di farsi conoscere e conoscere (qui, per esempio, incontra l’artista Cerith Wyn Evans che gli presenterà il famoso pittore Lucian Freud e comincerà l’amicizia con la sua futura collaboratrice, la stilista Nicola Bateman).

Il signor Bowery era apertamente gay ma appena pochi mesi prima di morire sposò Bateman. In merito a questo improbabile matrimonio nel corso del tempo sono girate varie spiegazioni (si erano sposati per il permesso di soggiorno, per ragioni fiscali ecc.) e lo stesso sposo ha definito la cerimonia “una performance artistica personale" ma Sue Tilley (amica strettissima dell’artista) ha detto che in ospedale lui le aveva confessato di temere che Nicola lo lasciasse per un altro uomo.

Solo a Bateman e Tilley, lui confidò di avere l’AIDS (che ai tempi era un killer senza scampo né pietà). Morì la notte di capodanno del ’94, Freud pagò il rimpatrio della salma in modo che potesse riposare accanto alla madre. Ma al momento della sepoltura i famigliari si resero conto che la fossa era troppo piccola per la grande bara che conteneva le spoglie dell’artista e dovettero rimettersi a scavare.

Leigh Bowery!”, organizzata dal museo inglese in collaborazione con Nicola Rainbird (nata Bateman) e curata da Fiontán Moran, resterà alla Tate Modern di Londra fino al 31 agosto 2025.

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 4 Look 17 August 1991 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 7, Look 37 June 1994 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

9. Dick Jewell Still from What's Your Reaction to the Show 1988 © Dick Jewell.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

17. Lucian Freud, Leigh Bowery 1991 © The Lucian Freud Archive. All Rights Reserved 2024.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

Fergus Greer, Leigh Bowery Session 3 Look 14 August 1990 ©Fergus Greer. Courtesy Michael Hoppen Gallery.

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

Leigh Bowery! Tate Modern. Installation view. Tate Photography: Larina Annora Fernandes

L’artista della globalizzazione e del nazionalismo Yukinori Yanagi tornerà sulla scena internazionale al Pirelli Hangar Bicocca nella nuova era post-globale

Yukinori Yanagi Hinomaru Illumination, 2010 Neon, neon transformer, programming circuit, painted steel, mirror, water 220 x 450 x 660 cm Permanent installation, ART BASE MOMOSHIMA, Hiroshima Photo Road Izumiyama

All’apice della fama tra gli anni ’90 e i primi del 2000 (non a caso, proprio nel momento di prima maturità della globalizzazione), Yukinori Yanagi sta tornando ad esporre a livello internazionale dopo aver passato un lungo periodo della sua vita su isole asiatiche remote (in cui ha costruito musei ridando slancio ad architettura, economia, turismo e demografia, oltre a consegnare ai posteri la sua opera).

E una delle tappe più importante di questa ripartenza sarà proprio in Italia il mese prossimo, quando si inaugurerà “Icarus”. La mostra, che si terrà al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, infatti, sarà la prima antologica mai dedicata in Europa al sessantacinquenne giapponese.

Originario della prefettura di Fukuoka, nel Giappone meridionale, il signor Yanagi, con le sue opere concettuali ma visivamente accattivanti, esplora temi complessi come globalizzazione, tecnologia, nazionalismo, dinamiche governative e paradossi delle società attuali. Senza dimenticare materie particolarmente sensibili (in Giappone) come il sistema imperiale e la costituzione dell’arcipelago nipponico (non nacque spontaneamente ma venne imposta dagli americani alla fine della guerra). Per questo è considerato uno dei primi artisti contemporanei ad essere stati apertamente critici nei confronti della società e della politica governativa giapponese.

A regalargli il successo internazionale però furono le formiche.

Yukinori Yanagi The World Flag Ant Farm, 1990 Ants, colored sand, plastic boxes, plastic tubes, plastic pipes, monitors 180 boxes, 24 x 30 cm (each) Installation view, Benesse House Museum, Naoshima, Kagawa, Japan, 2008 Photo YANAGI STUDIO Collection of Benesse Holdings, Inc., Okayama

Intenti a scavare gallerie nelle bandiere di sabbia, erodendole e portando granelli dell’una in quelli dell’altra, i minuscoli insetti, protagonisti della serie “Ant Farm”, gli permisero di aggiudicarsi il premio Aperto (allora Aperto era la sezione dedicata agli artisti più attuali) alla Biennale di Venezia del ’93. Da quel momento in avanti il signor Yanagi si era guadagnato un posto sul palco globale dell’arte contemporanea; da cui avrebbe affrontato gli argomenti che gli stavano a cuore, attraverso un linguaggio capace di fondere cultura alta e bassa (sono frequenti i riferimenti ad insegne, personaggi di fantasia e anime). Tuttavia questa posizione privilegiata gli avrebbe portato anche delle grane (a cominciare dalla resistenza in patria verso alcune sue opere che toccavano nervi scoperti della rappresentazione dell’identità giapponese).

Ai tempi Yukinori Yanagi abitava negli Stati Uniti, dove aveva affrontato parte dei suoi studi (è stato borsista d’arte a Yale con Vito Acconci e Frank Gehry) e dove si era trasferito stabilmente dopo aver vinto Aperto alla Biennale. Del resto non avrebbe potuto fare altrimenti, visto che al principio della sua carriera aveva la sensazione di “essere intrappolato in una gigantesca bandiera giapponese, in una gabbia, inghiottito dall'identità nazionale”. In quel periodo le sue opere furono acquisite dal Moma di New York, dal Virginia Art Museum e della Tate di Londra. Ma quel ciclo era destinato a concludersi e se ne tornò in Giappone.

In un’intervista ha detto: "In un certo senso, avevo raggiunto un certo livello di successo in Occidente, ma sono sfuggito dalle 'restrizioni' che derivavano dalla fama che avevo acquisito lì e sono finito su un'isola in Giappone”.

Inujima Seirensho Art Museum, Japan, 2008 Photo YANAGI STUDIO

Prima c’è stata Inujima, un'isola nel Mare interno di Seto (al largo della costa della città di Okayama nel Giappone centro-meridionale) che nel 2017 contava una popolazione di 47 abitanti, dove c’erano i resti di una raffineria di rame abbandonata all’inizio del ‘900 e che “veniva utilizzata per depositare rifiuti”. Il signor Yanagi lì ha costruito un museo innovativo e completamente ecosostenibile (mantiene la stessa temperatura tutto l’anno attraverso l’energia di terra, vento e sole che lo illuminano pure). Al Inujima Smelter Museum è seguito il Momoshima Art Base sulla minuscola isola di Momoshima (al largo della città di Onomichi nella prefettura di Hiroshima) e poi un altro sull’isola di Anjwa in Corea del Sud (probabilmente si chiamerà Museo Galleggiante e dovrebbe essere inaugurato nella primavera di quest’anno).

Riguardo il suo impegno verso delle isolette sperdute ha spiegato: “Ho sempre amato le navi e sono il tipo di persona che non riesce a creare arte se non è vicino al mare. Penso che le isole siano come una versione in miniatura del Giappone”.

Se lo spirito provocatorio e la predilezione per temi politici del signor Yanagi, si possono leggere come dirette conseguenze della sua storia famigliare (il padre si arruolò volontario come pilota kamikaze durante la seconda guerra mondiale), l’interesse per i confini si deve alla posizione geografica della loro casa (vista la vicinanza della costa di Fukuoka alla Corea, il piccolo Yukinori raccoglieva oggetti trasportati dal mare da un Paese straniero). Nipote dell’artista d’avanguardia Miyazaki Junnosuke, fin da bambino era abituato all’arte contemporanea e, spesso, si inventava giochi che includevano la partecipazione delle formiche e di altri insetti.

A Milano oltre a dipinti in cui lui ha seguito con il pennello il percorso di una formica, ci sarà una grande versione di Ant Farm: “The World Flag Ant Farm 2025” (composta da duecento bandiere di sabbia in scatole di plexiglass che rappresentano i 193 Stati riconosciuti dalle Nazioni Unite e 7 stati che non sono membri delle Nazioni Unite come Taiwan, Tibet e Palestina. Le bandiere saranno collegate da tubi in cui si muoveranno migliaia di formiche). Altre installazioni fondamentali nel percorso dell’artista giapponese ma soprattutto un gruppo di opere completamente nuove completeranno l’importante antologica.

La mostra “Icarus” (il nome, ispirato al mito greco, fa riferimento ai pericoli della tecnologia) di Yukinori Yanagi sarà al Pirelli Hangar Bicocca di Milano dal 27 marzo al 27 luglio 2025. Un periodo particolarmente azzeccato, se si pensa che solo da poco il mondo è entrato in una nuova era post-globale.

Yukinori Yanagi Icarus Cell, 2008 Iron corridor, mirrors, frosted glass, video, sound Permanent installation, “Hero Dry Cell,” Inujima Seirensho Art Museum, Okayama, Japan, 2008 Photo Road Izumiyama Collection of Fukutake Foundation, Naoshima

Yukinori Yanagi Wandering Position, 1997 Ant, steel angle, wax-crayon, monitor 520 x 520 cm Installation view, Chisenhale Gallery, London, 1997 Photo YANAGI STUDIO

Yukinori Yanagi Article 9, 1994 Neon, plastic box, print on transparency sheet, acrylic frame Dimensions variable Installation view, 8. Busan Biennale, 2016 Photo Road Izumiyama

Yukinori Yanagi Absolute Dud, 2007 Iron 305 x ⌀ 76 cm Installation view, BankART Studio NYK, Yokohama, Kanagawa, Japan, 2016 Photo Road Izumiyama

Yukinori Yanagi Project God-Zilla Onomichi U3, 2017 Mixed media, scraps from a demolished house, mirrors, acrylic, video, sound Installation view, Nishigosho Prefectural Warehouse No.3, Hiroshima, Japan, 2017 Photo YANAGI STUDIO

Yukinori Yanagi Banzai Corner, 1991 Plastic toys, mirror 112 x 239 x 241 cm Permanent installation, ART BASE MOMOSHIMA, Hiroshima, Japan Photo Road Izumiyama

Yukinori Yanagi The World Flag Ant Farm, 1990 Ants, colored sand, plastic boxes, plastic tubes, plastic pipes, monitors 180 boxes, 24 x 30 cm (each) Installation view, Benesse House Museum, Naoshima, Kagawa, Japan, 2008 Photo YANAGI STUDIO Collection of Benesse Holdings, Inc., Okayama

Yukinori Yanagi Portrait Photo Hideyo Fukuda

“When we see us”: la blackness in un affresco senza tempo e senza luogo firmato da Koyo Kouoh (che curerà la prossima Biennale di Venezia)

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

In un parco apparentemente distante dal traffico cittadino un ragazzo e una ragazza si concentrano l’uno sull’altra, il loro atteggiamento è rilassato, intenerito, forse stanno chiacchierando e malgrado si possa immaginare il tono scuro della loro pelle, le innumerevoli sfumature di blu che compongono l’immagine rendono la caratteristica una vaga congettura. Non molto lontano, invece, un uomo mette in risalto la sua carnagione nerissima con un completo turchese, una camicia bianca e un fiore arancio, è vanitoso (si intuisce fiero di essere guardato), mentre appare al centro di un dipinto dai toni vivi, quasi caraibici.

Sono protagonisti diversi di opere diverse. Tutti però accumunati dall’essere neri, colti in un momento ordinario (diventato straordinario attraverso l’arte). E felici di essere vivi.

Il romantico pic-nic monocromatico (“Blue Park Lovers”) dell’artista originario del Missuri (che adesso vive in Connecticut) Dominic Chambers; e il ritratto variopinto (“View of Yoei William”) del ghanese-statunitense, Otis Kwame Kye Quaicoe; sono solo due delle innumerevoli interpretazioni della blackness espresse in “When We See Us: A Century of Black Figuration in Painting”. La mostra, che si è inaugurata il 7 febbraio scorso al Centro per le Arti Bozar di Bruxelles (Belgio), curata da Koyo Kouoh e Tandazani Dhlakama, è infatti, un affresco senza tempo ne luogo sull’autorappresentazione nera.

Malgrado “When We See Us”, ideata e promossa dallo Zeitz MOCAA di Città del Capo (il museo sudafricano diretto dal critico camerunense, Koyo Kouoh), sia stata già allestita lo scorso anno al Museo d’Arte di Basilea (Svizzera), è balzata al centro dell’interesse del pubblico internazionale da quando la signora Kouoh è stata nominata curatrice della Biennale di Venezia del prossimo anno (quello belga è il primo evento europeo a sua firma da allora).

Dominic Chambers, Blue Park Lovers, 2020. Jorge M. Pérez Collection, Miami © Courtesy of the artist and Luce Gallery

La mostra, che ispira il proprio titolo alla famosa serie Netflix del 2019 “When They See Us” della regista Ava DuVernay, espone opere di artisti africani, afroamericani e della diaspora, per di più nati in periodi storici molto differenti (il lavoro più antico è datato 1930 mentre il più recente è di appena due anni fa). D’altra parte “When We See Us”, chiarisce di non avere pretese ortodosse, nel momento in cui rinuncia a disporre in successione cronologica le opere, e a raggrupparle in base al paese di origine o di residenza degli artisti, ma sceglie invece di dividere il materiale in sei capitoli diversi (Quotidianità; Riposo; Trionfo ed Emancipazione; Sensualità; Spiritualità; Gioia e Svago) accumunati da un approccio nuovo all’argomento.

When We See Us”, infatti, rispetto alla serie di DuVernay (afroamericana anche lei; racconta la storia vera di un gruppo di bambini di colore ingiustamente condannati per un grave reato che non avevano commesso) decide di dar conto della gioia di essere neri.

Koyo Kouoh e la co-curatrice della mostra Tandazani Dhlakama, hanno così spiegato la loro scelta: "Questa mostra si rifiuta di mettere in primo piano il dolore e l'ingiustizia e invece ci ricorda che l'esperienza dei neri può anche essere vista attraverso la lente della gioia. Per celebrare il modo in cui gli artisti africani e della sua diaspora hanno immaginato, posizionato, commemorato e affermato le esperienze africane e degli afrodiscendenti, la mostra contribuisce al discorso critico sui movimenti di liberazione, intellettuali e filosofici africani e neri".

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

La signora Kouoh sembra poi dirci che il mondo è piccolo e quello dell’arte lo è ancora di più: gli artisti di colore (come gli altri, del resto) si informano e si guardano vicendevolmente, alla ricerca di un’identità nera condivisa, ma soprattutto nel tentativo di trovare le travi portanti di una storia dell’arte a loro misura.

I numeri di “When They See Us”(in effetti piuttosto impressionanti) si spiegano proprio in quest’ottica. Con 52 prestatori provenienti da 17 paesi e 5 continenti, l’esposizione, presenta la bellezza di 155 opere di 118 artisti diversi. Alcuni conosciuti (ci sono ad esempio: la famosa pittrice britannica Lynette Yiadom-Boakye; oltre agli afroamericani Kehinde Wiley ed Amy Sherald che vennero scelti per fare i ritratti ufficiali dell’ex presidente Obama e dell’allora first lady) altri meno. Tanto diversi che l’autodidatta afroamericana Clementine Hunter (nata in Luisiana nel 1887 e scomparsa a 99 anni dopo aver lavorato in una piantagione e conosciuto il successo artistico in tarda età) è esposta insieme alla sudafricana ventiseienne, Zandile Tshabalala.

Sempre da questo punto di vista va guardata la cronologia grafica in mostra (che dalla Rivoluzione haitiana arriva al movimento Black Lives Matter). E il paesaggio sonoro del compositore e sound artist sudafricano Neo Muyanga, che riecheggia di musiche provenienti da tutto il mondo in risposta ai vari capitoli della mostra.

Stilisticamente, invece, si può dire che la signora Kouoh abbia preferito dar voce a una moltitudine di dialetti della stessa lingua madre, visto che pur esponendo artisti figurativi (il più delle volte pittori) ci fa notare quanto le loro forme espressive si discostino le une dalle altre con tessuti e glitter che fanno la loro comparsa accanto a pennellate e tavolozze ben distinte.

Pur se tutte le opere sono accostate o giustapposte per mettere in luce nuove similitudini (che senza il loro incontro non sarebbe stato possibile cogliere)

Nell'ultimo decennio- ha detto la curatrice- la pittura figurativa di artisti neri ha raggiunto una nuova importanza nell'arte contemporanea. Non c'è momento migliore per una mostra di questa natura, che collega queste pratiche e rivela i contesti storici più profondi e le reti di genealogie artistiche complesse e sottorappresentate che derivano dalle modernità africane e nere; una mostra che dimostra come più generazioni di tali artisti si siano deliziate e si siano impegnate in modo critico nel proiettare varie nozioni di nerezza e africanità”.

Le opere poi, lungi dall’essere appese su muri bianchi senza nulla che distragga lo sguardo, sono evidenziate da pareti intensamente laccate, con colori in qualche modo contrastanti per rendere ancora più drammatico il passaggio da un punto di vista all’altro. Anche in questo Koyo Kouoh dimostra momenti di contatto con lo stile curatoriale del brasialiano Adriano Pedrosa (dirige il Museu de arte de São Paulo e ha firmato la scorsa edizione della Biennale di Venezia).

When We See Us”, esteticamente, è una mostra dalla forte personalità e, malgrado sia fuori dagli schemi, non rinuncia né a lavorare su una Storia dell’arte in versione black, né a riflettere sugli strumenti di lavoro necessari ad una nuova critica. Come testimoniano le tante pubblicazioni messe a disposizione dei visitatori (monografie, cataloghi di mostre, testi di teoria critica e raccolte, compresi scritti importanti che hanno plasmato il canone storico dell'arte nera). La scelta di evitare il solito copione (incluso il razzismo) poi, è segno di una acuta sensibilità (molto femminile) che sottolinea la forza, la libertà e l’autosufficienza delle persone di colore.

When We See Us” è il risultato dell’ampia ricerca di Koyo Kouoh sull’arte nera e rimarrà nelle spaziose sale dell’edificio liberty in cui ha sede il Bozar (nel cuore del quartiere reale di Bruxelles) fino al 10 agosto 2025. All’esposizione il museo ha affiancato eventi di ogni genere (concerti, conferenze, dibattiti, aperture notturne, visite guidate, film, spettacoli, e persino videogiochi).

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Otis Kwame Kye Quaicoe, View of Yoei William, 2020.© Courtesy the artist and Roberts Projects, Los Angeles, California; Foto Mario Gallucci

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Wangari Mathenge (b.1973, Nairobi, Kenya) Sundials and Sonnets 2019 Oil on canvas CollecƟon of Pascale M. Thomas and Tayo E. Famakinwa, courtesy of Roberts Projects, Los Angeles, California © Courtesy of the arƟst and Roberts Projects, Los Angeles, California; Photo Robert Wedemeyer

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Thenjiwe Niki Nkosi (b.1980, New York City, USA) Ceremony 2020 Oil on canvas Courtesy of Homestead CollecƟon © Thenjiwe Niki Nkosi. Courtesy of Stevenson, Amsterdam/Cape Town/Johannesburg. Photo Nina Lieska

Bozar When We SeeUs Credit: Julie Pollet

Zandile Tshabalala (b.1999, Soweto, South Africa)Two Reclining Women 2020 Acrylic on canvas Courtesy of the Maduna CollecƟon © Zandile Tshabalala Studio

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

BOZAR, When We See Us Photo credit: We Document Art

BOZAR, When We See Us Photo credit: We Document Art

Koyo KOUOH, portrait. Courtesy of Zeitz MOCAA